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SALITA DEL MONTE CARMELO -opera integrale di S.Giovanni d.Croce

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2009 10:12
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29/09/2009 22:00

 

CAPITOLO 19

Ove si parla dei danno che può subire l’anima quando ripone la sua gioia nei beni temporali.

1. Se dovessimo parlare di tutti i danni che insidiano l’anima che ripone l’affetto della volontà nei beni temporali, non ci basterebbero l’inchiostro né la carta né il tempo. Da un male di poco conto, infatti, possono derivare danni gravi e distruzione di beni più grandi, allo stesso modo che da una scintilla di fuoco, se non viene spenta, possono scoppiare grandi incendi, capaci d’incenerire il mondo. Tutti questi danni hanno la loro radice e origine in un danno privativo principale che proviene da questo attaccamento ai beni temporali, ed è quello di allontanarci da Dio. Tutti i beni ci arrivano quando l’anima si avvicina a Dio attraverso l’affetto della volontà; al contrario, quando si allontana da lui per l’attaccamento alle creature, si manifestano tutti i danni e i mali in proporzione alla gioia e all’affetto con cui si attacca alle creature: questo è allontanarsi da Dio. Di conseguenza si può comprendere che, a seconda che ci si allontani più o meno da Dio, i danni saranno più o meno considerevoli in estensione o intensità e, spesso, sotto entrambi gli aspetti.

2. Questo danno privativo, da cui – dicevo – nascono tutti gli altri danni privativi e positivi, racchiude quattro gradi, uno peggiore dell’altro. Quando l’anima è arrivata al quarto grado, ha raggiunto tutti i mali e i danni che si possano enumerare nel presente caso. Questi quattro gradi vengono elencati molto bene da Mosè nel Deuteronomio, con le parole: Si è ingrassato l’amato e ha fatto lunghi passi indietro – sì, ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato –, ha respinto il Dio che lo aveva fatto e si è allontanato da Dio, sua salvezza (Dt 32,15 Volg.).

3. L’ingrassamento dell’anima, che in precedenza era amata da Dio, significa che si è immersa nel piacere delle creature. Da ciò deriva il primo grado di questo danno, che consiste nel tornare indietro; è un appesantimento dello spirito nei confronti di Dio, per cui non riesce a vedere i beni spirituali, come la nebbia che oscura l’aria impedendole di essere illuminata per bene dalla luce del sole. Quando la persona spirituale ripone la sua gioia in qualche creatura e lascia spazio ai suoi appetiti verso cose futili, perde luminosità nei confronti di Dio e offusca la semplicità della sua intelligenza e del suo giudizio. È precisamente quanto insegna lo Spirito di Dio nel libro della Sapienza, laddove afferma: Il fascino del vizio deturpa anche il bene e il turbine della passione travolge una mente semplice (Sap 4,12). Con queste parole lo Spirito Santo ci fa capire che, anche se non vi fosse alcuna cattiva intenzione nell’intelletto, basterebbero la concupiscenza e la soddisfazione per queste cose a provocare nell’anima il primo danno. Esso consiste nell’annebbiamento dello spirito e in una sorta di oscurità che impedisce il giudizio dal ben comprendere la verità e dal valutare le cose così come sono.

4. Non bastano la santità e il buon giudizio dell’uomo per non cadere in questo danno, se si dà via libera alla concupiscenza e al piacere nei beni temporali. Per questo motivo, Dio ci mette in guardia per mezzo di Mosè, dicendo: Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti (Es 23,8). Tale raccomandazione era diretta soprattutto a coloro che dovevano fungere da giudici, perché dovevano avere lo spirito retto e vigile; ma essi non l’avrebbero avuto se fossero stati avidi di doni. Per lo stesso motivo Dio ordinò a Mosè di nominare giudici coloro che aborrivano l’avarizia, perché il loro giudizio non fosse deviato dall’attrazione delle ricchezze (Es 18,21-22). Pertanto è detto che non solo non devono desiderare le ricchezze, ma anche devono aborrirle. Difatti, per potersi difendere perfettamente dall’amore per un oggetto, bisogna nutrirne avversione, perché un contrario si combatte con il suo contrario. Questo è il motivo per cui il profeta Samuele fu sempre un giudice retto e illuminato, perché, come afferma egli stesso, non accettò mai alcun regalo (1Sam 12,3).

