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SALITA DEL MONTE CARMELO -opera integrale di S.Giovanni d.Croce

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2009 10:12
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29/09/2009 22:03

 

CAPITOLO 24

Ove si parla del terzo genere di beni dei quali la volontà può compiacersi, cioè i beni sensibili. Si dice quali siano e di quante specie, e come la volontà debba purificarsi da ogni godimento di tali beni per elevarsi a Dio.

1. Continuo a parlare della gioia riguardante i beni sensibili, che formano il terzo genere di beni dei quali – dicevo – può godere la volontà. È da notare che per beni sensibili intendo tutto ciò che in questa vita può cadere sotto i sensi della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto, o ancora tutto quello che forma interiormente il ragionamento immaginario, cioè tutto ciò che forma l’esperienza dei sensi corporali, interni ed esterni.

2. Ora, per oscurare e purificare la volontà dalla gioia riguardo a questi oggetti sensibili e attraverso questi indirizzarla a Dio, è necessario ricordare, come ho detto ripetutamente, che i sensi della parte inferiore dell’uomo, di cui sto trattando, non sono né possono essere capaci di conoscere e neppure di comprendere Dio com’egli è. Così, l’occhio non può vedere né lui né qualcosa che gli assomigli; l’orecchio non può udire la sua voce o suono che le assomigli; l’olfatto non può respirare profumo tanto soave, né il gusto assaporare una dolcezza così elevata e piacevole, né il tatto può provare sensazioni così delicate e gradevoli o qualcosa di simile; d’altra parte, nemmeno può essere oggetto del pensiero o dell’immaginazione la forma di Dio o qualche figura che lo rappresenti. Ha detto Isaia: Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto, né è entrato in cuore d’uomo… (Is 64,4; cfr. 1Cor 2,9).

3. A questo punto occorre osservare che i sensi possono percepire gusti e delizie o da parte dello spirito, mediante qualche comunicazione proveniente interiormente da Dio, o da cose esteriori che impressionano gli stessi sensi. Come ho detto, la parte sensitiva non può conoscere Dio né per la via dello spirito né per quella dei sensi; non essendo in grado di farlo, riceve in maniera sensibile e non altrimenti ciò che è spirituale e intelligibile. Di conseguenza, fissare la volontà nella gioia del piacere prodotto da alcune di queste percezioni sensibili sarebbe perlomeno una vanità; in questo modo s’impedisce alla volontà di esprimere tutta la sua forza per Dio e di riporre la gioia in lui solo. Non potrà farlo completamente se non purificandosi e negandosi anche a questo genere di gioia, come a tutti gli altri.

4. Volutamente ho detto che se la volontà fissa la gioia in qualcuno dei suddetti beni sensibili, pecca di vanità. Ma se essa, appena avverte il gusto di ciò che ode, vede e tocca, si eleva a Dio offrendogli questa gioia, che le serve da motivo e stimolo per tale scopo, fa molto bene. Non solo, dunque, si devono accogliere tali mozioni quando producono devozione e orazione, ma anzi possiamo e dobbiamo servircene, dal momento che favoriscono un così santo esercizio. Vi sono delle anime, infatti, che si avvicinano molto a Dio attraverso gli oggetti sensibili. Tuttavia occorre essere molto prudenti su questo punto ed esaminare bene gli effetti che se ne ricavano. Assai spesso, infatti, molte persone spirituali ricorrono a questi diversivi offerti dai sensi sotto pretesto della preghiera e dell’offerta di sé a Dio, ma in verità si comportano così per cercare la distrazione più che l’orazione, la propria soddisfazione più che il servizio di Dio. È loro intenzione servire Dio, ma l’effetto non è che uno svago sensibile; ne segue che, anziché spronare la volontà e portarla a Dio, ne traggono una più grande debolezza e imperfezione.

