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SALITA DEL MONTE CARMELO -opera integrale di S.Giovanni d.Croce

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2009 10:12
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29/09/2009 21:41

 

CAPITOLO 12

Ove si risponde a un’altra domanda, dicendo quali sono gli appetiti sufficienti a provocare nell’anima i suddetti danni.

1. Potrei dilungarmi molto su questa materia della notte dei sensi, analizzando ancora altri danni che causano gli appetiti, non solamente sotto gli aspetti già considerati, ma altresì sotto molti altri. Tuttavia, per lo scopo che mi sono prefisso, basta quanto è stato detto. Mi sembra, infatti, d’aver spiegato sufficientemente perché la mortificazione degli appetiti si chiami notte e quanto sia opportuno entrare in essa per andare a Dio. Per concludere questa parte, rimane solo da risolvere qualche dubbio che potrebbe sorgere nella mente del lettore su ciò che ho detto, prima di affrontare il modo di entrare in questa notte.

2. Anzitutto ci si potrebbe chiedere se basti un qualsiasi appetito a produrre e causare nell’anima i due mali sopracitati, cioè quello privativo, che priva l’anima della grazia di Dio, e quello positivo, che provoca in essa i cinque danni principali, dei quali, appunto, ho parlato. In secondo luogo ci si potrebbe chiedere se sia sufficiente qualsiasi appetito, per quanto piccolo e di qualsiasi genere, a causare tutti questi cinque danni insieme, oppure se alcuni appetiti causino determinati danni, e altri danni diversi; per esempio, se alcuni causino tormento, altri stanchezza, altri tenebra, ecc.

3. Per rispondere al primo dubbio circa il danno positivo, dico che solo gli appetiti volontari, aventi per oggetto il peccato mortale, possono privare l’anima di Dio e lo fanno totalmente. Essi, infatti, privano l’anima della grazia in questa vita e nell’altra della gloria, cioè del possesso di Dio. Al secondo dubbio rispondo affermando che sia gli appetiti in materia di peccato mortale sia quelli volontari in materia di peccato veniale o di imperfezione sono sufficienti a provocare nell’anima tutti questi danni positivi insieme. Li chiamo positivi, sebbene in un certo senso siano privativi, perché si riferiscono all’anima che si volge alle cose create, come il privativo di riferisce al suo allontanamento da Dio. Ma c’è una differenza: gli appetiti, aventi per oggetto il peccato mortale, causano cecità totale, tormento, sporcizia e debolezza, ecc.; mentre quelli aventi per oggetto i peccati veniali o l’imperfezione non causano questi mali in forma assoluta e in sommo grado, perché non privano l’anima della grazia, da cui dipende la loro presenza. La morte della grazia è, infatti, la vita degli appetiti. Tuttavia essi provocano nell’anima qualcosa di tali mali gradualmente, a mano a mano che diminuisce in essa la grazia. In questo modo, più un appetito riduce l’azione della grazia, più grave è il tormento, la cecità e l’impurità che procura all’anima.

4. Va notato, però, che, sebbene ciascun appetito causi tutti questi mali che ho chiamato positivi, tuttavia ve ne sono alcuni che ne provocano uno in modo principale e diretto, dal quale poi derivano tutti gli altri. Sebbene sia vero che un appetito sensuale causi tutti questi mali, è altrettanto vero che principalmente e propriamente esso insudicia l’anima e il corpo. Tutti questi danni li provoca anche l’appetito dell’avarizia, ma principalmente e direttamente esso genera afflizione. Allo stesso modo, sebbene un appetito di vanagloria, come gli altri, sia causa di tutti quegli effetti, principalmente e direttamente, però, esso provoca tenebre e cecità. Infine, sebbene un appetito di gola generi i suddetti mali, principalmente provoca tiepidezza nella virtù. Lo stesso vale per gli altri appetiti.

