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Spiegazione della Santa Messa di dom Prosper Gueranger abate

Ultimo Aggiornamento: 30/03/2010 23:53
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30/03/2010 23:36


XX - SANCTUS

II Trisagio è il cantico che udì Isaia quand'ebbe la visione celeste e, dopo di lui, san Giovanni, come ci narra egli stesso nella sua Apocalisse (4,8). La Chiesa non poteva mettere questo cantico celeste al principio della celebrazione, quando ci siamo confessati peccatori dinanzi a Dio e a tutta la corte celeste.

Che dicono dunque gli Angeli? Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Celebrano la santità di Dio. Ma come la celebrano? Nella maniera più perfetta: adoperano il superlativo, dicendo per tre volte di seguito che Dio è veramente santo. Ritroviamo il cantico del Trisagio nel Te Deum: Tibi Cherubim et Seraphim incessabili voce proclamant: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth.
Perché applichiamo a Dio la triplice affermazione della santità? Perché la santità è la principale delle perfezioni divine: Dio è santo per essenza.

Già nell'Antico Testamento, il profeta Isaia udì questo cantico degli Angeli, e più tardi, nel Nuovo Testamento, ce ne parla Giovanni, il discepolo prediletto, nella sua Apocalisse. Dio è dunque veramente santo, ed Egli medesimo si compiace di rivelarcelo. Ma alla santità va unita un'altra qualità: Sanctus Dominus Deus Sabaoth, "Santo è il Signore, Dio degli eserciti"; come se si dicesse: Deus sanctus et fortis. Dunque, due qualità in Dio: la santità e la forza. S'adopera l'espressione Deus Sabaoth o Deus exercituum, "Dio degli eserciti", perché niente è più forte d'un esercito che sormonta tutti gli ostacoli, supera tutte le difficoltà e passa sopra a tutto, e ciò esprime perfettamente la forza di Dio. Dunque, Dio è santo e forte, tanto forte quanto santo e tanto santo quanto forte.

Questo cantico angelico ha preso il nome di "Trisagio", termine che deriva da agios, "santo", e da treis, "tre": "Dio tre volte santo".
Nell'Antico Testamento esso costituiva una definizione della Santissima Trinità, perché è come se si dicesse: "Santo è Dio Padre, Santo è Dio Figlio, Santo è Dio Spirito Santo". Ma, per intravedere questo, bisognava essere molto colti e conoscere le Scritture; e non vi erano che pochi dottori in possesso d'una tale conoscenza. O, talvolta, era piaciuto a Dio d'infonder una tale conoscenza in alcune anime privilegiate a cui si degnava di comunicar i suoi lumi. Tra i Giudei vi sono sempre state di queste anime privilegiate.
Dopo aver confessato la santità e la forza di Dìo, la Chiesa ag?giunge: Pieni sunt caeli et terra gloria tua. Non v'è nulla di più sublime per esprimere la gloria di Dio. Infatti, non v'è angolo della terra dove la gloria di Dio non brilli e risplenda; tutto è opera della sua potenza e tutto lo loda e lo glorifica.

La santa Chiesa, contemplando in un trasporto di giubilo la gloria e la potenza di Dio, esclama: Hosanna in excelsis. Così gridavano i Giudei, secondo quanto ci dice la Scrittura, quando, la Domenica delle Palme, Gesù entrava trionfante in Gerusalemme. Osanna filio David, gridava il popolo: sì, Hosanna, che significa "saluto" e "rispetto". Unendo questo saluto al Sanctus, la Chiesa ha costituito un solo brano liturgico. Hosanna in excelsis, "saluto e rispetto nell'alto dei cieli", senza permettere che alcuna dì tali espressioni così belle e significative cadesse in oblio.
Come al principio della Messa la Chiesa ci ha unito agli Angeli per mezzo delle suppliche del Kyrie, vero grido di tristezza, così ora vuole che ci uniamo di nuovo ai cori angelici, ma in tutt'altra maniera. Essendo già penetrata nei misteri, essa è vicina a raggiunger il loro possesso completo. Per questo è presa dall'entusiasmo e pensa unicamente a cantar al suo Dio: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Hosanna in excelsis.

