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SALITA DEL MONTE CARMELO -opera integrale di S.Giovanni d.Croce

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2009 10:12
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29/09/2009 21:54

 

CAPITOLO 13

Ove si parla dei benefici che l’anima ottiene nell’allontanare da sé le conoscenze immaginarie. Si risponde a un’obiezione e si spiega la differenza che intercorre fra le conoscenze immaginarie naturali e quelle soprannaturali.

1. L’anima trova dei vantaggi nel liberare la memoria dalle conoscenze immaginarie. Ciò è mostrato chiaramente da quanto ho detto a proposito dei cinque danni nei quali incorre l’anima quando pone l’attenzione in tali rappresentazioni, come pure quando vuole conservare in sé l’impressione delle conoscenze naturali. A parte questi, vi sono altri vantaggi, che procurano grande riposo e serenità dello spirito. Senza parlare della pace che l’anima gode naturalmente quando è libera da immagini e rappresentazioni, è libera altresì dalla preoccupazione di sapere se esse siano buone o cattive e come debba comportarsi con le une e con le altre. Inoltre è libera anche dalla fatica e dal dover spendere tempo con i maestri di vita spirituale per discernere se siano buone o cattive, se appartengano a questo o a quel genere; infatti non ha più bisogno di sapere tutto ciò, perché non ha da badarci. Così tutto il tempo e la diligenza che l’anima avrebbe dovuto spendere per rendersi conto di ciò, può impiegarlo in qualche esercizio migliore e più utile, come, ad esempio, indirizzare la volontà verso Dio e perseguire con cura la spoliazione e la povertà sul piano sia dello spirito che dei sensi. Ora, tale spoliazione consiste nel volersi privare concretamente di ogni consolazione o conoscenza che funga da appoggio interiore o esteriore. Questo si ottiene facilmente quando l’anima vuole e cerca di staccarsi da tutte queste immagini; ne ricaverà un grande vantaggio, come quello di avvicinarsi a Dio, che non ha né immagine né forma né figura; ciò avverrà nella misura in cui si distaccherà da tutte le forme, figure o rappresentazioni immaginarie.

2. Ma forse potrai obiettare: perché molti autori spirituali consigliano alle anime di trarre profitto dalle comunicazioni e dai sentimenti che Dio accorda loro e di desiderare, anzi, di ricevere tali favori per avere qualcosa da offrirgli? Infatti, se lui non ci dà qualcosa, non abbiamo nulla da offrirgli. Invero, san Paolo dice: Non spegnete lo Spirito (1Ts 5,19). E lo Sposo dice alla sposa: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (Ct 8,6). Ora qui vi è già una conoscenza. Secondo l’insegnamento offerto in precedenza, non bisognerebbe ricercare tali conoscenze; al contrario, occorrerebbe respingerle e liberarsene ogni volta che Dio le manda. Ma è chiaro che se Dio le concede, lo fa in vista di un bene, ed esse avranno un buon effetto. Non è giusto gettar via le pietre preziose (cfr. Mt 7,6). Rifiutare i favori di Dio è una sorta di orgoglio, quasi che senza di essi, da noi soli, potessimo fare qualcosa.