5. Qualsiasi atto volontario degli appetiti produce, dunque, nell’anima tutti questi effetti insieme, perché è direttamente contrario agli atti di virtù che producono nell’anima gli effetti contrari. Come un atto di virtù produce nell’anima e genera allo stesso tempo soavità, pace, consolazione, luce, purezza e forza, così un appetito disordinato causa tormento, fatica, stanchezza, cecità e debolezza. Tutte le virtù crescono quando se ne pratica una, e tutti i vizi, insieme agli effetti da essi lasciati nell’anima, crescono con l’aumentare di uno di essi. E sebbene nel momento in cui si soddisfa quell’appetito non si riescano a vedere tutti questi mali, perché il piacere provato non lo consente, tuttavia prima o poi se ne avvertono le conseguenze. Tale verità viene chiaramente insegnata nell’Apocalisse, quando l’angelo comanda a san Giovanni di mangiare un libro, che gli sembrò dolce nella bocca e amaro nelle viscere (Ap 10,9-10). Infatti, quando l’appetito viene soddisfatto è dolce e sembra buono, ma dopo se ne avvertono i suoi amari effetti. Questo lo può ben dire chi si lascia trasportare dalle passioni. Non ignoro, tuttavia, che esistono persone tanto cieche e insensibili da non sentire tale amarezza, perché, non curandosi di andare a Dio, non si preoccupano degli ostacoli che li separano da lui.

6. Qui non tratterò degli appetiti secondo natura, che sono involontari, né dei pensieri che rimangono allo stadio di moti primi, né di altre tentazioni alle quali non si acconsente, perché tutti questi non recano nessuno dei mali suddetti all’anima. La persona che li subisce, a causa della passione e del turbamento che in quel momento le provocano, può pensare che la stiano sporcando e accecando, ma non è così; anzi, le procurano i vantaggi contrari. Opponendo resistenza ad essi, infatti, acquista fortezza, purezza, luce, consolazione e molti altri beni, secondo quanto il Signore ha insegnato a san Paolo: La virtù si manifesta pienamente nella debolezza (2Cor 12,9). Quanto agli appetiti volontari, essi provocano tutti i mali di cui abbiamo parlato e molti altri. Per questo la preoccupazione principale dei maestri di spirito è quella di mortificare nei loro discepoli qualsiasi appetito, invitandoli a privarsi della soddisfazione dei loro desideri, per liberarli da una miseria così grande.


Sezione 2

Cap.

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LIBRO II

della Salita del monte Carmelo, in cui si parla del mezzo immediato per giungere all’unione con Dio, cioè della fede, e altresì della seconda parte della notte, chiamata notte dello spirito. Di essa si tratta nella seconda strofa.

CAPITOLO 1

Seconda strofa

Al buio e più sicura,

per la segreta scala, travestita,

oh, sorte fortunata!,

al buio e ben celata,

stando la mia casa al sonno abbandonata.

1. In questa seconda strofa l’anima canta la sorte fortunata che le è toccata nel liberare lo spirito da ogni imperfezione e da ogni brama di appropriarsi dei beni spirituali. La sua sorte è stata tanto più felice in quanto ha incontrato maggiori difficoltà per addormentare la casa nella parte spirituale ed entrare in questa oscurità interiore, che è privazione spirituale di ogni cosa, tanto sensitiva che immateriale, appoggiandosi solo alla pura fede e per mezzo di essa salire fino a Dio. La fede viene qui chiamata segreta scala, perché tutti i suoi gradini o articoli di fede che essa contiene sono segreti e nascosti tanto ai sensi quanto all’intelletto. L’anima, dunque, all’oscuro di ogni luce naturale dei sensi e dell’intelletto, oltrepassa i limiti della sua natura e ragione per salire questa divina scala della fede; attraverso questa giunge a penetrare fin nelle profondità di Dio. L’anima dice che procedeva travestita, perché, salendo per mezzo della fede, il suo costume, la veste e il portamento umano si erano cambiati in divino travestimento. Tale trasformazione le consentiva di non essere riconosciuta né trattenuta dalle realtà temporali né da quelle della ragione e nemmeno dal demonio, poiché nulla di tutto questo può danneggiare chi cammina nella fede. Ma c’è di più. L’anima è talmente protetta, nascosta e al sicuro da tutti gli inganni del demonio da poter camminare veramente – come dice in questo verso – al buio e ben celata, cioè senza essere vista dal demonio, per il quale la luce della fede è densa tenebra. Possiamo, dunque, affermare che l’anima che procede alla luce della fede avanza al riparo e nascosta agli occhi del demonio, come si vedrà più chiaramente in seguito.