5. Il secondo grado di questo danno privativo deriva dal primo: viene espresso nel seguito del testo già citato: Ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato (Dt 32,15). Questo secondo grado consiste nella dilatazione della volontà che si concede ormai più libertà nei confronti dei beni temporali. Si verifica quando l’anima non si preoccupa più tanto della pena e della ripugnanza che le davano la gioia e la compiacenza per i beni creati. Le capita questo perché ha dato via libera alla gioia; tale brama ha ingrassato l’anima, come dice il testo citato, e la pinguedine della gioia e dell’appetito l’ha portata a dilatare sempre più la volontà verso le creature. Ciò comporta gravi danni, perché questo secondo grado allontana l’anima dalle cose di Dio e dalle pratiche di pietà. Essa non vi prova più gusto; nutre affetto per altre cose; si lascia andare a molte imperfezioni, inezie, gioie frivole e vane soddisfazioni.

6. Questo secondo grado distoglie completamente l’anima dai suoi abituali esercizi di pietà, perché tutta la sua attenzione e la sua brama si rivolgono ai beni di questo mondo. Coloro che sono giunti a questo secondo grado, hanno il giudizio e l’intelletto ottenebrati di fronte alla conoscenza della verità e della giustizia, parimenti a quelli che si trovano nel primo grado; ma in più presentano molta rilassatezza, tiepidezza e indifferenza nel conoscere e compiere i loro doveri. Di costoro dice Isaia: Tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova non giunge fino a loro (Is 1,23). Questo non avviene senza loro colpa, soprattutto quando sono obbligati a farlo in forza del loro ufficio. Difatti quelli che si trovano in questo secondo grado non sono privi di malizia, come invece quelli del primo grado. Così si allontanano sempre più dalla giustizia e dalle virtù, perché investono la loro volontà soprattutto nell’attaccamento alle creature. Pertanto la caratteristica di coloro che si trovano in questo secondo grado consiste in una grande tiepidezza per gli esercizi spirituali, che adempiono male: li compiono solo per formalità, per forza o per abitudine, non per amore.

7. Il terzo grado di questo danno privativo consiste nel respingere completamente Dio: l’anima non si preoccupa di osservare la sua legge, pur di non perdere i beni di questo mondo. Così, trascinata dalla cupidigia, essa si lascia cadere in peccati mortali. Questo terzo grado è evidenziato dal seguito della citazione riportata sopra: Ha respinto Dio che lo aveva fatto (Dt 32,15). In questo terzo grado si trovano tutti coloro che hanno impegnato le potenze dell’anima nelle cose del mondo, nelle ricchezze e negli onori, tanto da non preoccuparsi minimamente di praticare la legge di Dio. Vivono in totale oblio e noncuranza per ciò che riguarda la loro salvezza, mentre sono attivi e abili al massimo nelle cose del mondo. Per questo Cristo nel vangelo li chiama figli di questo secolo e dice che costoro, nei loro interessi, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce (Lc 16,8). Così, dunque, essi non sono nulla per quanto riguarda Dio, mentre sono tutto per le cose del mondo. In senso stretto, questi sono gli avari, la cui cupidigia e soddisfazione per le cose create hanno assunto un’estensione e un attaccamento tali da non sentirsi mai sazi. Anzi la loro fame e sete crescono tanto più intensamente quanto più essi sono lontani dalla sorgente che potrebbe soddisfarli, cioè Dio. Di loro il Signore dice per bocca di Geremia: Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono acqua (Ger 2,13). L’avaro, infatti, non trova di che saziare la sua sete nelle creature, ma, al contrario, di che accrescerla. Questi sono quanti cadono in mille forme di peccati per amore dei beni temporali e innumerevoli sono i danni che subiscono. Davide così si è espresso a loro riguardo: Transierunt in affectum cordis: Si sono abbandonati alle passioni del cuore (Sal 72,7).

8. Il quarto grado di questo danno privativo è evidenziato nell’ultima parte della nostra citazione, ove si dice: Si è allontanato da Dio, sua salvezza (Dt 32,15). È una conseguenza del terzo grado appena illustrato. Quando, infatti, l’avaro, a causa dei beni temporali, non prende a cuore la legge di Dio, si allontana decisamente dal Signore, con la memoria, l’intelligenza e la volontà; lo dimentica come se non fosse il suo Dio, perché ha scelto come dio il denaro e i beni temporali, proprio come afferma san Paolo: L’avarizia è idolatria (Col 3,5). In questo quarto grado, infatti, si arriva fino a dimenticare Dio; l’uomo, che dovrebbe fissare il proprio cuore in Dio, lo mette nel denaro, come se non avesse altro dio.