3. Per rispondere a questa obiezione occorre ricordare quanto ho detto nei capitoli 16 e 17 del libro II, dove si può trovare una soluzione a questo dubbio. Difatti in quei capitoli ho detto che il bene procurato all’anima dalle conoscenze soprannaturali, quando vengono da Dio, si produce in essa, passivamente, nell’istante stesso in cui tali conoscenze si presentano ai sensi, senza che le potenze facciano qualcosa da parte loro. Non è quindi necessario che la volontà faccia alcunché per accoglierle, perché, come dicevo, se l’anima vuole intervenire con le sue potenze, con la sua cooperazione limitata e naturale, ostacolerà l’azione soprannaturale che Dio in quel momento compie in lei per mezzo di quelle conoscenze, anziché trarre profitto da tale situazione. Poiché quelle conoscenze immaginarie si comunicano passivamente nell’anima, essa deve comportarsi passivamente nei loro confronti, evitando di emettere qualsiasi atto interno o esterno. Ciò significa custodire i sentimenti graditi a Dio, dal momento che in questo modo l’anima non li compromette a causa del suo modo umano di agire. Ciò significa anche non soffocare lo Spirito, perché si segue una linea di condotta voluta da Dio. Lo soffocherebbe se, concedendole Dio passivamente lo Spirito, come accade in queste manifestazioni, l’anima volesse comportarsi attivamente, agendo con l’intelletto o intromettendosi in qualche modo in tali favori. Questo è chiaro. Se l’anima, infatti, vuole agire a forza, la sua azione sarà solo naturale, perché da sé non può fare di più; essa non può elevarsi alle opere soprannaturali, né saprebbe farlo, se Dio stesso non la muove né la eleva. Di conseguenza, se l’anima vuole agire da sé, ostacolerà necessariamente, per quanto dipende da lei, con i suoi atti, l’azione passiva che Dio le va comunicando, cioè il suo Spirito; essa resterà nell’ambito della sua attività, che è limitata e di genere diverso rispetto a quella comunicatale da Dio, visto che quella di Dio è passiva e soprannaturale, mentre quella dell’anima è attiva e naturale. Ecco ciò che vuol dire spegnere lo Spirito.

4. È chiaro, inoltre, che tale modo di agire è di livello minore. Infatti le facoltà dell’anima possono da sole riflettere e agire unicamente su forme, figure e immagini. Ora, queste sono la scorza e l’accidente che celano la sostanza e lo spirito. Tale sostanza o spirito si unisce alle potenze dell’anima, in questa vera intelligenza e in quest’amore, solo quando cessa l’attività delle potenze, perché lo scopo ultimo di tale operazione per l’anima è quello di arrivare a possedere la sostanza conosciuta e amata di quelle forme. Da ciò deriva che la differenza e il vantaggio esistenti fra lo stato attivo e passivo equivale alla differenza e al vantaggio intercorrente fra ciò che si sta facendo e ciò che è già fatto, oppure fra quanto si vuole conseguire e ciò che abbiamo già raggiunto e ottenuto. Da ciò si può dedurre, inoltre, che se l’anima vuole impiegare attivamente le sue potenze in queste conoscenze soprannaturali, nelle quali, come ho detto, Dio gliene comunica passivamente lo spirito, non farebbe altro che lasciare il già fatto per rifarlo daccapo, non godrebbe del lavoro compiuto e con la sua attività non farebbe che ostacolare il già fatto. Come ho detto, le sue potenze non possono da sole arrivare al bene spirituale che Dio concede all’anima senza il loro concorso. Se l’anima, perciò, facesse affidamento su queste conoscenze immaginarie, soffocherebbe direttamente lo spirito che Dio le infonde per loro tramite; di conseguenza deve evitarle e assumere verso di esse un atteggiamento passivo e negativo. Dio stesso, allora, eleverà l’anima a uno stato che essa non saprebbe né potrebbe raggiungere con le sole sue forze. Per questo motivo il profeta afferma: Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà (Ab 2,1). È come se dicesse: in piedi veglierò a guardia delle mie potenze e non permetterò loro di fare un passo avanti e di agire; così potrò essere attento a ciò che mi si dirà, cioè ascolterò e gusterò ciò che mi verrà comunicato soprannaturalmente.

5. Quanto alle parole dello Sposo citate sopra, vanno riferite all’amore che egli porta alla sposa. La peculiarità di tale amore è quella di rendere simili i due nella parte migliore d’entrambi. Per questo motivo egli le dice di metterlo come sigillo sul suo cuore (Ct 8,6), dove vengono a cadere tutte le frecce d’amore della faretra, cioè le opere e i motivi d’amore. Occorre che tutte le azioni raggiungano questo scopo che è ad esse stabilito e che tutte siano indirizzate allo Sposo. Così l’anima somiglierà allo Sposo per mezzo delle opere e i movimenti d’amore, sino a trasformarsi in lui. Lo Sposo dice, inoltre, allo sposa di metterlo come sigillo sul suo braccio (Ct 8,6), che simboleggia l’esercizio dell’amore, ove l’amato si nutre e trova le sue delizie.

