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Spiegazione della Santa Messa di dom Prosper Gueranger abate

Ultimo Aggiornamento: 30/03/2010 23:53
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30/03/2010 23:23

IV - INTROITO

Terminata la cerimonia dell'incensazione, il sacerdote dice l'Introito. Non è sempre stato questo l'uso, poiché san Gregorio nel suo Ordo ci dice che il sacerdote si parava nel Secretarium [ II secretarium corrisponde all'attuale sacrestia. «La sacrestia (secretarium) è quella sala, generalmente attigua al presbiterio, nella quale si conserva la suppellettile del culto e dove i ministri sacri indossano le vesti liturgiche»: M. Righetti, Manuale di storia liturgica, vol. I, Milano 1964, p. 480.] e si recava all'altare, preceduto dalla croce e dai candelieri, mentre il coro cantava l'Introito, il quale era più lungo che ai giorni nostri, poiché si cantava tutto il salmo, mentre attualmente si esegue solo un versetto e il Gloria Patri. Il coro, inoltre, si occupava solo di cantare tutti gli altri brani che si dovevano eseguire durante la Messa. L'uso di fare recitar al sacerdote queste differenti parti che accompagnano la celebrazione del Sacrificio venne stabilito nello stesso tempo in cui si fissò l'uso delle Messe basse, e si è finito per osservarlo nelle Messe cantate.

Per questa ragione i Messali antichi non sono uguali a quelli utilizzati oggi. Essi contenevano semplicemente le orazioni, ossia le collette, le secrete, i postcommunio, i prefazi e il Canone, e portavano il nome di Sacramentari. Tutto ciò che si cantava si trovava nell'Antiphonarium, oggi chiamato Graduale (la maggior parte dei canti della Messa non sono, in realtà, che antifone più "ornate" di note delle antifone ordinarie).
Ai nostri giorni, da quando si è introdotto l'uso di celebrare le Messe basse, il Messale contiene tutto quello che un tempo cantava il coro, come pure le Epistole e i Vangeli.
Il sacerdote, come anche il coro, fa il segno di croce cominciando l'Introito, perché questa parte è considerata come l'inizio delle letture. Nelle Messe dei defunti si fa soltanto il segno di croce sul Messale.

V - KYRIE

Segue il Kyrie che, nelle Messe cantate, il sacerdote deve recitar al lato dell'altare, dove ha già letto l'Introito; è accompagnato dai suoi ministri che non vanno in mezzo all'altare se non quando vi si reca il sacerdote, disponendosi dietro di lui sui differenti gradini. Nelle Messe basse il sacerdote dice il Kyrie nel mezzo dell'altare.

Questa preghiera è un grido col quale la santa Chiesa invoca le tre Persone della Santissima Trinità. Le prime tre invocazioni si rivolgono al Padre, che è Signore: Kyrie, eleison; le tre seguenti s'indirizzano al Figlio incarnato, cioè a Cristo, e perciò si dice: Christe, eleison; infine le ultime tre si rivolgono allo Spirito Santo, che col Padre e col Figlio è Signore, e perciò si ripete: Kyrie, eleison, "Signore, abbi pietà". Il Figlio è ugualmente Signore col Padre e con lo Spirito Santo, ma la santa Chiesa parlando di Lui adopera la parola "Cristo", Christe, per la relazione di questo termine con l'Incarnazione.

Il coro canta questi Kyrie mentre il sacerdote li recita. Un tempo si erano aggiunte alcune parole alla melodia di queste diverse invocazioni, come ancora si vede nel Messale della Diocesi di Le Mans del 1705. Il Messale di san Pio V ha fatto cadere quasi ovunque l'uso di questi Kyrie detti infarciti (3). Nella Messa papale si cantavano innumerevoli Kyrie durante tutto il tempo in cui i cardinali prestavano pubblicamente obbedienza al Papa (4); ma ciò costituiva una vera eccezione.

La ripetizione delle tre invocazioni per ben tre volte, come vuole attualmente la Liturgia, ci mostra la relazione che esiste quaggiù con i nove cori degli Angeli che cantano in cielo la gloria dell'Altissimo. Quest'unione con gli Angeli ci prepara al cantico del Gloria che segue: cantico angelico portato sulla terra da quegli spiriti beati.

NOTE

3) Erano detti "infarciti" per esser un miscuglio di lingua latina e volgare. Nel Medioevo s'iniziarono ad aggiungere altre parole al testo (i cosiddetti tropi). I nomi dati alle Messe ci ricordano ancora tale pratica: Kyrie Rex Genitor (Messa VI), Orbis factor (XI), ecc. Talvolta questi tropi erano composti di latino e greco: "Deus creator omnium, tu Theos ymon nostri pie, eleyson" (Messale Sarum). L'uso di testi infarciti fu abolito dalla riforma di san Pio V. Cf. Rev. Dr. ADRIAN FORTESCUE, The Mass: A Study ofthe Roman Liturgy, Loreto Publications 2003.