9. Nel quarto grado si trovano coloro che non esitano a ordinare le cose divine e soprannaturali in funzione di quelle temporali come a loro dio, mentre invece dovrebbero ordinare le cose temporali a Dio, se, come esige la ragione, lo riconoscessero come tale. A questo novero appartiene l’iniqui Balaam che vendette la grazia di profeta concessagli da Dio (Nm 22,7). In questo modo agì anche Simon Mago, che riteneva stimabile in denaro la grazia di Dio: voleva, infatti, comprarla (At 8,18-19). Con tale azione mostrava che ai suoi occhi il denaro valeva di più, poiché pensava di trovare qualcuno che avrebbe stimato maggiormente i suoi quattrini, in cambio dei quali gli avrebbe dato la grazia. Anche ai nostri giorni vi sono numerose persone che appartengono a questo quarto grado. La loro ragione viene, dalla cupidigia, ottenebrata nei riguardi dei beni spirituali. Servono al denaro e non al Signore; antepongono il valore dei soldi a quello del premio divino; in molti modi fanno del denaro il loro dio e fine primario, anteponendolo al fine ultimo che è Dio.

10. A quest’ultimo grado appartengono, altresì, tutti quegli sventurati che sono dominati dai beni temporali e li considerano come loro dio al punto di non esitare a sacrificare la vita per essi. Quando, infatti, vedono che la loro divinità temporale viene a mancare, si disperano e si danno la morte per motivi miserabili. In tal maniera mostrano la triste ricompensa che si riceve da una simile divinità: poiché da questa non c’è nulla da sperare, ne ricavano solo disperazione e morte. Quanto, poi, a coloro che tale divinità non spinge fino al danno estremo della morte, essa li fa tuttavia vivere nelle sofferenze della preoccupazione e in mille altre miserie; non lascia entrare la gioia nel loro cuore e non permette che qualche bene risplenda ai loro occhi sulla terra. Li costringe a pagare continuamente il tributo del loro cuore al denaro, ragion per cui soffrono per esso, e con esso si avvicinano all’ultima disgrazia, che sarà la loro giusta perdizione, secondo quanto avverte il Saggio: Le ricchezze sono custodite dal padrone a proprio danno (Qo 5,12).

11. A questo quarto grado appartengono, inoltre, coloro di cui san Paolo dice che Dio tradidit illos in reprobum sensum: li abbandonò in balia di una mente insipiente (Rm 1,28). Ecco fino a quali danni può giungere l’uomo che ripone la sua gioia nei beni temporali come se fossero il fine ultimo. Anche quelli meno danneggiati da tale gioia sono da compiangere molto perché, come ho detto, essa costringe l’anima a tornare molto indietro nelle vie di Dio. Pertanto, come dice Davide: Se vedi un uomo arricchirsi, non temere, cioè non provare invidia pensando che ne tragga profitto, perché quando muore con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria (Sal 48,17-18).

CAPITOLO 20

Ove si parla dei vantaggi che si procura l’anima rinunciando alla gioia dei beni temporali.

1. La persona spirituale deve fare molta attenzione per non cominciare ad attaccare il cuore o a cercare la gioia nelle cose di questo mondo. Deve temere che simile attaccamento, tenue all’inizio, diventi rilevante e assuma a poco a poco grandi proporzioni, finendo per causare danni notevoli, allo stesso modo che una scintilla è capace di bruciare una montagna e anche il mondo intero. Non si deve fidare mai di un sia pur tenue attaccamento, se non lo tronca subito, pensando di poter fare ciò in seguito. Se, infatti, non ha il coraggio di troncarlo all’inizio quando è ancora tenue, come pensa di poterlo estirpare quando avrà radici molto più profonde? Tanto più che il Signore nel vangelo afferma che chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto (Lc 16,10). Difatti colui che evita le piccole mancanze non cadrà nelle più gravi; del resto, già l’attaccamento alle piccole cose reca un grave danno, perché la cinta, la fortezza del cuore è già forzata, proprio come dice il proverbio: «Chi ben comincia è a metà dell’opera». Anche Davide ci ammonisce in questo modo: Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore (Sal 61,11).