Era senza dubbio lodevole che i Giudei cantassero l'Hosanna mentre Gesù scendeva dal monte degli Olivi, arrivando a Gerusalemme e traversando la Porta Aurea: tutto era in armonia ed annunziava il trionfo. Ma, in realtà, è ancor più opportuno cantarlo qui, nel momento in cui il Figlio di Dio sta per discender in mezzo a noi che abbiamo la grazia di conoscerlo! È vero, infatti, che i Giudei dicevano: Hosanna filio David, ma non lo conoscevano; dopo pochi giorni, infatti, gridano contro di Lui: Tolle tolle, crucifìge eum.
Tutte le Chiese, a qualunque liturgia appartengono, qualunque rito seguono, hanno questo Trisagio.

Anticamente il Sanctus si cantava nel medesimo tono del Prefazio e si aveva il tempo sufficiente per dirlo intero prima della Consacrazione e di aggiungervi le parole: Benedictus qui venit in nomine Domini. Più tardi si composero canti più ornati, e dunque più lunghi. Da qui è venuto l'uso di divider il brano in due parti, perché poteva accadere che la Consacrazione avesse luogo prima d'averlo terminato. Il coro sospende dunque il canto alla parola Benedictus, che riprende dopo la consacrazione. E così questa frase, che prima si considerava come un saluto a Colui che doveva venire, diviene un saluto a Colui che è già venuto.

Il sacerdote, al contrario, recita immediatamente dopo il Trisagio queste parole: Benedictus qui venit in nomine Domini e, pronunziandole, traccia su se medesimo il sacro segno della nostra Redenzione per esprimere che quelle parole si applicano a Gesù Cristo. Tuttavia, la recita del Sanctus e del Benedictus da parte del sacerdote non deve considerarsi come un uso relativamente recente, come abbiamo detto parlando dell'Introito. Abbiamo veduto, infatti, il Sanctus recitato da alcuni sacerdoti di rito orientale; ora, è noto che le liturgie orientali hanno conservato quasi senza modifiche i riti da esse adottati sin dalla più remota antichità.


CANONE DELLA MESSA

Terminato il Prefazio, risuona il Sanctus e allora il sacerdote entra nella nube. La sua voce non si udrà più finché la grande preghiera non sarà terminata. Essa ha ricevuto il nome di Canon Missas, cioè "regola della Messa", perché tale parte è veramente ciò che costituisce la Messa: è ciò che si può definire la Messa per eccellenza. Termina al Pater noster, e il sacerdote, che ha concluso ad alta voce le preghiere dell'Offertorio, completerà questa nel medesimo modo, facendo udire le parole: Per omnia saecula saaculorum. I fedeli rispondono Amen, ossia: "approviamo tutto ciò che hai detto e fatto, perché abbiamo, come te, l'intenzione di far venire il Signore, perciò ci associamo a tutte le tue azioni". Il sacerdote, dunque, dice a bassa voce tutta la grande orazione del Canone, ed anche la parola Amen che conclude le diverse orazioni che compongono tale preghiera. Una sola volta alza un po' la voce, ma non dirà che alcune parole per confessarsi peccatore, egli e quelli che lo circondano: nobis quoque peccatoribus.

Nel secolo XVII gli eretici giansenisti vollero introdurre la pratica di recitar il Canone della Messa a voce alta. Ingannato da essi, un successore di Bossuet, il cardinal de Bissy, aveva lasciato mettere la R. impressa in carattere rosso nel Messale che aveva fatto comporre per la sua Chiesa, secondo un diritto che i vescovi di Francia s'immaginavano allora d'avere. Questa R, in rosso significava naturalmente che il popolo doveva risponder ad alta voce con la parola Amen alle orazioni, e siccome non si può risponder a ciò che non si ode, bisognava di conseguenza che il sacerdote dicesse a voce alta tutto il Canone, che era precisamente ciò che desideravano i giansenisti. Questa pericolosa innovazione suscitò vive ed energiche proteste, ed il cardinal de Bissy stesso corresse questo suo errore.
Le diverse orazioni che compongono il Canone sono molto antiche, ma non risalgono ai primi tempi della Chiesa.