4) Prima della riforma liturgica degli anni '70, il Papa celebrava pontificalmente la Santa Messa solo tre volte l'anno, a Natale, a Pasqua e nella festa dei Ss. Pietro e Paolo Apostoli (29 giugno), mentre nelle altre festività si limitava ad assistere al Sacrificio Eucaristico celebrato da qualche cardinale o prelato. Durante le tre Messe annuali i cardinali promettevano obbedienza al Papa.

VI - GLORIA IN EXCELSIS DEO

Per intonar il Gloria in excelsis Deo, il sacerdote si porta in mezzo all'altare, allarga le braccia e poi le ricongiunge. Ma nell'intonare quest'inno, come pure il Credo, non alza gli occhi. Alla fine dell'inno fa il segno di croce, perché in esso si parla di Gesù Cristo che, con lo Spirito Santo, sì trova nella gloria di Dio Padre, e in tal modo si fa menzione della Santissima Trinità.
Quest'inno è uno dei più antichi della Chiesa. Mons. Cousseau, vescovo d'Angoulème, ha fatto una dotta dissertazione per provare che santuario ne è l'autore, ma quest'opinione non è attendibile. In ogni modo, tale inno risale certamente ai primordi della santa Chiesa e lo si ritrova in tutti i Messali della Chiesa orientale. Non v'è nulla di più bello dei diversi afflati che s'incontrano in questa composizione. Non si tratta d'un brano lungo, del genere dei Prefazi, ad esempio, in cui la santa Chiesa espone una dottrina a cui segue un'orazione. Qui tutto è una continua elevazione e uno slancio ardente. Gli Angeli stessi lo hanno intonato, e la Chiesa, guidata - in questo come in tutto - dallo Spirito Santo, non fa che riprendere le parole degli Angeli. Ecco l'esposizione di questo magnifico cantico: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis, "Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace sulla terra agli uomini di buona volontà". Tali sono le parole degli Angeli: a Dio la gloria, agli uomini, che erano tutti - fino ad allora - figli dell'ira, la pace e la benedizione di Dio. In quest'esordio ci si rivolge anzitutto a Dio, senza fare la distinzione delle Persone, e la Chiesa, imitando gli Angeli, continua sul medesimo tono ed aggiunge: Laudamus te, "noi ti lodiamo", perché "la lode ti appartiene, e noi te l'offriamo"; Benedicimus te, "ti benediciamo", ossia: "ti rivolgiamo i ringraziamenti che ti sono dovuti per i tuoi benefici"; Adoramus te, "adoriamo la tua maestà"; Glorificamus te, "ti glorifichiamo" per averci creati e redenti.

Rivolgendo a Dio queste diverse elevazioni con l'intenzione di lodarlo, ringraziarlo, adorarlo e glorificarlo, non è necessario dar a queste espressioni alcuna interpretazione perché esse offrono a Dio una supplica ed una lode perfetta, secondo le intenzioni della Chiesa.
Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam. Ecco un'espressione profondissima: "Ti ringraziamo per la tua grande gloria". Dio si glorifica facendoci del bene. L'Incarnazione, che è il più gran bene che poteva far all'uomo, è anche la sua maggior gloria. Per questo la Chiesa doveva dire: "Ti ringraziamo", propter magnam gloriam tuam: "per la tua grande gloria". Infatti, l'omaggio del Verbo incarnato procura a Dio maggior gloria, anche nella minima delle sue adorazioni, di quella che gli possono procurare tutti insieme gli esseri creati. L'Incarnazione è dunque la maggior gloria di Dio, propter magnam gloriam tuam. E noi, povere creature, non possiamo che ringraziare Dio, perché se il suo divin Figlio si è incarnato, lo ha fatto per noi e per causa nostra. "È veramente per noi che tu hai operato, o Signore, il mistero che più ti glorifica: per questo è ben giusto che incessantemente te ne ringraziamo": Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam.

Domine Deus, Rex ccelestis, Deus Pater omnipotens. La santa Chiesa si rivolge qui direttamente al Padre e, se in principio tiene conto soltanto dell'unità di Dio, ora ne considera la Trinità. Incominciando, dunque, dalla Persona del Padre, che è principio e origine delle altre due, esclama: Deus Pater omnipotens, "Dio Padre onnipotente".
Poi rivolge le sue lodi al suo Sposo e, come se parlando di Lui non potesse raffrenarsi, gli consacra quasi tutto il resto del cantico. Canta il Figlio di Dio incarnato, e lo chiama Signore: Domine Fili unigenite, "Signore, Figlio unico", aggiungendo in continuazione il nome umano che ha ricevuto come creatura: Jesu Christe. Ma non dimentica che Egli è Dio, e lo conferma espressamente: Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Sì, il suo Sposo è Dio, è anche l'Agnello di Dio, come ha mostrato san Giovanni; è, infine, il Figlio del Padre. Nei suoi trasporti di giubilo, la santa Chiesa ricerca tutti i titoli che meglio possono convenire al suo Sposo, accumula le sue grandezze e si compiace di ripeterle incessantemente.