2. L’uomo dovrebbe liberare completamente il cuore da tutti i piaceri che danno questi beni, se non per il suo Dio e in vista della perfezione cristiana, almeno per i vantaggi temporali che ne derivano, senza parlare di quelli spirituali. Infatti non solo si libera dai terribili danni che abbiamo descritto nel capitolo precedente, ma, rinunciando al piacere dei beni temporali, acquista anche la virtù della liberalità, che è un attributo molto evidente di Dio, niente affatto compatibile con la cupidigia. Oltre a ciò, acquista libertà di spirito, chiarezza di mente, calma, tranquillità e fiducia che si rimette subitamente a Dio, al quale rende con la sua volontà un vero culto e ossequio. Del resto, più si distacca dalle creature, più ne gioisce e trova diletto, gioia e diletto impossibili se le guarda con spirito di possesso: questa è già una preoccupazione che, come un laccio, lega lo spirito alla terra e non lascia spazio al cuore. Solo distaccandosi dai beni temporali ne acquista una conoscenza più chiara e ne comprende bene le verità che li riguardano, dal punto di vista sia naturale che soprannaturale. Così gode di tali beni in un modo del tutto diverso da colui che vi è attaccato, traendone grandi vantaggi e utilità: l’uno li gusta secondo la loro vera natura, l’altro invece secondo le false apparenze; quegli nel loro lato migliore, questi nel lato peggiore; quegli secondo la sostanza, l’altro secondo i loro accidenti, perché si attacca ad essi in modo sensibile secondo gli aspetti meno validi. Il senso, infatti, può raggiungere e penetrare solo gli accidenti, mentre lo spirito, purificato dalle ombre e dalle forme accidentali, penetra la verità e il valore delle cose, perché questo è il suo oggetto. La gioia, quindi, oscura il giudizio come una nebbia, perché non può esserci piacere volontario, come non può esserci gioia in quanto passione senza che nel cuore ci sia anche un abituale spirito di possesso. Al contrario, la negazione e la purificazione di tale gioia lascia al giudizio la sua chiarezza, come accade all’aria pura quando si sono dissolti i vapori che l’inquinavano.

3. Chi, dunque, non mette la sua gioia nel possesso delle creature, ne gode come se le avesse tutte; chi, invece, le guarda con particolare spirito di possesso, perde ogni gusto delle cose in generale. Il primo, che non ha nulla in cuore, possiede tutto, come dice san Paolo, in grande libertà (2Cor 6,10). Il secondo, che si attacca ad esse con volontà di possesso, non ha e non possiede nulla; anzi sono le cose a possedere il suo cuore e a fargli sentire il peso della schiavitù. Di qui, più gioie un’anima cerca di avere dalle creature, più sentirà il suo cuore attaccato e posseduto dalla sofferenza e dalla pena. Chi è distaccato, non è molestato da preoccupazioni, né durante né fuori l’orazione, e così, senza indugi, con facilità acquista un grande tesoro spirituale. L’altro, invece, non fa che agitarsi nel laccio in cui è imprigionato il suo cuore e, pur dimostrando diligenza, difficilmente può liberarsi anche per poco tempo dai vincoli del pensiero e del piacere a cui è legato il suo cuore. La persona spirituale deve, quindi, reprimere il primo moto che la porta verso la gioia delle creature. Si ricorderà di questo principio or ora enunciato, che cioè l’uomo non deve gioire di nulla se non di servire Dio, di procurare il suo onore e la sua gloria in ogni cosa, finalizzando tutto a questo scopo ed evitando ogni vanità che potrebbe incontrare nelle creature, senza mai cercare in esse il proprio piacere o la propria consolazione.