5. Per tutti questi motivi voglio offrire un criterio per valutare quando i suddetti piaceri dei sensi giovano e quando no. Tutte le volte che si ascolta musica o altre cose gradevoli, si respirano profumi soavi, si gustano sapori prelibati o si provano tocchi delicati, se immediatamente, al primo stimolo, si dirigono il pensiero e l’affetto a Dio, traendone piacere maggiore che dalla sensazione di cui si gioisce solo perché ne è stata la causa, allora è segno che quei godimenti sensitivi giovano allo spirito e lo elevano. In tal caso ci si può servire degli oggetti sensibili, perché ci aiutano a conseguire il fine per il quale Dio li ha creati e ce li ha dati, cioè perché sia meglio amato e conosciuto per mezzo loro. Ma occorre ricordare che colui al quale queste impressioni sensibili procurano il puro effetto spirituale sopra descritto, non per questo deve desiderarle né prestarvi molta attenzione, anche se suscitano un grande piacere quando sono offerte, a causa della gioia di amare Dio che esse producono, come ho detto. Egli non si affanna per procurarsele, e quando gli vengono offerte – lo ripeto – immediatamente le abbandona per fissare la sua volontà in Dio.

6. Il motivo per cui queste persone non danno molta importanza a tali impressioni, anche se le aiutano ad elevarsi a Dio, è il seguente: lo spirito che ha la prontezza di andare con tutto e per mezzo di tutto a Dio è talmente sazio, provvisto e soddisfatto dello spirito di Dio, da non sentire bisogno di nient’altro; e se lo sentisse, per questo motivo vi passerebbe subito sopra e lo dimenticherebbe senza farci caso. Chi, al contrario, non sente questa libertà di spirito nelle suddette impressioni e gusti sensibili, e la sua volontà si fissa su questi piaceri e se ne pasce, allora ne ricava danno, e perciò deve evitare di servirsene. È vero che la ragione gli suggerisce di cercare in essi un aiuto per andare a Dio, ma dal momento che l’appetito gode d’una gioia sensibile e l’effetto è sempre conforme a questa gioia, certamente gli saranno più di danno che di aiuto. L’anima, appena si accorge che dentro di sé regna il desiderio smodato per questi piacer, deve mortificarlo, perché quanto più è forte, tanto più gravi saranno l’imperfezione e la debolezza.

7. La persona spirituale, dunque, deve servirsi di qualunque gusto provato casualmente o volutamente solo per Dio, ed elevare a lui la gioia dell’anima, perché sia utile, vantaggiosa e perfetta. È opportuno ricordare che ogni gioia che non è negazione e annientamento di qualsiasi altra gioia inferiore, anche se provenisse da cosa apparentemente molto elevata, è vana, inutile e ostacola l’unione della volontà con Dio.

CAPITOLO 25

Ove si tratta dei danni che l’anima riceve quando vuole riporre la gioia della sua volontà nei beni sensibili.

1. Prima d’ogni cosa va detto che, se l’anima non spegne o calma la gioia che le può venire dalle cose sensibili, orientandola verso Dio, andrà incontro a tutti i danni che abbiamo visto derivare complessivamente dagli altri generi di gioia, come l’annebbiamento della ragione, la tiepidezza, la noia spirituale, ecc. In particolare, però, sono molti i danni, sia spirituali sia corporali o sensibili, che derivano da questa gioia.

2. Anzitutto, la gioia proveniente dalla vista degli oggetti, non rinnegata per andare invece a Dio, può generare direttamente la vanità dello spirito e la dissipazione del cuore, cupidigia disordinata, disonestà, disordine interiore ed esteriore, pensieri impuri e invidia.

3. Dalla gioia derivante dall’ascolto di cose inutili, nascono direttamente la distrazione dell’immaginazione, il pettegolezzo, l’invidia, i giudizi temerari, la volubilità di pensiero e un gran numero di danni di questo genere, molto pericolosi.

4. La gioia che si prova respirando soavi profumi genera la ripugnanza per i poveri, cosa contraria alla dottrina di Cristo, avversione per la servitù, poca sottomissione del cuore per le cose umilianti e insensibilità spirituale, che è quanto meno proporzionata alla passione disordinata di questa gioia.