2. Essa afferma, perciò, di essere uscita al buio e più sicura. Chi ha la fortuna di poter camminare tra le oscurità della fede e, come un cieco, assume questa per guida, si libera da tutte le rappresentazioni naturali e dai ragionamenti spirituali, procedendo molto sicuro, come già ho detto. L’anima aggiunge che entrò in questa notte dello spirito, stando la sua casa al sonno abbandonata. Ciò vuol dire che quando l’anima giunge all’unione con Dio, ha messo a tacere la sua parte spirituale e razionale: le sue potenze naturali sono inattive, sopiti gli impeti e le ansie dei sensi nella parte spirituale. Per questo motivo, qui non dice che uscì con ansie, come nella prima notte dei sensi, perché, per entrare in essa e spogliarsi di ciò che appartiene ai sensi, occorreva che avesse sperimentato ansie di amore sensibile per poterne uscire; invece, per placare definitivamente la casa dello spirito, si richiede di consolidare nella pura fede le sue potenze, le sue attrattive e tutti gli appetiti spirituali. Fatto questo, l’anima si unisce all’Amato in un’unione piena di semplicità, purezza, amore e somiglianza.

3. Occorre notare che nella prima strofa, parlando della parte sensitiva, l’anima dice che uscì in una notte oscura: mentre qui, ove si tratta della parte spirituale, afferma che uscì al buio, perché le tenebre dello spirito sono più dense, proprio come il buio è tenebra più profonda dell’oscurità della notte. Difatti, per quanto fonda possa essere una notte, tuttavia si scorge qualcosa, mentre al buio non si vede nulla. Così nella notte dei sensi c’è ancora qualche luce, perché operano, senza essere accecati, l’intelletto e la ragione. Nella notte dello spirito, ossia nella fede, invece, vi è totale privazione di luce sia nell’intelletto che nei sensi. Per questo motivo l’anima afferma che camminava al buio e più sicura, cosa che non faceva nell’altra notte. Quanto meno essa si affida alle sue capacità naturali, tanto più avanza sicura, perché procede nella fede. Ciò è quanto verrà esposto diffusamente in questo libro II. Sarà, perciò, necessario che il devoto lettore ponga attenzione, perché in esso dirò cose molto importanti circa il vero spirito. E sebbene queste verità presentino qualche difficoltà a essere comprese, tuttavia esse sono collegate così bene tra loro che la conoscenza di una parte apre alla comprensione delle altre, in modo che si possa capire tutto molto bene.

CAPITOLO 2

Ove si comincia a parlare della seconda parte o causa della notte, che è la fede. Con due argomenti si prova che questa è più oscura della prima e della terza

1. Ora è il momento di trattare della seconda parte di questa notte, cioè della fede. Questa è, come ho detto, il meraviglioso mezzo per arrivare al fine che è Dio, che, a sua volta, costituisce per l’anima la terza causa o parte di questa notte. La fede, infatti, in quanto mezzo, può essere paragonata alla mezzanotte. Si può allora dire che per l’anima questa parte della notte è più oscura della prima e, in un certo senso, della terza. La prima, infatti, cioè la notte dei sensi, è paragonata alla prima parte della notte, quando scompaiono dalla vista tutti gli oggetti materiali, senza però che la luce scompaia del tutto, come accade invece a mezzanotte. La terza parte, che corrisponde all’aurora, quando ormai si è prossimi alla luce del giorno, non è così oscura come la mezzanotte, perché precede immediatamente l’irradiazione e lo splendore della luce diurna ed è paragonata a Dio. Infatti, da un punto di vista naturale, è pur vero che Dio per l’anima è come una notte oscura quanto la fede. Tuttavia, allorché l’anima ha attraversato queste tre parti naturali della notte, Dio comincia a illuminarla soprannaturalmente con i raggi della sua luce. È l’inizio dell’unione perfetta che si realizza al termine della terza notte, ragion per cui si può dire che questa sia meno oscura delle altre.