4. C’è un altro vantaggio molto grande e importante per chi rinuncia alla gioia che proviene dai beni temporali. Consiste nel lasciare il cuore libero per Dio. Questo è un modo per disporre l’anima ad accogliere tutte le grazie che Dio vorrà accordarle e che altrimenti non riceverebbe. Questi favori sono tali che, anche dal punto di vista temporale, sua Maestà, come promette nel vangelo (Mt 19,29), per una gioia lasciata per amor suo o allo scopo di conformarsi alla perfezione del vangelo, darà il cento per uno in questa vita. Ma anche se non vi fosse questo interesse, la persona spirituale dovrebbe soffocare nella sua anima le gioie che prova per le creature, per il dispiacere che dà a Dio. Difatti nel vangelo leggiamo che il Signore s’irritò talmente con quel ricco che si rallegrava solo del fatto di aver accumulato beni per molti anni, da dire che quella stessa notte la sua anima avrebbe dovuto rendere conto (Lc 12,20). Questo c’insegna che tutte le volte che ci rallegriamo vanamente, Dio guarda e ci prepara qualche punizione o amarezza commisurata alla colpa, per cui molto spesso la pena che proviene da tale gioia è cento volte superiore alla gioia stessa. Indubbiamente è vero quanto san Giovanni afferma di Babilonia nell’Apocalisse: Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso, restituiteglielo in altrettanto tormento e afflizione (Ap 18,7). Questo non vuol dire che la pena non sarà più grande di quanto sia stata la gioia, perché, ahimè!, per piaceri di breve durata, vi saranno tormenti eterni. In questo testo si vuole solo far capire che ogni colpa avrà il suo castigo particolare, perché colui che punirà ogni parola inutile (Mt 12,36), non lascerà impunita la gioia vana.

CAPITOLO 21

Ove si mostra quanto sia vano riporre la gioia della volontà nei beni naturali e come bisogna servirsene per andare a Dio.

1. Qui per beni naturali intendiamo la bellezza, la grazia, il portamento distinto, l’aspetto fisico e tutte le altre doti corporali; intendiamo, altresì, le qualità dell’anima, come l’intelligenza, la discrezione, e gli altri doni della mente. Se l’uomo pone in tutte queste cose la sua gioia, pensando che lui o i suoi posseggono queste doti, solo per rallegrarsene e non per rendere grazie a Dio, che le concede per essere più conosciuto e amato, tutto ciò è vanità e menzogna, come dice Salomone: Fallace è la grazia e vana la bellezza, ma chi teme Dio è da lodare (Pro 31,30). Questo testo c’insegna che l’uomo, anziché vantarsi di questi doni naturali, deve piuttosto tenersi nel timore perché, attratto e ingannato da essi, può facilmente allontanarsi dall’amore di Dio e cadere nella vanità. Per questo motivo il Saggio dice che la grazia corporale è fallace. Difatti essa inganna l’uomo nel suo cammino e lo attrae verso ciò che non gli conviene, per una gioia vana e per la compiacenza di sé o di colui che è dotato di tali qualità. Il Saggio aggiunge ancora che la bellezza è vana perché fa cadere in molti modi l’uomo che la stima e ne gode: egli deve rallegrarsene solo se aiuta lui e il prossimo a servire Dio. Deve anzi temere e stare attento che questi doni e grazie della natura non siano, per caso, motivo di offesa a Dio, per la vana presunzione o l’affetto disordinato con cui li guarda. Colui che possiede tali doni dev’essere prudente e stare all’erta per non offrire a nessuno, con una vana ostentazione, motivo per allontanare un solo istante Dio dal suo cuore. Questi doni e favori della natura, infatti, sono talmente provocanti e attraenti sia per chi li possiede sia per chi li guarda, che pochi riescono a tenere il cuore completamente libero da qualsiasi legame con essi. Per questo motivo, so per esperienza che molte persone spirituali, dotate di alcuni di questi doni, con le loro preghiere ottennero da Dio di non esserne più favoriti, onde non essere causa e occasione a sé o ad altri di attaccamenti vani o frivole soddisfazioni.

2. È necessario, dunque, che la persona spirituale purifichi la sua volontà da questa gioia vana e ne distolga lo sguardo, ricordando che la bellezza e tutte le altre doti naturali sono polvere, vengono dalla polvere e in polvere ritorneranno; che la grazia e il portamento distinto sono fumo e aria di questo mondo; che, per non cadere nella vanità, deve considerarle e stimarle per quello che sono, per esse indirizzare il cuore a Dio nella gioia e nell’allegria perché Dio ha in sé tutte queste bellezze e grazie in grado eminente, infinito e superiore a quello di tutte le creature, proprio come dice Davide: Tutti invecchiano e si logorano come veste…ma tu rimani lo stesso (Sal 101,27). Colui, dunque, che in ogni cosa non riversa la sua gioia su Dio, sarà nella falsità e nell’errore, e gli si possono applicare le parole di Salomone a proposito della gioia riposta nelle creature: Della gioia ho detto: a che serve? (Qo 2,2). Questo può dirsi di chi consente al suo cuore di essere sedotto dalle creature.