5. Dalla gioia per i cibi gustosi nascono direttamente la golosità e l’ubriachezza, l’ira, la discordia e la mancanza di carità verso il prossimo e i poveri, come testimonia quel ricco epulone che mangiava lautamente ogni giorno, a differenza di Lazzaro (Lc 16,19). Nascono anche l’indisposizione fisica e le malattie; nascono i moti sregolati, perché aumentano i focolai della lussuria. Per di più, tale gioia genera direttamente un grande torpore spirituale e una noia per le cose spirituali, tanto da non poterle più gustare né prendervi parte o parlarne. Infine da questa gioia deriva la dissipazione di tutti gli altri sensi e del cuore, nonché insoddisfazione per molte cose.

6. Quanto alla gioia che il tatto prova nelle cose delicate, produce danni molto più numerosi e gravi, che stravolgono rapidamente lo spirito, soffocandone la forza e il vigore. Di qui nasce l’abominevole vizio della mollezza e degli stimoli che l’eccitano, tanto più intensi quanto più forte è quella gioia. La mollezza alimenta la lussuria, rende l’animo effeminato e pusillanime, inclina i sensi all’allettamento e alla concupiscenza, disposti a peccare e a far del male; infonde nel cuore una frivola allegria e una vana soddisfazione; crea libertà di linguaggio e impudenza degli occhi; seduce e indebolisce gli altri sensi a seconda del grado raggiunto da tale cattiva inclinazione; intralcia la rettitudine del giudizio, mantenendolo nell’insipienza e nell’ignoranza spirituale; e, dal punto di vista morale, crea vigliaccheria e incostanza; diffonde le tenebre nello spirito e la debolezza nel cuore; ispira paura anche laddove non c’è da temere. Questo genere di gioia genera talvolta spirito di confusione e insensibilità nella coscienza e nella mente, in quanto debilita profondamente la ragione, fino a ridurla in condizioni di non saper dare o ricevere un buon consiglio, incapace di accogliere beni spirituali e morali, in una parola, inutile come un vaso rotto.

7. Tutti questi danni derivano da questo genere di gioia, più o meno profondi in alcuni a differenza che in altri, a seconda dell’intensità di tale gioia, come anche delle disposizioni, della debolezza o dell’incostanza del soggetto in cui si annida. Vi sono, infatti, alcune nature che subirono più danni da una insignificante occasione che altre da occasioni più pericolose.

8. Infine, da questo genere di gioia proveniente dal tatto si può cadere in molti mali e danni che, come ho detto, derivano dalla gioia riposta nei beni naturali, che non sto a ripetere, perché ne ho già parlato. Non mi soffermo nemmeno su molti altri danni quali la negligenza nelle pratiche di devozione e nelle penitenze corporali, la tiepidezza e la mancanza di fervore nel ricevere i sacramenti della penitenza e dell’eucaristia.

CAPITOLO 26

Ove si parla dei vantaggi spirituali e temporali che l’anima ottiene quando rinuncia alla gioia derivante dalle cose sensibili.

1. Straordinari sono i vantaggi che l’anima ricava dalla rinuncia a questa gioia: alcuni sono spirituali, altri temporali.

2. Il primo vantaggio che l’anima trae dalla rinuncia alla gioia proveniente dalle cose sensibili, è quello di rafforzarsi nei riguardi delle distrazioni in cui era caduta per via dell’esercizio esagerato dei sensi. Ora si raccoglie in Dio e non solo conserva lo spirito e le virtù che ha acquisito, ma le aumenta di continuo e i suoi profitti vanno sempre più crescendo.

3. Il secondo vantaggio spirituale che deriva dalla rinuncia al godimento delle cose sensibili è eccellente. Possiamo dire in tutta verità che l’uomo da sensuale diventa spirituale, da animale diviene ragionevole e perciò la sua vita umana si avvicina a quella degli angeli, da temporale e umano diventa divino e celeste. Infatti, se l’uomo che cerca la gioia nelle cose sensibili e se ne compiace non merita altri nomi se non quelli che ho espresso, cioè sensuale, animale, temporale, ecc., colui, invece, che rinuncia alla gioia proveniente da queste cose sensibili merita tutt’altri titoli, cioè quello di spirituale, celeste, ecc.