Ciò è provato dal fatto che tutta l'officiatura divina si faceva inizialmente in greco, lingua, a quell'epoca, molto più usata di quella latina. Dobbiamo dunque credere che dette orazioni siano state composte verso il II secolo o nei primi anni del III. Tutte le Chiese hanno il loro Canone, il quale, se differisce un poco nella forma, è in sostanza sempre il medesimo, e la dottrina espressa nei diversi riti s'accorda spesso con quella che noi esprimiamo nel rito latino. Prova ammirabile dell'unità della fede, qualunque sia il rito.
La prima lettera della prima orazione del Canone è una T, che equivale al Tau degli Ebrei e che, per la sua forma, rappresenta la croce. Nessun altro segno poteva meglio porsi all'inizio di questa grande preghiera, nella quale si rinnova il Sacrificio del Calvario. Pertanto, quando si cominciarono a scrivere quei magnifici Sacramentari, arricchiti di disegni e d'illustrazioni d'ogni specie, si volle adornar il Tau e s'ebbe l'idea di mettere sulla croce che forma questa lettera l'immagine di Cristo.

A poco a poco il disegno s'ingrandì e si finì per rappresentare tutta la scena della crocifissione; e, per quanto grande fosse questo disegno, serviva sempre da prima lettera all'orazione Te igitur. Alla fine si decise che, per l'importanza del soggetto, poteva farsi di essa una stampa a parte. E infatti così si fece, tanto che oggi non v'è un solo Messale completo che non abbia, nel foglio antecedente a quello in cui comincia il Canone, l'immagine di Cristo crocifìsso. E ciò deriva, dunque, semplicemente dalla prima illustrazione degli antichi Sacramentari.

Quanto all'importanza del Tau o T vediamo che se ne parlava già nell'Antico Testamento. Ezechiele dice, a proposito degli eletti, che tutti coloro che Dio vorrà riserbare per sé dovranno essere segnati in fronte col segno del Tau, fatto col sangue della vittima, e tutti costoro saranno risparmiati (9,4-6). La ragione di ciò si fonda nell'essere tutti salvati dalla croce di Gesù Cristo, la quale aveva la forma del segno Tau. Anche nella Cresima, il vescovo fa il segno del Tau con l'olio santo sulla fronte dei cresimati.
La croce di Nostro Signore aveva la forma di Tau, cioè della T. In cima, per sostenere l'iscrizione, si aggiunse un altro pezzo di legno (che completa la forma della croce come la vediamo oggi) poiché san Giovanni ci dice che la causa della morte di Nostro Signore fu posta per iscritto sulla croce: Scripsit autem et titulum Pilatus, et posuit super crucem (19,19).
Tale è l'importanza di questa lettera con cui comincia la grande preghiera del Canone.

XXI - TE IGITUR

Te igitur, clementissime Pater, per Jesum Christum, Filium tuum, Dominarti nostrum, supplices rogamus ac petimus.
Il sacerdote, dopo il Sanctus, allarga le braccia e le innalza; poi, congiungendo le mani, leva gli occhi al cielo e subito li riabbassa. Allora, profondamente inchinato, con le mani giunte e appoggiate sull'altare, dice: Te igitur, clementissime Pater.
Queste parole Te igitur indicano una sorta di congiunzione, mostrando che il sacerdote è dominato da un solo pensiero, quello del Sacrificio. "Ora che già ti appartengo", sembra dire a Dio (tutte queste preghiere s'indirizzano al Padre, come abbiamo notato sin dall'inizio), "ora che i fedeli hanno rimessi i loro voti e desideri nelle mie mani, tutti insieme ti supplichiamo in nome di questo divin Sacrificio".