CAPITOLO 22

Ove si parla dei danni causati all’anima che ripone la gioia della volontà nei beni naturali.

1. Molti dei danni e vantaggi che sto per elencare sono comuni a tutti i diversi generi di gioie. Perciò, siccome essi derivano direttamente dall’adesione o dalla rinuncia alla gioia, e sebbene questa appartenga a qualcuno dei sei generi di cui ora tratterò, ciò che dirò dei danni e dei vantaggi di uno si applica anche agli altri, perché si riferisce alla gioia comune a tutti. Mio scopo principale, tuttavia, è di esporre i danni e i vantaggi particolari che vengono all’anima quando prova o non prova gioia nei beni naturali. Li chiamo particolari perché sono prodotti in modo primario e immediato da un tal genere di gioia, ma in modo secondario e mediato da un tal altro genere. Per esempio, la tiepidezza di spirito è un danno causato direttamente da tutti i sei generi di gioie, quindi questo danno è comune a tutti i generi; ma la sensualità è un danno particolare, che deriva direttamente solo dai beni naturali di cui sto parlando.

2. I danni spirituali e corporali, causati direttamente ed effettivamente all’anima quando ripone la sua gioia nei beni naturali, si riducono principalmente a sei. Il primo è la vanagloria, la presunzione, la superbia e il disprezzo del prossimo. Difatti non si può concedere la stima a una cosa senza sottrarla a un’altra. Da ciò segue quanto meno una disistima concreta per le altre cose, perché è naturale che quando il cuore ripone il suo apprezzamento in una cosa, lo ritiri dalle altre per aderire a quella che preferisce; da questo disprezzo reale è facile passare a un disprezzo intenzionale e volontario verso qualche altra cosa in particolare o in generale, non solo interiormente, ma anche a parole, e si dice: la tal persona o la tal cosa non è come quell’altra. Il secondo danno consiste nello spingere i sensi al compiacimento, al piacere sensuale e alla lussuria. Il terzo danno consiste nel far cadere nell’adulazione e nelle lodi vane, in cui c’è inganno e vanità, come dice Isaia: Popolo mio, chi ti loda, t’inganna (Is 3,12 Volg.). Infatti, sebbene a volte si dica la verità elogiando i doni e la bellezza di una persona, sarebbe strano che non ne risultasse qualche inconveniente, o inducendola al compiacimento vano e alla gioia frivola, o annettendo a quest’elogio attaccamenti e intenzioni imperfette. Il quarto danno è generale; consiste nell’annebbiamento della ragione e del senso dello spirito, come quando si pone la gioia nei beni temporali e, sotto un certo aspetto, molto di più. Poiché i beni naturali sono più intimi all’uomo di quelli temporali, la gioia da essi prodotta s’imprime con maggior efficacia e rapidità, lasciando nei sensi una traccia e uno smarrimento molto maggiore. La ragione e il giudizio perdono la loro libertà; sono come ottenebrati in seguito all’affezione di quella gioia a loro molto intima. Da ciò deriva il quinto danno, che è la distrazione della mente verso le creature. Da questa poi nascono la tiepidezza e la fiacchezza spirituali, che costituiscono il sesto danno. Anch’esso è generale e arriva fino a far provare grande noia e tristezza nelle cose di Dio, e addirittura a odiarle. In questo piacere, almeno agli inizi, si perde inevitabilmente la purezza di spirito; se poi si avverte del fervore, sarà un fervore molto sensibile e grossolano, poco spirituale, scarsamente interiore e raccolto: consisterà più nella gioia dei sensi che nel vigore dell’anima. Questa, poi, è tanto debole e poco elevata da non avere la possibilità di vincere in sé l’abitudine a tale gioia (infatti basta, per non avere la purezza di spirito, che l’anima abbia quest’abitudine imperfetta, anche se in alcune occasioni non consentirà ad atti di compiacenza). E così il fervore della persona verrà a risiedere, in certo qual modo, più nella debolezza dei sensi che nella forza dello spirito; comunque, le occasioni ne manifesteranno la consistenza e la perfezione. Non nego, tuttavia, che ci possano essere molte virtù insieme a tante imperfezioni; ma se queste gioie per i beni naturali non vengono soffocate, non può esserci spirito interiore puro e gustoso, perché regna la carne, che milita contro lo spirito (Gal 5,17); e sebbene lo spirito non si renda conto del danno, quanto meno sarà soggetto a una segreta dissipazione.