4. È chiaro che qui si nasconde una verità. Se, infatti, l’esercizio dei sensi e la forza della sensibilità contrastano, come dice l’Apostolo, con la forza e l’esercizio dello spirito (Gal 5,17), ne risulta che, diminuendo e venendo a mancare una di queste due forze, quella opposta aumenta e si sviluppa perché non trova impedimenti. Così, quando lo spirito dell’uomo, che è la parte superiore dell’anima la quale ha relazione e comunica con Dio, si purifica, merita tutti i titoli suddetti, perché si perfeziona nei beni e nei doni spirituali e celesti che gli vengono da Dio. Entrambe queste verità vengono spiegate da san Paolo. Egli chiama il sensuale, cioè colui che esercita la sua volontà soltanto sotto il dominio dei sensi, animale, che non percepisce le cose di Dio; mentre quello che eleva a Dio la volontà lo chiama spirituale: questi scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2,14). L’anima, dunque, trova qui un grande profitto che la dispone largamente ad accogliere da Dio i beni e i doni spirituali.

5. Il terzo vantaggio consiste in un considerevole aumento dei diletti e della gioia, che la volontà riceve ora, nel tempo presente, proprio come dice il Signore, moltiplicati per cento (Mc 10,30; Mt 19,29). Se si rinuncia a una gioia, il Signore ne darà cento altre di più in questa vita, sia spiritualmente che materialmente; al contrario, se si accetta una gioia proveniente da queste cose sensibili, se ne trarrà cento volte di più in pene e dispiaceri. Ad esempio, quando l’anima è purificata dal piacere procuratole dalla vista degli oggetti, essa prova gioia spirituale elevando a Dio tutte le cose che vede, sia divine che profane; se l’anima è purificata dal piacere procuratole dall’udito, essa sperimenta una gioia spirituale centuplicata, indirizzando a Dio tutto ciò che sente, sia divino che profano. Lo stesso accade per gli altri sensi, quando sono purificati. Nello stato d’innocenza dei nostri progenitori, tutto quanto essi vedevano, dicevano e mangiavano nel paradiso serviva loro a gustare di più la contemplazione, perché la loro parte sensitiva era perfettamente assoggettata e sottomessa alla ragione. Allo stesso modo colui che ha i sensi purificati da tutte le cose sensibili e sottomessi allo spirito, fin dal loro primo moto, attinge delizie nella gustosa conoscenza e contemplazione di Dio.

6. Così dunque, per colui che è puro, tutto nelle cose elevate o umili torna a suo bene maggiore e gli offre una purezza più grande. Al contrario, l’impuro, con la sua impurità, da tutto ricava il male. Ma colui che non vince la gioia dei sensi non può godere la serenità di una gioia ordinaria in Dio per mezzo delle sue creature. Colui che non vive più secondo i sensi, finalizza alla contemplazione divina tutte le operazioni dei suoi sensi e delle sue potenze. Difatti è risaputo nella sana filosofia che ogni cosa agisce secondo il suo essere e il suo esistere. Ora, se l’anima vive una vita spirituale, dopo aver mortificato quella animale, è chiaro che, essendo tutte le sue azioni e tutti i suoi movimenti ormai spirituali, essa si dirigerà a Dio in ogni cosa e senza alcuna contraddizione. Ne segue che questa persona, ormai purificata nel cuore, in tutte le cose scopre una conoscenza di Dio piacevole, dolce, casta, pura, spirituale, piena di gioia e d’amore.

7. Da quanto detto deriva la seguente dottrina: finché l’uomo non si sarà abituato a privare i sensi della gioia sensibile, così da poterne ricavare fin dal primo moto il vantaggio che ho detto, e a indirizzarsi immediatamente in tutte le cose a Dio, dovrà necessariamente mortificare la gioia e il piacere derivanti da esse per distogliere la sua anima dalla vita sensitiva. Non essendo spirituale, temo che attingerà forse dall’uso delle creature più linfa e forza per i sensi che per lo spirito, specialmente se la forza sensibile, del resto già predominante, cresce di più per mezzo dell’esercizio della sensibilità, la sostiene o la nutre. Difatti il Signore ha detto: Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito (Gv 3,6). Si badi bene a questo, perché è la verità: colui che non ha ancora mortificato il gusto per le cose sensibili non pretenda di trarre molto profitto dalla forza e dall’esercizio dei sensi, pensando di trovare in essi un aiuto per lo spirito. Al contrario, le forze dell’anima cresceranno di più se essa saprà mortificare i piaceri sensibili, cioè soffocherà la gioia e il desiderio smodato di essi, piuttosto che farne uso.