6. Pertanto l’anima deve procurare in ogni conoscenza che le viene dall’alto (immaginaria o di altro genere, come visioni, locuzioni, sentimenti o rivelazioni), di non badare alla lettera o alla corteccia, cioè quanto significano, rappresentano o danno a intendere, ma di preoccuparsi soltanto di conservare l’amore divino che tali favori infondono nell’intimo. In altre parole: interessarsi ai sentimenti che producono amore di Dio, non già al gusto, alla soavità o alle immagini. Solo per raggiungere tale scopo l’anima potrà a volte ricordare la tale immagine o conoscenza che le causò amore, così da fornire allo spirito motivi d’amore. Sebbene l’effetto del ricordo non sia così efficace come quando le fu accordato il favore stesso la prima volta, tuttavia il suo ricordo ravviva l’amore ed eleva l’anima a Dio, particolarmente quando si ricordano alcune figure, immagini o sentimenti soprannaturali che di solito s’imprimono profondamente nell’anima, in modo da durare a lungo e a volte da non cancellarsi più. Queste conoscenze che s’imprimono così nell’anima producono, ogni volta che le si richiama, divini effetti d’amore, di soavità, di luce, ecc., ora più intensi ora meno; del resto, proprio a tale scopo sono stati impressi nell’anima. È un’immensa grazia che Dio concede a colui che beneficia di tali favori, perché ha in sé una fonte di beni.

7. Le rappresentazioni che producono tali effetti sono profondamente impresse nell’anima. Differiscono dalle altre immagini e forme che si conservano nella fantasia, e perciò l’anima non deve ricorrere a questa facoltà per ricordarsi di esse, perché vede che le ha in se stessa, come si scorge l’immagine in uno specchio. Quando un’anima possiede in sé, in maniera formale, tali rappresentazioni, può benissimo ricordarsene per l’effetto d’amore di cui parlavo: il ricordo no le sarà d’ostacolo per l’unione d’amore nella fede, purché non si lasci sedurre da tali rappresentazioni, ma se ne serva e se ne liberi immediatamente per crescere nell’amore. In questo modo le saranno certamente d’aiuto.

8. È difficile distinguere quando queste immagini siano impresse nell’anima e quando nell’immaginazione. Queste ultime, infatti, ordinariamente sono molto frequenti, perché alcune persone hanno abitualmente nell’immaginazione o fantasia visioni immaginarie e sovente se le rappresentano alla stessa maniera. Questo perché hanno un’immaginazione molto viva e, per poco che ci pensino, essa si mette in moto e disegna nella loro fantasia quella visione per via ordinaria; oppure tali visioni possono dipendere dal demonio; oppure ancora vengono da Dio, pur non imprimendosi nell’anima in maniera formale. Tuttavia queste visioni possono essere riconosciute dai loro effetti. Quelle naturali e quelle provenienti dal demonio, anche se ricordate, non producono alcun effetto positivo né un rinnovamento spirituale nell’anima, che si limita a guardarle con freddezza. Quelle buone, invece, quando vengono ricordate, producono un effetto buono simile a quello prodotto nell’anima la prima volta. Quanto alle rappresentazioni formali che s’imprimono nell’anima, producono quasi sempre qualche buon effetto quando vi si pensa.

9. Chi ha fatto esperienza di queste ultime, può facilmente discernere le une dalle altre, perché la netta differenza che intercorre fra loro è molto chiara ai suoi occhi. Dico solo che quelle che s’imprimono formalmente e in maniera durevole nell’anima sono molto rare. Ma, che si tratti di queste o di quelle altre, è bene che l’anima non voglia conoscere nulla se non Dio, oggetto della fede e della speranza. A chi dicesse che potrebbe sembrare superbia rifiutare queste rappresentazioni quando sono buone, rispondo che invece è un atto di umiltà. Difatti è prudente servirsene nel miglior modo possibile, come ho detto, e seguire la via più sicura.

CAPITOLO 14

Ove si parla delle conoscenze spirituali in quanto possono risiedere nella memoria.