2. La notte della fede è ancora più oscura della prima, perché, mentre questa riguarda la parte inferiore, cioè i sensi dell’uomo, e per conseguenza è più esterna, quella della fede riguarda la parte superiore o razionale dell’uomo. Questa è, quindi, più interiore e più oscura, perché priva l’anima della luce della ragione o, per meglio dire, l’acceca. A buon diritto, perciò, è paragonata alla mezzanotte, che è la parte culminante e più buia della notte.

3. Ora devo provare come questa seconda parte, cioè la fede, sia una notte per lo spirito, come la prima lo è per i sensi. Parlerò, poi, degli ostacoli che la fede incontra e come l’anima debba disporsi attivamente per entrare in essa. Del suo aspetto passivo, cioè di quanto Dio faccia per introdurla in questa notte, senza il concorso dell’anima, tratterò a suo luogo, cioè nel libro terzo.

CAPITOLO 3

Ove si dimostra con argomenti, autorità e figure della sacra Scrittura come la fede sia una notte oscura per l’anima.

1. I teologi affermano che la fede è un abito certo e oscuro dell’anima. È abito oscuro perché induce a credere verità rivelate da Dio stesso, che sono al di sopra di ogni luce naturale e superano oltre misura ogni umana comprensione. Ne consegue che la luce eccessiva della fede è per l’anima profonda oscurità, perché il più assorbe e vince il meno, come la luce del sole eclissa qualsiasi altra luce, al punto che questa scompare quando quella risplende vincendo la nostra potenza visiva. In tal modo questa rimane piuttosto accecata e priva della vista, perché la luce che riceve è sproporzionata ed eccessiva. Allo stesso modo la luce della fede, per sua natura ha come oggetto solo la scienza naturale. Tuttavia l’anima è in grado di accogliere quella soprannaturale, qualora il Signore voglia elevarla a tale ordine.

2. Ne consegue che l’intelletto, di per sé, può conoscere solo per via naturale, cioè solo ciò che raggiunge attraverso i sensi. Ma a tale scopo esso ha bisogno dei fantasmi e delle immagini offertigli dagli oggetti realmente presenti o che a loro somigliano. Senza questa mediazione non vi è conoscenza alcuna, perché, come dicono i filosofi, ab obiecto et potentia paritur notitia, cioè ogni cognizione umana nasce con il concorso dell’oggetto presente e delle potenze. Per esempio, se a uno dicessero che in una certa isola esiste un animale che egli non ha mai visto e non gli indicano qualche somiglianza di quell’animale con un altro da lui conosciuto, sebbene s’insista a parlargliene, non ne avrà un’idea più chiara di prima. Con un esempio ancor più chiaro si potrà capire meglio. Se a un cieco nato, che non ha mai visto alcun colore, si volesse descrivergli il bianco o il giallo, per quanto si insista, egli non se ne potrà mai fare un’idea, perché non ha mai visto quei colori né qualcosa di simile; gliene rimarrà solo il nome, che ha potuto sentire con l’udito, ma non la forma e la figura, che non ha mai visto.

3. Lo stesso è della fede per l’anima: essa ci propone cose che non abbiamo mai visto né compreso sia in se stesse che in altre cose simili a loro, perché non esistono. Di tale fede, quindi, non possiamo farci un’idea attraverso la nostra scienza naturale, perché ciò che ci propone non è proporzionato a nessuna potenza sensitiva. Noi lo apprendiamo solo per sentito dire, credendo ciò che la fede c’insegna, sottomettendo ad essa e mettendo da parte la nostra luce naturale. Difatti san Paolo afferma: Fides ex auditu: La fede dipende dall’udire la predicazione (Rm 10,17), quasi a voler dire che la fede non è una scienza che si ottiene tramite i sensi, ma è solo assenso dell’anima a ciò che essa percepisce attraverso l’udito.