8. Non è necessario parlare di quei beni di gloria riservati nell’altra vita a coloro che rinunciano a tale gioia. Mi limito a considerare solo le qualità dei corpi gloriosi, quali l’agilità e lo splendore, che saranno molto superiori a quelle di coloro che non si seppero mortificare. Anche la gloria essenziale sarà più grande per l’anima. Essa corrisponderà all’amore di Dio per il quale essi hanno rinunciato alla gioia di suddetti beni sensibili. Ogni atto di abnegazione di tale gioia passeggera e caduca, come dice san Paolo, procura una quantità eterna e smisurata di gloria (2Cor 4,17). Non voglio parlare ora degli altri vantaggi, morali, temporali e spirituali, che derivano da questa notte, cioè rinuncia, della gioia. Sono gli stessi di cui abbiamo parlato a proposito degli altri generi di gioia. Si manifestano in un grado molto superiore, perché le gioie che si respingono sono più intime alla natura umana. Per questo motivo, rinunciando ad esse, si acquista una purezza più intima.

CAPITOLO 27

Ove s’inizia a trattare del quarto genere di beni, che sono i beni morali. Si spiega quali siano e in che modo la volontà può farne lecitamente oggetto della sua gioia.

1. Il quarto genere di beni dei quali la volontà può gioire è costituito da quelli morali. Per beni morali intendo le virtù, le conseguenti abitudini in quanto etiche, la pratica di tutte le virtù e delle opere di misericordia, l’osservanza della legge di Dio, l’arte di governarsi, o politica, e tutte le opere che provengono da una naturale e buona inclinazione.

2. Questi beni morali, se posseduti ed esercitati, meritano forse la gioia della volontà più di qualunque altro genere di beni di cui ho finora parlato. Difatti vi sono due motivi che possono, singolarmente o insieme, procurare questa gioia: vale a dire la considerazione di ciò che essi sono in se stessi e il vantaggio che comportano e producono come mezzi e strumenti. Scopriremo così che il possesso dei tre generi di beni ricordati in precedenza non merita alcuna gioia della volontà. Come si è detto, essi, per loro natura, non recano all’uomo alcun bene né possiedono alcun valore in sé, essendo affatto caduchi ed effimeri; al contrario, generano e procurano pena, dolore e afflizione d’animo. Anche se meritano qualche gioia in base al secondo motivo, cioè quando l’uomo se ne serva per andare a Dio, quest’esito è talmente incerto che, come vediamo comunemente, procura all’uomo più danni che vantaggi. I beni morali, invece, in forza del primo motivo, in quanto cioè valgono per loro natura, meritano qualche stima da parte di chi li possiede. Poiché fruttano pace e tranquillità, rettitudine e ordine nell’uso della ragione, come anche prudenza nel comportamento, dal punto di vista umano una persona non può possedere cosa migliore in questa vita.