1. Le conoscenze spirituali, come ho detto, fanno parte del terzo genere di conoscenze della memoria. Esse, non avendo immagine né forma sensibile, non appartengono al senso corporale della fantasia, come le altre, ma costituiscono l’oggetto del ricordo e della memoria spirituale. Infatti, dopo che qualcuna di esse si è prodotta, l’anima può ricordarla quando vuole. E questo non perché tale conoscenza abbia lasciato qualche figura o immagine nel senso corporale – il quale, proprio perché corporale, è incapace di ricevere forme spirituali – ma perché l’anima se ne ricorda intellettualmente e spiritualmente attraverso la forma che questa conoscenza le ha lasciato impressa. Anche detta forma è conoscenza o immagine spirituale o formale, che aiuta la memoria a ricordarsene di per sé o per l’effetto da essa prodotto. Per questo motivo classifico tali conoscenze tra quelle della memoria, benché non appartengano a quelle della fantasia.

2. Quali siano queste conoscenze e come l’anima debba comportarsi nei loro riguardi per arrivare all’unione con Dio, è già stato detto sufficientemente nel capitolo 26 del libro II. Ivi le ho considerate come conoscenze dell’intelletto. Rimando a quelle pagine, ove dicevo che queste conoscenze sono di due categorie: alcune increate e altre create. Per quanto riguarda il modo con cui deve comportarsi la memoria nei loro confronti per arrivare all’unione, affermo solo che – come ho appena detto delle conoscenze formali, nel capitolo precedente, di cui fanno parte quelle che riguardano le cose create – l’anima può richiamarle alla memoria quando producono effetti buoni; non si cercherà di ritenerle in sé, a meno che non si tratti di ravvivare l’amore e la conoscenza di Dio. Ma se il loro ricordo non genera un effetto positivo, l’anima non le richiami mai alla memoria. Quanto alle conoscenze che riguardano le cose increate, dico che l’anima deve cercare di ricordarsene tutte le volte che può, perché le faranno un gran bene. Queste, infatti, come dicevo prima, sono tocchi e sentimenti di unione con Dio, meta verso cui incamminiamo l’anima. Ora, la memoria non le ricorda con l’aiuto di forme, immagini o figure impresse nell’anima, perché quei tocchi e sentimenti d’unione con il Signore ne sono privi, ma con l’aiuto degli effetti di luce, di delizie, di rinnovamento spirituale che si verificano nell’anima e che si rinnovano, in parte, ogni volta che essa se ne ricorda.

CAPITOLO 15

Ove si espone in modo generale come la persona spirituale deve comportarsi nei confronti della memoria.

1. Per concludere ora questa trattazione della memoria, sarà bene esporre in sintesi al devoto lettore il modo che generalmente deve seguire per unirsi a Dio secondo questa potenza. Sebbene esso risulti già chiaro da quanto ho detto finora, tuttavia potrà essere più facilmente compreso se lo riassumo qui. Anzitutto bisogna ricordare che lo scopo prefisso è sempre quello di mostrare che la memoria deve unirsi a Dio per mezzo della speranza; ma non speriamo se non ciò che non possediamo ancora. Ora, quante meno cose l’anima possiede, tanta maggiore attitudine e capacità ha di sperare ciò che desidera, quindi ha più speranza. Al contrario, quante più cose possiede, tanta minore attitudine e capacità ha di sperare, quindi ha meno speranza. Perciò, quanto più l’anima spoglierà la memoria di tutte le immagini o cose create che si possano ricordare e che non sono Dio, tanto più fisserà la memoria in Dio e, di conseguenza, sarà più libera per poterla riempire dei beni divini. Ciò che l’anima deve fare per vivere in assoluta e pura speranza in Dio, è che ogni volta che le si presentano delle conoscenze, forme e immagini particolari, non deve fermarsi ad esse, ma volgersi immediatamente a Dio con uno slancio pieno d’amore. Completamente distaccata da tutte queste conoscenze, non vi penserà più e neppure se ne occuperà, se non nella misura necessaria per comprendere i suoi doveri e, se sono tali, per adempierli; ma, anche in questo caso, senza porvi attaccamento né compiacenza, perché non lascino impresso nell’anima qualche effetto. L’uomo, quindi, non deve cessare di pensare e ricordare ciò che deve fare e sapere; e se non vi sarà attaccamento alcuno, non subirà danni. Per conseguire questo spogliamento potranno essere utili i versi del «Monte» che si leggono nel capitolo 13 del libro I.