4. La fede, inoltre, supera di molto quanto ci possono far capire i precedenti esempi. Infatti non solo non offre conoscenze e scienza, ma, come ho detto, oscura e priva l’anima di qualsiasi altra conoscenza e scienza, perché si possa ben calcolare la sua funzione in questa parte della notte. Le altre scienze, infatti, si acquistano con la luce dell’intelletto, senza la quale, invece, si acquista la luce della fede; quando, anziché rinnegare la ragione, la si adopera, la fede viene meno. Per questo Isaia dice: Si non credideritis, non intelligetis, cioè: Se non crederete, non comprenderete (Is 7,9). È, dunque, chiaro che la fede è notte oscura per l’anima, e solo così la illumina; quanto più l’ottenebra, tanto più luce le comunica, perché, accecandola, le dà luce, come dice Isaia: Perché, se non crederete, non comprenderete, cioè non avrete luce. Per questo motivo, la fede è raffigurata da quella nube che divideva i figli d’Israele dagli egiziani, al momento di entrare nel Mar Rosso. Di essa la sacra Scrittura dice che erat nubes tenebrosa et illuminans noctem (Es 14,20), per significare che quella nube era tenebrosa e illuminava la notte.

5. Stupisce che quella nube, pur essendo tenebrosa, illuminasse la notte. Questo perché la fede, che è nube oscura per l’anima – che a sua volta è notte, perché in presenza della fede rimane priva e cieca della sua luce naturale –, con le sue tenebre rischiara e dà luce alle tenebre dell’anima. Del resto è opportuno che il discepolo, cioè l’anima, sia simile al maestro, cioè alla fede. L’uomo immerso nelle tenebre non può essere giustamente illuminato che da alte tenebre, come ci insegna Davide, quando afferma: Dies diei eructat verbum et nox nocti indicat scientiam, cioè: Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia (Sal 18,3). In termini più chiari ciò vuol dire: il giorno, che è Dio nella sua beatitudine, ove è come il giorno per gli angeli e i santi che a loro volta sono giorno per i riflessi divini, pronuncia e comunica la Parola, il suo Figlio, perché lo conoscano e lo godano. La notte, che è la fede nella Chiesa militante, dov’è ancora notte, comunica la scienza alla Chiesa, quindi a ogni anima, che è notte, perché non gode della chiara sapienza beatifica, come pure della sua luce naturale a motivo della fede in essa presente.

6. Da ciò dobbiamo concludere che la fede, essendo notte oscura, dà luce all’anima, che vive al buio, perché si realizzi ciò che Davide dice a questo proposito: Nox illuminatio mea in deliciis meis, cioè: La notte è chiara come il giorno nelle mie delizie (Sal 138,11). Il che equivale a dire: nelle gioie della mia pura contemplazione e unione con Dio, la notte della fede sarà la mia guida. Con ciò egli fa capire chiaramente che l’anima deve tenersi nelle tenebre se vuole avere la luce necessaria per intraprendere questo cammino di unione con Dio.

CAPITOLO 4

Ove si dice, in maniera generale, come l’anima, per quanto dipende da essa, debba starsene al buio per essere ben guidata dalla fede sino ai vertici della contemplazione.

1. Credo, ormai, di aver fatto capire un po’ come la fede sia notte oscura per l’anima e, altresì, come questa debba rimanere all’oscuro della sua luce naturale per lasciarsi guidare dalla fede alla sublime meta dell’unione divina. Ma perché l’anima possa riuscire in questo, occorre adesso spiegare più dettagliatamente questa oscurità da cui essa deve lasciarsi avvolgere per accedere a questo abisso di fede. Per tale motivo, nel presente capitolo, parlerò in generale di detta virtù e più avanti, a Dio piacendo, indicherò più in particolare il modo da seguire per non smarrirsi in essa né ostacolarne la guida.