3. Ma torniamo ora al secondo danno, che ne racchiude in sé di innumerevoli. Non credo sia possibile descrivere né spiegare a parole una realtà che non è oscura né occulta, cioè il termine a cui portano questi danni e quanta infelicità provenga dalla compiacenza che si ripone nelle doti e nella bellezza naturale. Ogni giorno, infatti, per questi motivi, vediamo omicidi, perdite di onori, ingiurie, dissoluzioni di patrimoni, gelosie, contese, adultèri, stupri, fornicazioni e tanti santi caduti nel fango, i quali possono essere paragonati a un terzo delle stelle del cielo che la coda del serpente precipitava sulla terra (Ap 12,4). Si è annerito l’oro, si è alterato l’oro migliore; i preziosi e nobili figli di Sion, già vestiti di oro fino, sono stimati quali vasi di creta, rotti, diventati coccio (Lam 4,1-2).

4. Dove non arriva il veleno di questo danno? E chi non beve, poco o molto, da questo calice dorato che porge la babilonia donna dell’Apocalisse (17,4), seduta sulla grande bestia dalle sette teste e dieci corna? Queste parole ci fanno capire che non c’è nobile o plebeo, santo o peccatore a cui ella non faccia bere il suo vino, assoggettando in qualcosa il suo cuore. Difatti nello stesso libro si racconta che si sono inebriati tutti i re della terra con il vino della sua prostituzione (Ap 17,2). Ella esercita la sua tirannia sugli uomini di tutte le condizioni; non rispetta neanche la condizione suprema ed eccelsa del santuario e del sacerdozio divino. Come dice Daniele (9,27), posa la coppa della sua abominazione nel luogo santo; a stento rimane qualcuno, forte o debole che sia, a cui non faccia bere vino di quel calice che è la gioia vana. Per questo dice che tutti i re della terra si sono inebriati di quel vino; difatti se ne troveranno pochi, anche fra i più santi, che non siano stati rapiti e sedotti da questa bevanda della gioia e del piacere della bellezza e delle grazie naturali.

5. È da notare l’espressione si sono inebriati. Infatti, per quanto poco sia il vino di quella gioia, subito affascina e adesca il cuore, producendo il danno di annebbiare la ragione, come accade a coloro che sono in preda al vino. Se non si prende subito qualche antidoto contro questo veleno per buttarlo fuori, la vita dell’anima è in pericolo. Quando, infatti, aumenta la debolezza spirituale, l’anima cade in una situazione riprovevole come quella di Sansone, allorché gli furono strappati gli occhi e tagliati i capelli in cui risiedeva la sua originaria forza. Anche l’anima, allora, sarà costretta a girare le macine del mulino, prigioniera tra i suoi avversari; e poi, forse, morirà della seconda morte, quella spirituale, come Sansone morì di morte fisica insieme ai suoi nemici. Tutti questi danni provengono dal fatto che l’anima ha voluto assaporare quella gioia. Tale ubriacatura causa all’anima, e ancora oggi a molte persone, sul piano spirituale, ciò che ha procurato a Sansone su quello temporale. I nemici dell’anima verranno a dirle, schernendola: «Non eri tu che strappavi i legami doppi, spezzavi le mascelle dei leoni, uccidevi mille filistei, scardinavi le porte della città e ti liberavi da tutti i tuoi nemici?» (cfr. Gdc 16,24).

6. Per concludere, indico infine il rimedio necessario contro questo veleno: appena il cuore si sente mosso dalla gioia vana dei beni materiali, deve ricordarsi quanto sia inutile, pericoloso e dannoso godere di qualcosa che non sia servire Dio. Egli deve riflettere sulla catastrofe causata dagli angeli che vollero gioire e compiacersi della loro bellezza e delle loro doti naturali, poiché per questo motivo furono precipitati negli abissi orrendi. Rifletta, inoltre, sui mali innumerevoli che tale vanità causa ogni giorno agli uomini. Si faccia, perciò, coraggio e prenda il rimedio che il poeta suggerisce a coloro che cominciano ad affezionarsi ai beni naturali: «Affrettatevi a porvi rimedio subito, agli inizi, quando i mali hanno avuto poco tempo per crescere nel cuore, altrimenti il rimedio e la medicina arriveranno tardi». Dice il Saggio: Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa. Scende giù piano piano e finirà con il morderti come un serpente e pungerti come un basilisco (Pro 23,31-32).