2. Ad ogni modo tengo a sottolineare che qui non ho nessuna voglia o intenzione di confondere la nostra dottrina con quella di uomini perversi che, accecati dalla superbia e dall’invidia satanica, hanno cercato di togliere dagli sguardi dei fedeli il santo e necessario uso e l’augusta venerazione delle immagini di Dio e dei santi. La nostra dottrina è molto diversa dalla loro. Noi non diciamo che non ci debbano essere immagini e che non siano venerate, come dicono quelli, ma spieghiamo la differenza che c’è tra queste immagini e Dio e come servirsi delle immagini senza farsi impedire dall’accedere alla realtà viva da esse rappresentata, così da non attaccarsi ad esse più di quanto basti per passare al piano spirituale. Infatti, se è vero che il mezzo è buono e necessario per arrivare al fine, come lo sono le immagini che ci ricordano Dio e i santi, è altrettanto vero che, quando ci fermiamo al mezzo più del necessario, esso diventa un ostacolo, come lo sarebbe qualsiasi altra cosa. Per questo mi occupo qui delle immagini e delle visioni soprannaturali, circa le quali si verificano numerosi errori e pericoli. Ma nel ricordo, nel culto e nella venerazione delle immagini, che conformemente alla nostra natura ci propone la Chiesa cattolica, non si nasconde alcun inganno o pericolo, perché in esse si ricerca solo ciò che rappresentano. E il loro ricordo non mancherà di giovare all’anima, perché le ricerca solo per amore a ciò che rappresentano: essa se ne serve a questo scopo. Per tale motivo esse l’aiuteranno certamente nell’unione con Dio, a condizione che si consenta all’anima di elevarsi, quando Dio le concede la grazia, dall’immagine al Dio vivo, dimenticando ogni cosa creata e tutto ciò che ne deriva.

CAPITOLO 16

Ove si comincia a parlare della notte oscura della volontà. Si dà la divisione degli affetti della volontà.

1. Non basta purificare l’intelletto perché si fondi nella virtù della fede, né la memoria perché si stabilisca nella speranza, ma occorre purificare anche la volontà in rapporto alla terza virtù teologale, cioè la carità. Grazie a questa virtù le opere della fede sono vive e hanno grande valore, mentre, se essa manca, non valgono nulla, proprio come dice san Giacomo: La fede senza le opere è morta (Gc 2,20). Ora, dovendo parlare della notte o purificazione attiva della volontà, per investirla e informarla della virtù della carità di Dio, non trovo testo migliore di Deuteronomio 6,5, dove Mosè afferma: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Qui è contenuto tutto ciò che la persona spirituale deve compiere e che io desidero insegnarle perché arrivi veramente a unire la sua volontà a Dio per mezzo della carità. Difatti qui si comanda all’uomo di dirigere verso Dio tutte le potenze, gli appetiti, le opere e gli affetti della sua anima, in modo che tutte le attitudini e le forze della persona servano unicamente a questo scopo, come dice Davide: Fortitudinem meam ad te custodiam: Riporrò in te la mia forza (Sal 58,10 Volg.).

2. La forza dell’anima sta nelle sue potenze, passioni e appetiti, cose tutte governate dalla volontà. Ora, quando la volontà indirizza queste potenze, passioni e appetiti verso Dio, e li distoglie da tutto ciò che non è lui, allora conserva la forza dell’anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze. Perché l’anima possa fare questo, parlerò adesso della purificazione della volontà da tutte le sue affezioni disordinate, da cui nascono gli appetiti, gli affetti e le operazioni sregolate, da cui deriva altresì che essa non conservi tutte le sue forze per il Signore. Queste affezioni o passioni sono quattro: gioia, speranza, dolore, timore. Quando tali passioni sono rivolte a Dio attraverso un esercizio assennato, in modo che l’anima non gioisca se non di ciò che è onore e gloria di Dio, non speri in altro che in Dio, non si dolga se non di ciò che lo ferisce, né tema se non Dio solo, è chiaro che dispone e conserva tutte le sue forze e le sue capacità per Dio. Al contrario, quanto più l’anima gode di cose diverse da Dio, tanto meno fortemente riporrà la sua gioia in Dio; quanto più porrà fiducia in qualche cosa creata, tanto meno confiderà in Dio. E così per le altre passioni.