3. Poiché le virtù in se stesse meritano di essere amate e stimate, parlando umanamente, l’uomo può benissimo rallegrarsi di averle e di esercitarle sia per il loro intrinseco valore sia per i vantaggi umani e temporali che procurano all’uomo. In questo senso e per questo motivo i filosofi, i saggi e i principi dell’antichità le apprezzarono, le esaltarono e cercarono di acquistarle e farne uso. Benché fossero pagani e le guardassero dal punto di vista materiale e dei beni temporali e corporali che naturalmente ne vedevano derivare, non solo per loro mezzo acquistarono i beni e la fama passeggera alla quale aspiravano, ma qualcosa di più: Dio, che ama tutto ciò che è buono anche nel barbaro e nel pagano e non impedisce che si faccia alcuna cosa buona (Sap 7,22 Volg.), prolungò loro la vita, concesse onori, potere e pace, come appunto fece con i romani che seguivano leggi giuste: assoggettò a loro quasi tutto il mondo, ricompensando così su questa terra, per i loro buoni costumi, quelli che erano incapaci, mancando loro la fede, di premio eterno. Il Signore ama molto questi beni morali. Difatti Salomone, che aveva chiesto solo la sapienza per istruire il suo popolo, governarlo nella giustizia e istruirlo nei buoni costumi, risultò molto gradito a Dio. Dal momento che aveva chiesto la sapienza per lo scopo di cui sopra, il Signore l’assicurò che gli concedeva anche quanto non aveva domandato, cioè ricchezza e gloria come nessun re ebbe mai (1Re 3,11-13).

4. Senza dubbio, il cristiano deve rallegrarsi di questa prima utilità dei beni morali e delle buone opere che compie in questa vita, in quanto causa dei beni temporali di cui ho parlato sopra. Ma non deve limitare la sua gioia a questo primo livello, come facevano i pagani, il cui sguardo non andava al di là della presente vita mortale. Poiché egli possiede il lume della fede, per mezzo del quale spera la vita eterna e senza il quale nulla di ciò che è quaggiù o lassù gli sarà di giovamento, deve godere esclusivamente e soprattutto del possesso e dell’esercizio dei beni morali secondo un’altra visuale, in quanto cioè, agendo per amore di Dio, gli fanno acquisire la vita eterna. Così, comportandosi rettamente e praticando le virtù, terrà gli occhi fissi su Dio e porrà la sua gioia solo nel servirlo e onorarlo. Senza questa intenzione, tutte le virtù non valgono nulla dinanzi a Dio, come dimostra la parabola evangelica delle dieci vergini. Tutte avevano conservato la verginità e compiuto opere buone, ma poiché cinque di esse non avevano saputo cercare la gioia derivante dalle loro virtù conformemente alla seconda visuale – indirizzandole cioè a Dio – ma l’avevano riposta nel possesso di esse, secondo il primo livello, vennero respinte dal cielo senza alcun ringraziamento o riconoscimento da parte dello Sposo (Mt 25,1-12). Diversi personaggi dell’antichità possedettero molte virtù e fecero buone opere, e anche ai nostri giorni molti cristiani sono nella stessa situazione di quelli, ma tutto ciò non gioverà loro affatto per la vita eterna, perché non mirano alla gloria e all’onore che spetta solo a Dio. Il cristiano deve rallegrarsi non delle sue buone opere o dei suoi costumi retti, ma soltanto di far tutto per amore di Dio, senza altre intenzioni. Infatti, solo le opere compiute unicamente per amore di Dio meritano una ricompensa di gloria maggiore, mentre, se fatte per altri motivi, generano una confusione più grande dinanzi al Signore.

5. Per elevare a Dio la gioia che trova nei beni morali, il cristiano deve ricordare che il valore delle sue opere buone, dei digiuni, delle elemosine, penitenze, orazioni, ecc., non si fonda tanto sulla loro quantità e qualità, ma sull’amore di Dio che pone in esse. Le sue opere sono tanto più preziose quanto più puro e intatto è l’amore di Dio contenuto in esse e quanto minore è l’interesse per la gioia, il piacere, la consolazione e la lode. Non deve, quindi, attaccare il cuore al gusto, alla consolazione, al sapore o alle altre soddisfazioni che ordinariamente l’esercizio delle virtù e le buone opere comportano. Al contrario, deve orientare la gioia verso Dio, desiderando servirlo tramite queste cose, purificarsi e liberarsi del tutto da questa gioia, desiderando che sia Dio solo a godere e rallegrarsi di esse in segreto. In breve, non avrà altra intenzione e interesse che l’onore e la gloria di Dio. In questo modo concentrerà su Dio tutta la forza della sua volontà relativa a questi beni morali.

CAPITOLO 28

Ove si parla dei sette danni in cui può cadere la volontà quando ripone la gioia nei beni morali.