CAPITOLO 23

Ove si parla dei vantaggi che l’anima ricava dal non riporre la gioia nei beni naturali.

1. Molti sono i vantaggi che l’anima ricava quando allontana il cuore da questa gioia, perché, oltre a trovarsi disposta all’amore di Dio e alle altre virtù, viene chiaramente spinta a praticare l’umiltà riguardo a se stessa e la carità nei confronti del prossimo, in modo universale. Infatti, quando l’anima non si affeziona a nessuno in modo particolare a motivo dei beni naturali apparenti, che sono menzogneri, è libera e indipendente, in grado di amare tutti in modo razionale e spirituale, come Dio vuole che siano amati. Da ciò risulta che nessuno merita di essere amato se non per la virtù che ha in sé. Quando amiamo così, amiamo secondo il volere di Dio e in piena libertà; e se questo amore si rivolge alla creatura, si dirige, però, soprattutto a Dio, perché quanto più cresce questo amore, tanto più cresce l’amore di Dio, e quanto più cresce l’amore di Dio, tanto più cresce anche quello del prossimo; infatti unica è la ragione e identica la causa dell’amore verso Dio e il prossimo.

2. Un altro grande beneficio si ricava dalla negazione di questa gioia: quello di adempire e osservare fedelmente il consiglio offerto dal Signore nel vangelo di Matteo: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso (Mt 16,24). L’anima non potrebbe assolutamente metter in pratica questo consiglio se cercasse la propria gioia nei beni materiali; chi pensa a se stesso, infatti, non si rinnega né segue Cristo.

3. Vi è un altro grande vantaggio per chi rifiuta questo genere di gioia: una grande tranquillità nell’anima, l’eliminazione delle distrazioni e il raccoglimento dei sensi, soprattutto degli occhi. Difatti, dal momento in cui l’anima rinuncia alla soddisfazione dei beni naturali, non applica i suoi sguardi né occupa gli altri sensi in queste cose, per non lasciarsi attrarre né avviluppare da esse, come anche per non perdere tempo pensandovi; si fa simile al serpente prudente che si tura le orecchie per non udire la voce dell’incantatore (Sal 57,5-6). Quando, infatti, si vigila sui sensi, che sono le porte dell’anima, la si custodisce bene e si accresce molto la sua tranquillità e purezza.

4. C’è un altro vantaggio, non minore, per coloro che hanno fatto dei progressi nella mortificazione di questo genere di gioia: gli oggetti e i cattivi pensieri non provocano in loro quelle impressioni impure che suscitano invece in quelli che ancora trovano un po’ di godimento in questi beni naturali. Per tale motivo, la negazione e la mortificazione di questa gioia è seguita dalla purezza dell’anima e del corpo, cioè dello spirito e dei sensi. La persona spirituale acquista, così, un comportamento tutto angelico nei confronti di Dio; la sua anima e il suo corpo divengono degno tempio dello Spirito Santo. Ora, tale purezza non può avverarsi se il cuore si compiace dei beni e delle doti naturali. Non è neanche necessario che ci sia consenso a una cosa impura o che la si ricordi, perché la sola compiacenza provocata dalla conoscenza di tale cosa basta a causare l’impurità nell’anima e nel corpo. Difatti il Saggio dice che il santo spirito se ne sta lontano dai discorsi insensati, che cioè non sono ordinati a Dio per una ragione superiore (Sap 1,5).

5. Ne deriva un altro vantaggio, che è generale. L’anima non solo si libera dai mali e danni suddetti, ma si preserva altresì da innumerevoli vanità e numerosi altri danni, sia spirituali che temporali. Soprattutto evita di cadere nella disistima che avvolge coloro che si rallegrano e si vantano delle suddette doti naturali, proprie e altrui. Vengono quindi ritenuti prudenti e saggi, come di fatto lo sono, tutti coloro che non danno importanza a questi beni naturali, ma solo a ciò che piace a Dio.

6. Dai vantaggi suddetti segue l’ultimo. Consiste in un bene straordinario per l’anima, estremamente necessario per servire Dio, cioè la liberta di spirito, con cui vince facilmente le tentazioni, sopporta bene le prove e progredisce felicemente nelle virtù.

 

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