3. Per spiegare meglio questa dottrina, come al solito tratterò in modo particolareggiato di ciascuna di queste quattro passioni e degli appetiti della volontà. Difatti tutto il lavoro necessario per giungere all’unione con Dio consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio.

4. Quanto più queste quattro passioni dominano nell’anima e le fanno guerra, tanto meno la volontà si radica in Dio e tanto più dipende dalle creature. Allora essa con estrema facilità gioisce di cose che non dovrebbero suscitare gioia, spera in ciò che non le procura alcun vantaggio, soffre per cose di cui dovrebbe forse gioire e teme quando non c’è nulla da temere.

5. Quando queste passioni non sono tenute a freno, generano nell’anima tutti i vizi e le imperfezioni, mentre quando sono ben dirette e governate generano in essa tutte le virtù. Occorre sapere che quando una di esse è ben diretta e regolata dalla ragione, anche le altre seguono la stessa sorte, perché queste quattro passioni sono talmente unite e accordate fra loro che, dove attualmente va una, vanno virtualmente anche le altre; se una si concentra in un’attività, anche le altre fanno altrettanto. Se, infatti, la volontà gioisce per qualcosa, nella stessa misura la spera e virtualmente sperimenta per essa dolore e timore; ma a mano a mano che perde il gusto per una cosa, si attenua anche il timore e il dolore nei suoi riguardi e diminuisce la speranza. La volontà, insieme a queste quattro passioni, è simbolizzata dai quattro animali che Ezechiele (1,8-9) vide congiunti in un solo corpo. Avevano quattro facce e le ali dell’uno erano unite a quelle dell’altro, ciascuno andava nella direzione della propria faccia e quando andavano avanti non si volgevano indietro. Allo stesso modo le ali di ciascuna di queste passioni sono unite a quelle delle altre, così che, laddove una di esse di fatto volge la faccia, cioè la sua attività, in pratica anche le alte necessariamente la seguono; quando una di esse si spegne, si spengono anche le altre, e se si accende una, si accendono tutte. Dove tende la tua speranza, là tendono anche la tua gioia, il tuo timore e il tuo dolore; se essa si distoglie da un oggetto, anche le altre si distolgono. La stessa cosa si può dire delle altre passioni.

6. Voglio ricordarti, persona devota, che laddove si dirigerà una di queste passioni, ivi sarà coinvolta tutta l’anima, la volontà e le altre potenze, e diverranno sue schiave. Le rimanenti tre passioni si accenderanno in essa per tormentare l’anima con i loro vincoli, non lasciandola volare verso la libertà e il riposo della dolce contemplazione e dell’unione. Per questo motivo Boezio ti ricorda che, se vuoi conoscere la verità in tutta la sua chiarezza, devi allontanare da te la gioia, la speranza, il dolore e il timore. Finché regnano queste passioni nel tuo cuore, non gli consentiranno tranquillità né pace, indispensabili per accogliere, sia naturalmente che soprannaturalmente, la sapienza.

CAPITOLO 17

Ove si comincia a parlare della prima affezione della volontà. Si dice che cosa sia la gioia e si fa una distinzione degli oggetti di cui la volontà può compiacersi.

1. La prima delle passioni dell’anima e delle affezioni della volontà è la gioia. Per quanto mi sono proposto di dire, essa non è altro che una contentezza della volontà accompagnata dalla stima per un oggetto che si ritiene conveniente, perché la volontà prova gioia solo quanto stima una cosa e ne trae soddisfazione. Mi riferisco qui alla gioia attiva, che si verifica quando l’anima avverte distintamente e chiaramente l’oggetto di cui gode ed è libera di accettarlo o rifiutarlo. C’è, infatti, un’altra gioia passiva, che la volontà può provare godendo senza comprenderne in modo chiaro e distinto la causa, talvolta la comprende, ma non dipende da essa il provarla o meno. Di questa parlerò più avanti. Ora tratterò della gioia in quanto attiva e volontaria, che ha per oggetto cose distinte e chiare.