2. Affermo, quindi, che per farsi guidare in modo sicuro dalla fede verso questo stato di contemplazione l’anima non solo deve restare al buio nella sua parte sensitiva e inferiore, riguardante le cose create e quelle temporali, di cui ho già trattato, ma deve farsi cieca e porsi al buio anche nella sua parte razionale e superiore, quella riguardante Dio e le cose dello spirito, di cui ora parlerò. Per giungere alla trasformazione soprannaturale, è chiaro che l’anima debba mettersi al buio e trascendere tutto ciò che concerne la sua natura, tanto sensitiva che razionale. Soprannaturale, infatti, vuol significare proprio ciò che è sopra il naturale; di conseguenza, ciò che è naturale resta al di sotto. Ora, poiché la trasformazione e l’unione non dipendono né dai sensi né dall’abilità umana, l’anima deve, per quanto le è possibile, svuotarsi completamente e volontariamente di tutto ciò che dipende da lei, sia nella parte superiore che inferiore, cioè secondo l’affetto e la volontà. E allora chi potrà mai proibire a Dio di fare ciò che vuole in quest’anima docile, spogliata di tutto e nuda? Essa, però, deve svuotarsi di tutto ciò che può dipendere dalla sua abilità, in modo che, sebbene riceva molti doni soprannaturali, ne rimanga sempre distaccata e come ignara nei loro confronti, al pari di un cieco, aggrappandosi alla fede oscura, prendendola per guida e luce, senza appoggiarsi a cose che comprende, gusta, sente e immagina. Tutto questo, infatti, è tenebra che la fa sbagliare, mentre la fede è al di sopra di questo comprendere, gustare, sentire e immaginare. Se l’anima, dunque, non si fa cieca riguardo a tali cose, rimanendo completamente al buio, non arriverà mai a ciò che è superiore, cioè a quello che insegna la fede.

3. Chi non è cieco del tutto, non si lascia condurre volentieri dalla sua guida, ma, per quel poco che vede, ritiene sia meglio seguire la strada che intravede appena, perché non ne scorge altre migliori; in tal modo potrebbe far sbagliare anche la sua guida che vede meglio di lui, perché, in fondo, comanda più lui che il suo accompagnatore. Così pure accade all’anima. Se si avvale di qualche sua conoscenza, di qualche suo gusto o sentimento di Dio, per quanto ottime mediazioni, sono sempre poca cosa e impari all’Essere divino; si sbaglia facilmente nel seguire tale cammino o si arresta, perché non vuole affidarsi, completamente cieca, alla fede che è la sua vera guida.

4. La sacra Scrittura ci vuole dire proprio questo quando afferma: Accedentem ad Deum oportet credere quod est, cioè: Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste (Eb 11,6). In altri termini, chi vuole arrivare all’unione con Dio non deve appoggiarsi sulla propria conoscenza umana, né attaccarsi ai gusti, ai sensi, all’immaginazione, ma credere che Dio esiste, verità questa che non può essere afferrata né dall’intelletto né dagli appetiti né dall’immaginazione né da qualunque altra sensazione. Dio non può essere conosciuto, in questa vita, così com’è. Anzi, in questa vita il massimo che si possa percepire e gustare, ecc., di Dio, è infinitamente distante dalla sua realtà e dal suo puro possesso. Isaia e san Paolo dicono: Nec oculus vidit, nec auris audivit, neque in cor hominis ascendit, quae preparavit Deus iis qui diligunt illum: Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (1Cor 2,9; cfr. Is 64,3). Come può l’anima pretendere di unirsi per grazia perfettamente in questa vita a Colui con il quale sarà unita per gloria nell’altra, realtà, questa, che, come dice san Paolo, occhio non vide né orecchio udì né entrò in cuore di uomo? È chiaro che per giungere in questa vita a unirsi a Dio per mezzo della grazia e di un amore perfetto, l’anima dev’essere all’oscuro di tutto quanto può passare attraverso l’occhio, di tutto ciò che può ricevere tramite l’orecchio e può essere immaginato con la fantasia e compreso con il cuore, che in questo caso significa l’anima. Colui che è in cammino verso questo stato eccelso di unione con Dio, si crea gravi ostacoli ogni volta che si attacca a qualche suo pensiero, sensazione o immaginazione, al suo parere o alla sua volontà, al suo modo di agire o a qualsiasi altra cosa od opera propria, non riuscendo a distaccarsene e a privarsene del tutto. Come ho già detto, la meta a cui tende sorpassa tutte queste mediazioni, quantunque esse siano il meglio di quanto si possa sapere o gustare: rinunciando a tali mediazioni, egli deve cercare di non sapere nulla.