1. I danni principali che l’uomo può subire per la vana compiacenza nelle sue opere buone o nel suo comportamento sono sette e molto perniciosi, proprio perché spirituali. Di essi parlerò ora brevemente.

2. Il primo danno è la vanità, la superbia, la vanagloria e la presunzione. Difatti non ci si rallegra delle proprie azioni senza stimarle. Da qui nascono la millanteria e gli altri difetti di cui parla il vangelo a proposito del fariseo che pregava e ringraziava Dio, vantandosi di digiunare e di fare altre opere buone (Lc 18,12).

3. Il secondo danno normalmente è unito al precedente. Consiste nel giudicare gli altri cattivi e imperfetti in confronto a se stessi. Sembra che gli altri non agiscano e non si comportino così bene come noi; si ha poca stima di loro nel nostro cuore e talora la si esprime anche con le parole. Il fariseo della parabola aveva questo difetto, perché nelle sue preghiere diceva: O Dio, ti ringrazio che sono come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adulteri (Lc 18,11). Con un sol gesto cadeva nei due difetti: sopravvalutava se stesso e disprezzava gli altri. È esattamente quanto al giorno d’oggi molta gente dice: «Non sono come Tizio, né agisco come Caio o Sempronio». Molte di queste persone sono peggiori del fariseo. Costui non solo disprezzava gli altri, ma in modo particolare ne disprezzava uno quando diceva: Non sono come questo pubblicano (ibid.). Le persone di cui stiamo parlando, invece, non si contentano di recitare l’una o l’altra parte. Addirittura si irritano e si lasciano prendere dall’invidia quando vedono che altri sono lodati, agiscono meglio o valgono più di loro.

4. Il terzo danno consiste in questo: poiché tali persone nelle opere cercano solo la loro soddisfazione, solitamente le compiono quando vedono che da esse può derivare piacere o lode, proprio come dice il Signore: fanno tutto ut videantur ab hominibus, per essere visti dagli uomini (Mt 23,5), non per il solo amore di Dio.

5. Il quarto danno deriva dal precedente. Consiste nella mancata ricompensa da parte di Dio, perché l’hanno voluta ricevere sin da questa vita: nella gioia, nelle consolazioni, negli onori o altri interessi che hanno cercato nelle loro opere. Per questo motivo il Salvatore dice che hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2). Così costoro rimangono soltanto con la fatica delle loro opere e confusi, senza ricompensa alcuna. Grande è la miseria che da questo danno si riversa sui figli degli uomini! Sono convinto che la maggior parte delle opere che fanno in pubblico sono viziate, inutili o imperfette agli occhi di Dio, perché non sono immuni da interessi e calcoli umani. Che giudizio si può emettere su coloro che compiono certe opere e innalzano monumenti commemorativi con il preciso intento di esternare in essi l’onore e la riconoscenza umana, frutto di una vita condotta nella vanità? Agiscono così per perpetuare in tali cose il loro nome, lignaggio o potere. Arrivano persino a lasciare i segni di questo potere, i loro nomi e blasoni nelle chiese, come se volessero mettersi a posto delle immagini in quei luoghi dove tutti piegano le ginocchia. In tutto questo non possiamo forse dire che alcune persone adorano più se stesse che Dio? Ed è proprio così, se compiono quelle opere unicamente per certi motivi, come ho detto. Ma lasciamo da parte questi casi, che sono i peggiori. Quante persone nei più svariati modi si attirano questo danno derivante dalle loro opere! Alcune, per esse, vogliono essere lodate, altre preferiscono la riconoscenza; altre, ancora, vogliono che si raccontino le loro opere e hanno piacere che le sappia Tizio e Caio e tutto il mondo; a volte fanno sì che le elemosine o altre opere buone passino attraverso terze persone, perché vengano conosciute; altri infine voglio tutte queste cose insieme. Ciò equivale a suonare la tromba, come dice il Signore nel vangelo; i vanitosi si comportano così, e per questo non riceveranno da Dio la ricompensa per le loro opere (Mt 6,2).