2. La gioia può nascere da sei generi di oggetti o beni: possono essere temporali, naturali, sensibili, morali, soprannaturali, spirituali. Ne parlerò in ordine, indirizzando la volontà secondo la ragione, affinché non trovi in tali oggetti un ostacolo che le impedisca di concentrare la forza della sua gioia in Dio. A tale scopo è opportuno ricordare un principio che sarà come un punto fisso al quale ci si dovrà sempre riferire. È necessario tener presente questo principio, perché è la luce che ci deve guidare a comprendere questa dottrina e orientare in mezzo a tutti questi beni, onde riporre la gioia in Dio solo. Tale principio è il seguente: la volontà deve godere solo di ciò che riguarda la gloria e l’onore di Dio; ora, il più grande onore che possiamo rendere a Dio è quello di servirlo secondo la perfezione evangelica. Tutto ciò che esula da questo principio non ha alcun valore né utilità per l’uomo.

CAPITOLO 18

Ove si tratta della gioia derivante dai beni temporali. Si dice come indirizzarla a Dio.

1. Il primo genere di beni che ho elencato è quello dei beni temporali. Con questo termine intendo ricchezze, condizioni sociali, cariche e altri titoli, figli, parenti, matrimoni, ecc., cose tutte di cui la volontà può rallegrarsi. Ma è evidente quanto sia vana la gioia degli uomini per le ricchezze, i titoli, la condizione sociale e altre cose del genere! Se, infatti, bastasse essere più ricchi per servire meglio Dio, ci sarebbe motivo di godere delle ricchezze. Queste, al contrario, sono motivo per offenderlo, come ci ricorda il Saggio quando dice: Se hai troppo, non sarai esente da colpa (Sir 11,10). Indubbiamente i beni temporali, in quanto tali, non portano al peccato; tuttavia il cuore umano, per la sua debolezza, si attacca ad essi e manca ai suoi doveri verso Dio, il che è peccato, perché è peccato venir meno nei riguardi di Dio. Per questo motivo il Saggio dice: Non sarai esente da colpa. Questo è anche il motivo per cui il Signore nel vangelo chiama spine le ricchezze (cfr. Mt 13,22; Lc 8,14), onde far capire che colui che vi è attaccato con la volontà rimarrà ferito da qualche peccato. Quell’esclamazione evangelica, poi, riportata da san Luca, ci mette paura, poiché afferma: Quanto è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio! (Lc 18,24), cioè per coloro che godono di esse. Questo testo ci fa capire chiaramente che l’uomo non deve riporre la sua gioia nelle ricchezze, perché si espone a un grave pericolo. Per allontanarci da tale rischio Davide esorta: Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore (Sal 61,11).

2. Non voglio addurre altre testimonianze per una questione così chiara, perché non finirei mai di citare la Scrittura e di elencare tutti i mali che Salomone nell’Ecclesiaste attribuisce alle ricchezze. Questo re, che aveva posseduto molte ricchezze e ne conosceva bene la natura, diceva che tutte le cose che esistono sotto il sole (Qo 1,14) sono vanità immensa (1,2); afflizione dello spirito (1,14; 2,17), vanità e occupazione senza senso (2,26); chi ama il denaro non si sazia mai (5,9); le ricchezze custodite dal padrone sono a suo danno (5,12). Anche nel vangelo si legge di colui che si rallegrava per avere accumulato beni che gli sarebbero bastati per molti anni; ma gli fu detto dal cielo: Stolto, questa notte stessa sarà richiesto alla tua anima il rendiconto. E quello che hai preparato, di chi sarà? (Lc 12,20). Infine anche Davide c’insegna la stessa cosa quando afferma: Se vedi un uomo arricchirsi, non temere: quando muore, con sé non porta nulla (Sal 48,17-18). Da tutto ciò si deduce che dovremmo piuttosto rammaricarci di avere ricchezze!