Nel novero dei titoli che da allo Sposo figura quello di "Agnello di Dio", ma sembra quasi ch'essa non abbia osato aggiungere, subito dopo, quella che per Lui è stata la conseguenza dolorosa di tale titolo: Qui tollis peccata mundi. Torna allora, ancora una volta, a parlare della sua grandezza ed esclama: Filius Patris. Come rincuorata da tale espressione, si risolve a rammentar al suo Sposo che, essendo l'Agnello di Dio, s'è degnato di portar i peccati del mondo: Qui tollis peccata mundi. "Se hai voluto riscattarci col tuo Sangue -sembra dirgli -, ora che sei nella gloria, non ci abbandonare, ma abbi pietà di noi", miserere nobis. Di nuovo gli dice: Qui tollis peccata mundi. Non teme più di pronunziare questa parola, ma torna a ripeterla, perché in essa è la nostra forza. L'Agnello di Dio, il Figlio del Padre, prendendo su di sé le nostre colpe e i nostri peccati, ci ha resi forti: che cosa abbiamo da temere? La santa Chiesa lo comprende così bene che lo ripete per due volte, chiedendo la prima volta misericordia e aggiungendo la seconda volta, che si degni prestar attenzione alle suppliche della sua Sposa: Suscipe deprecationem nostram. "Siamo - dice - riuniti per il Sacrificio; ricevi dunque ora la nostra preghiera".

Dopo aver così parlato, la santa Chiesa risale nel più alto dei Cieli: Qui sedes ad dexteram Patris. Pochi attimi prima si era compiaciuta di considerare lo Sposo come l'Agnello di Dio, carico di tutti i peccati del mondo. Ora si slancia e penetra sino alla destra del Padre, dove vede assiso Colui che è l'oggetto della sua lode. Ivi s'inabissa nell'Essere medesimo di Dio e vi ravvisa ogni santità, ogni giustizia, ogni rettitudine, ogni grandezza, come dirà tra breve. Ma prima fa sentire questo grido: Miserere nobis, "abbi pietà di noi", perché tu ci hai riscattato. E subito aggiunge: Tu solus Sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus Jesu Christe, "O Gesù Cristo, tu sei il solo Santo, il solo Signore, il solo Altissimo".
Come si vede, la santa Chiesa in questo cantico tende incessantemente verso il suo Sposo, e tutte le sue esclamazioni sono altrettanti slanci che essa compie per salire sino a Lui. Ora pensa a se stessa, ora pensa a Lui, e nulla trattiene il suo entusiasmo. Ha cominciato a parlare del suo Sposo, ricerca tutte le sue grandezze e si sforza di non ometterne alcuna. Parla di Lui, in particolare, perché è il suo Sposo; vuole lodarlo, glorificarlo e lo definisce: "solo Santo, solo Signore, solo Altissimo". Tuttavia aggiunge: Cum Sancto Spiritu, in gloria Dei Patris, "con lo Spirito Santo nella gloria di Dio Padre". In tal modo menziona la Santissima Trinità.

E la lode che rivolge a Cristo, chiamandolo "il solo Santo, il solo Signore, il solo Altissimo", raggiunge le due altre Persone, poiché il Padre e lo Spirito Santo non possono essere separati dal Figlio e - al par di Lui - sono egualmente solo "Santo", solo "Signore", solo "Altissimo". Infatti nessuno è "Santo", nessuno è "Signore", nessuno è "Altissimo", all'infuori del Signore stesso.
In questo magnifico cantico tutto è grande e semplice allo stesso tempo. La santa Chiesa si commuove pensando al suo Sposo. Si eleva prima di tutto col canto del Kyrie, segue poi intonando il cantico degli Angeli e, volendo continuar il canto di questi spiriti beati, lo stesso Spirito, che ha parlato ai pastori attraverso gli Angeli, ha posto sulle labbra della Chiesa la fine di un così sublime cantico.

VII - COLLETTA

Terminato il Gloria, il sacerdote bacia l'altare e, voltandosi verso il popolo, dice: Dominus vobiscum. Già un'altra volta aveva rivolto queste medesime parole ai soli ministri, quand'era ancora ai piedi dell'altare. Era allora come una sorta d'addio che dava nel momento in cui si disponeva ad entrare nella nube, non volendo separarsi dal popolo fedele senza aver detto una parola di affetto a coloro che avevano pregato con lui. Qui la santa Chiesa l'adopera con un'altra intenzione, ossia per richiamare, in qualche modo l'attenzione dei fedeli e ricordar loro che il sacerdote sta per pronunziare la colletta, ossia l'orazione nella quale raccoglie i voti dei fedeli e presenta a Dio le loro domande.