6. Per evitare un danno simile, essi devono nascondere le loro opere, affinché le veda solo Dio, non altri. Non soltanto devono nasconderle agli altri, ma anche a se stessi, cioè non devono compiacersene, né stimarle come se valessero qualcosa, né ricavarne la più piccola gioia. È in questo senso spirituale che va inteso quanto dice il Signore a tale proposito: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt 6,3), il che equivale a dire: non valutare con l’occhio terreno e carnale l’opera spirituale che fai. In questo modo la forza della volontà si concentra in Dio e l’opera che compie ha valore ai suoi occhi. Se non si agisce in questo modo, oltre a perdere il frutto delle buone opere, non se ne ricava alcun merito. In questo senso va interpretata quell’affermazione di Giobbe che dice: Se ho baciato la mia mano con la bocca, il che è iniquità e peccato grande, e il mio cuore si rallegrò segretamente (Gb 31,27-28 Volg.). Per «mano» Giobbe intende l’opera che si compie e per «bocca» la volontà che se ne compiace. Per esprimere la compiacenza in se stesso, Giobbe dice: Se si rallegrò in segreto il mio cuore, il che è iniquità grande e negazione di Dio (ibid.). È come se dicesse che non si compiacque né si rallegrò in segreto nel suo cuore.

7. Il quinto danno di queste persone consiste nel non fare progressi nel cammino della perfezione. Difatti si attaccano al gusto e alla consolazione derivanti dalle opere buone. Poiché nelle loro azioni e negli esercizi di pietà non trovano gusto e consolazione, come ordinariamente avviene quando Dio le vuol far progredire, ma dà loro il pane duro destinato ai perfetti e strappa loro il latte dei bambini, mette con ciò a prova le loro forze e purifica i loro desideri smodati ancora deboli. In breve, le vuole rendere capaci di gustare il cibo dei grandi. Ma esse il più delle volte si scoraggiano e non perseverano, poiché non trovano la suddetta dolcezza nelle loro buone opere. Al riguardo dobbiamo intendere spiritualmente quanto dice il Saggio: Le mosche morenti perdono la soavità dell’unguento (Qo 10,1 Volg.). Quando, infatti, si presenta a queste anime qualche mortificazione, non compiono più le loro buone opere, si scoraggiano e non gustano più la soavità e la consolazione interiore, racchiuse in queste opere.

8. Il sesto danno consiste nel fatto che tali anime generalmente s’ingannano quando giudicano le cose e le opere che piacciono a loro come migliori di quelle che non amano; lodano e stimano le une mentre disprezzano le altre. Al contrario, possiamo dire che in generale quelle opere nelle quali l’uomo si mortifica maggiormente, soprattutto quando non è avanzato nella perfezione, sono più accette e preziose agli occhi di Dio, a motivo dell’abnegazione di sé che l’uomo deve praticare in esse, che quelle in cui trova la sua consolazione, ove può più facilmente cercare se stesso. A questo proposito Michea dice: Malum manuum suarum dicunt bonum: Il male delle loro mani lo chiamano bene (Mic 7,3 Volg.). Questo deriva dal fatto che nelle loro azioni cercano la propria soddisfazione, non di piacere unicamente a Dio. Sarebbe lungo riferire in che misura questo danno è presente sia nelle persone spirituali che nella gente comune. A stento si può trovare qualcuno che si decide ad agire solo per Dio, senza mai attaccarsi a una consolazione, a una gioia o ad altri interessi del genere.

9. Il settimo danno consiste in questo: fin quando l’uomo non ha soffocato in sé la vana compiacenza proveniente dai beni d’ordine morale, si rifiuta sempre di ricevere buoni consigli e saggi suggerimenti sulle opere che dovrà compiere. Difatti questa fiacchezza che si riscontra nelle sue azioni, unita alla ricerca della vana compiacenza come suo bene proprio, l’incatena al punto di non ritenere migliore il consiglio degli altri o, anche se lo ritiene tale, di non volerlo seguire, non avendo in sé il coraggio di metterlo in pratica. Queste persone diventano molto deboli nell’amore per Dio e per il prossimo, perché l’amor proprio che nutrono per le loro opere li raffredda nella carità.

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