3. Ne segue che l’uomo non deve gioire delle ricchezze che possiede, né di quelle che possiede suo fratello, a meno che non le usino per servire Dio. Ci si può rallegrare delle ricchezze quando vengono spese e usate per il servizio di Dio; altrimenti non se ne trarrà alcun vantaggio. Lo stesso si deve dire degli altri beni e titoli, condizioni sociali, cariche, ecc. È una vanità gioirne, se per mezzo di essi non si serve meglio Dio e se non offrono una strada più sicura per la vita eterna. Poiché è impossibile sapere chiaramente se è così e se con essi si serve meglio il Signore, ecc., sarebbe stolto rallegrarsi decisamente di questi beni, perché una tale gioia non può essere ragionevole, come dice il Signore: Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima? (Mt 16,26). Non c’è, dunque, motivo di rallegrarsi se con tale gioia non si serve meglio il Signore.

4. Non c’è motivo di rallegrarsi neanche per avere dei figli, perché sono molti o ricchi o dotati di doni e di grazie naturali o di beni di fortuna; è concesso rallegrarsene soltanto se servono Dio. Ad Assalonne, figlio di Davide, non giovarono a nulla la bellezza, le ricchezze, la sua illustre origine, perché egli non servì Dio (2Sam 14,25); vano fu, dunque, per lui rallegrarsi di questi beni. Da quanto detto deriva che è inutile desiderare avere figli, come fanno alcuni che muovono e sconvolgono il mondo per averne. Non sanno, infatti, se questi figli saranno buoni e serviranno Dio, se la gioia che si aspettano da loro non si cambierà invece in dolore, se il riposo e la consolazione in travagli e preoccupazioni, se l’onore in disonore e se tali figli non saranno occasione di maggiore offesa a Dio, come accade spesso. Di costoro Cristo dice che percorrono mari e monti per arricchirli e farne figli di perdizione, due volte più cattivi di quanto siano stati loro (cfr. Mt 23,15).

5. Allora, quando tutto arride all’uomo e tutto gli va bene, deve temere anziché rallegrarsi, perché in questa situazione si moltiplicano le occasioni e i pericoli di dimenticare Dio e dunque di offenderlo. Per questo Salomone, che era molto guardingo, scrive nell’Ecclesiaste: Del riso ho detto: «Follia!», e della gioia: «A che serve?» (Qo 2,2). È come se dicesse: quanto più le cose andavano bene, tanto più ritenni inganno ed errore rallegrarmene. Difatti è certamente un errore e una stoltezza grande da parte dell’uomo rallegrarsi di ciò che gli si presenta come favorevole e piacevole, senza sapere se di lì ricaverà qualche bene eterno. Dice il Saggio: Il cuore degli stolti è rivolto alla casa in festa e il cuore dei saggi alla casa in lutto (Qo 7,4). La gioia, infatti, acceca il cuore e non gli permette di riflettere e ponderare le cose, mentre la tristezza fa aprire gli occhi e discernere se le cose procureranno una perdita o un guadagno. Ne consegue, dice ancora il Saggio, che è preferibile la mestizia al riso (Qo 7,3); pertanto è meglio andare in una casa in pianto che andare in una casa in festa, perché quella è la fine di ogni uomo (Qo 7,2).

6. Sarà quindi anche vanità per gli sposi rallegrarsi, se non sanno chiaramente di servire meglio Dio nel matrimonio. Essi, al contrario, dovrebbero provare confusione, perché il matrimonio, come dice san Paolo, fa sì che il cuore, diviso dall’amore che i coniugi nutrono l’uno per l’altro, non sia unicamente per Dio. Per questo dice: Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla. Nel caso che l’abbia già, conviene comportarsi come se non l’avessi (1Cor 7,27). Questo, insieme a quanto abbiamo detto dei beni temporali, ce lo insegna con le seguenti parole: Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno (1Cor 7,29-31). Non dobbiamo, quindi, riporre la gioia se non in ciò che riguarda la gloria di Dio, perché il resto è vanità e non giova a nulla, perché la gioia che non è secondo Dio non può essere utile all’anima.

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