La parola colletta viene dal latino colligere, che significa "raccogliere, riunire". La colletta è di grande importanza, e perciò la santa Chiesa vuole che la si ascolti con rispetto e gravità. Secondo le usanze monastiche, mentre il sacerdote la recita, i Religiosi devono star inchinati profondamente, mentre nei capitoli i canonici l'ascoltano rivolti verso l'altare.
Alla fine di quest'orazione il coro risponde Amen, come se dicesse: "Sì, questo è ciò che domandiamo ed approviamo quanto è stato detto".

Questa prima orazione della Messa la si ritrova nell'Ufficio del Vespro, delle Lodi ed anche nel Mattutino dell'Ufficio monastico e nell'Ufficio romano (5). Non la si trova all'Ora di Prima, perché quest'Ufficio è stato istituito più tardi, né a Compieta, che deve essere considerata come una preghiera della notte, di cui san Benedetto, per primo, ha fissato la forma liturgica. La si ritrova, invece, all'Ora di Terza, Sesta e Nona.
Tutto ciò dimostra quanta importanza la santa Chiesa attribuisca alla recita di questa preghiera, che dona, in un certo senso, la caratteristica del giorno. Nessuna meraviglia, dunque, che la faccia precedere dal Dominus vobiscum, come per dire al popolo: "Prestate molta attenzione, perché quanto segue è della più grande importanza". Inoltre, in questo momento il sacerdote si volta verso il popolo, cosa che non ha fatto quando era ancora ai piedi dell'altare. Ormai si sente sicuro e, dopo aver ricevuto la pace del Signore baciando l'altare, l'annunzia al popolo. Poi, come se la portasse sulle sue braccia, le allarga dicendo: Dominus vobiscum, e il popolo risponde: Et cum spiritu tuo. Il sacerdote, allora, sentendocene il popolo gli è unito, aggiunge subito: Oremus, "preghiamo".

Il Fax vobis, che dicono i prelati invece di questo Dominus vobiscum, è un uso antichissimo. Era una formula di saluto abituale presso i Giudei e ricorda le parole del Gloria: Fax hominibus bonae voluntatis. È molto probabile che nei primi secoli tutti i sacerdoti dicessero il Fax vobis. Qualcosa di simile avviene in molte altre cerimonie pontificali. Così, ad esempio, è avvenuto per l'uso del manipolo che il prelato non indossava se non quando saliva all'altare. Tutti i sacerdoti, un tempo, facevano così. Più tardi è sembrato più semplice prender il manipolo in sacrestia e questo uso è prevalso sull'antico, che è stato riservato ai soli prelati (6).
Essendo il Fax vobis un ricordo del Gloria, ne consegue che, nelle Messe in cui si omette quest'inno, quella formula andrà sostituita col: Dominus vobiscum.

Il sacerdote deve tenere le braccia allargate quando legge la colletta, praticando in tal modo l'antico modo di pregare dei primi cristiani. Come Nostro Signore ha pregato sulla croce con le braccia stese, così i primi cristiani si rivolgevano a Dio allargando le braccia. Questo uso antichissimo ci è stato tramandato in modo particolare dalle pitture delle catacombe, che raffigurano l'orazione fatta sempre in questo atteggiamento: di qui il nome di Orantes dato a tali rappresentazioni, le quali - come pure gli scritti dei santi Padri - sono servite perché un'infinità di particolari relativi ai primi secoli del Cristianesimo non andassero perduti per sempre.
In Oriente si conserva ancora questo uso per tutti i fedeli. In Occidente è divenuto abbastanza raro e lo si restringe a casi particolari; solo il sacerdote prega in questo modo, perché rappresenta Nostro Signore, il quale, confitto sulla croce, offre al Padre una preghiera di straordinaria efficacia.

NOTE

5) Fatta eccezione per l'Ufficio di Natale, prima della Messa di mezzanotte.

6) Nella celebrazione, il vescovo sopra il rocchetto indossa l'amitto ed il camice, quindi la croce pettorale, la stola, la tunicella e la dalmatica ed infine la pianeta (se è metropolita vi aggiungerà il pallio benedetto dal Romano Pontefice; in alcune diocesi non metropolitane v'è un'insegna caratteristica detta "razionale"); poco dopo il Confiteor indosserà il manipolo. L'uso per i vescovi d'indossare il manipolo all'altare va spiegato, più che con ragioni simboliche, col fatto che lo si consegnava al vescovo quando, già vestito, stava per salire all'altare. Cf. M. RIGHETTI, op. cit, voi. I, p. 620.




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