5. Pertanto, in questo cammino di unione, iniziare a camminare significa lasciare la propria via o, meglio, passare oltre; lasciare il proprio modo di agire significa entrare in ciò che non ha un modo, cioè in Dio. Difatti l’anima che perviene a tale unione non ha più modi o maniere personali, né tanto meno si attacca o può attaccarsi ad essi; intendo dire modi di capire, di gustare, di sentire. Pur possedendoli tutti in sé, agisce come chi non ha nulla e possiede tutto. Avendo avuto il coraggio di oltrepassare, interiormente ed esteriormente, i limiti della propria natura, entra nei confini del soprannaturale che non ha alcun modo, poiché nella sostanza li racchiude tutti. Ne segue che, per giungere a questo stato, occorre uscire dalla propria condizione e, in ogni caso, allontanarsi molto da se stessi, da tanta bassezza per tendere verso l’assoluta altezza.

6. Andando oltre tutto ciò che può conoscere o intendere, sia spiritualmente che naturalmente, l’anima deve desiderare con tutte le sue forze di giungere a ciò che in questa vita non può conoscere né può gustare nel suo cuore. Lasciando, inoltre, dietro di sé tutto ciò che gusta, sente e può gustare e sentire in questa vita attraverso i sensi e lo spirito, deve desiderare con tutte le forze di raggiungere ciò che sorpassa ogni sentimento e ogni gusto. Per restare libera e vuota in vista di tale scopo, l’anima non deve assolutamente contare su ciò che può accogliere nella sua parte spirituale o sensitiva, come dirò presto quando spiegherò questo punto in particolare. Infatti, quanto più pensa a ciò che essa comprende, gusta e immagina, quanto più dà valore a tutto ciò, spirituale o meno, tanto minore stima pone nel Bene supremo e stenta a raggiungerlo. Al contrario, meno valore dà a ciò che può avere, per quanto possa essere considerevole, rispetto al sommo Bene, tanto più esalta e stima quest’ultimo e, di conseguenza, tanto più si avvicina ad esso. In questo modo, al buio, l’anima si avvicina a grandi passi all’unione divina per mezzo della fede. Pur essendo oscura anche quest’ultima, tuttavia le offre una luce meravigliosa. Se, però, l’anima volesse vedere Dio, rimarrebbe abbagliata davanti a lui molto più in fretta di chi spalanca gli occhi per vedere lo splendore del sole.

7. In questo cammino, quindi, l’anima vedrà la luce solo se accecherà le sue potenze, come il Signore afferma nel vangelo: In iudicium veni in hunc mundum: ut qui non vident, videant, et qui vident, caeci fiant, cioè: Sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi (Gv 9,39). Sono parole, queste, che, così come suonano, devono essere applicate al cammino spirituale. Insomma, occorre sapere che se l’anima si terrà nelle tenebre e farà a meno di tutte le luci proprie e naturali, vedrà in un modo soprannaturale; mentre quella che vorrà appoggiarsi su qualche luce personale, diventerà sempre più cieca e si attarderà nel cammino dell’unione.

8. Per procedere meno confusamente mi sembra necessario spiegare nel capitolo seguente che cosa sia quella che chiamiamo unione dell’anima con Dio. Una volta compresa questa, infatti, si farà molta luce su ciò che dirò in seguito. Credo, quindi, sia arrivato il momento di trattarne qui. Tale digressione non sarà inutile, perché, anche se si dovrà interrompere il filo del discorso, mediante ciò, a questo punto, farò luce proprio su questo argomento. Il capitolo che segue sarà, dunque, come una parentesi, posta dentro uno stesso sillogismo retorico, perché subito dopo parlerò, in particolare, delle tre potenze dell’anima e delle rispettive virtù teologali nell’ambito di questa seconda notte.

 

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