Poi bacia l'altare, per dare più espressione alla sua preghiera, e continua dicendo: uti accepta habeas et benedicas, congiungendo le mani. Quindi si appresta a fare per tre volte il segno di croce sulle cose offerte, aggiungendo: haec dona, haec munera, haec sancta sacrificia illibata, "sì, questo pane e questo vino che ti sono stati offerti sono veramente puri; degnati, dunque, benedirli e riceverli; ma benedicili non come pane e vino materiale, ma considerando il Corpo e il Sangue di Cristo in cui saranno trasformati". E per meglio mostrare che ha di mira il Cristo, il sacerdote fa il segno di croce sul pane e sul vino.
Di nuovo allarga le braccia e prosegue: In primis, quae tibi offerimus prò Ecclesia tua sancta cattolica. L'intenzione prima, quando si dice la Messa, è per la santa Chiesa, perché non v'è nulla di più caro a Dio che la sua Chiesa. E quando si parla della sua Chiesa, Dio è infallibilmente colpito.

Quam pacificare, custodire, adunare et regere dignerìs foto orbe terrarum. La parola adunare ci manifesta qui l'intenzione di Dio il quale vuole che la sua Chiesa sia una, come Egli stesso dice nella Sacra Scrittura: Una est columba mea (Ct 6,8). Entrando appieno nelle sue mire, gli chiediamo che la Chiesa rimanga sempre una, e che nulla venga a scindere la veste inconsutile di Cristo. Come nel Pater noster la prima cosa che Nostro Signore ci fa chieder è questa: Sanctificetur nomen tuum, "sia santificato il tuo nome", insegnandoci in tal modo che gl'interessi e la gloria di Dio devono precedere tutte le cose, così la sua gloria, a proposito della sua Chiesa, si antepone qui a tutto: in primis. Chiediamo per essa la pace, chiediamo che sia conservata e ben governata su tutta la terra. Quindi il sacerdote aggiunge: Una cum famulo tuo Papa nostro N. et Antistite nostro N. et omnibus orthodoxis, atque catholice et apostolicae fidei cultoribus.

Come si vede non vi è una sola Messa che non sia proficua a tutta la Chiesa; tutti i suoi membri partecipano di essa, e si ha cura, in quest'orazione, di nominarli specificatamente. In primo luogo si nomina il Vicario di Cristo sulla terra e, quando si pronunzia il suo nome, si fa un inchino di testa per onorare Gesù Cristo nel suo Vicario. Se la Santa Sede fosse vacante, questa menzione sì ometterebbe.
Quando il Papa celebra la Messa, sostituisce le parole che sono nel Messale con le seguenti: Et me indigno servo tuo... Il vescovo fa lo stesso per sé perché dopo il Papa, il Messale ricorda il vescovo della diocesi del luogo dove si celebra la Messa, affinchè ovunque la santa Chiesa sia rappresentata per intero. A Roma non si fa menzione del vescovo, poiché il vescovo di Roma è il Papa.

Ma, affinchè siano nominati tutti i suoi membri, la Chiesa parla qui di tutti i fedeli usando la parola cultoribus, cioè "tutti coloro che sono fedeli cultori della fede della santa Chiesa", poiché è necessario praticare questa fede per essere compresi nel numero di coloro dei quali la santa Chiesa fa menzione; bisogna altresì esser ortodossi, come essa dice chiaramente: omnibus orthodoxis, cioè "professare integra la fede cattolica, la fede che abbiamo ricevuto dagli Apostoli". La Chiesa, insistendo su quelle parole: omnibus orthodoxis, atque catholicse et apostolicae fidei cultoribus, vuoi farci intendere che non prega qui per coloro che non hanno fede, per quelli che non pensano con la Chiesa e non hanno la fede predicataci dagli Apostoli.

Dai termini che adopera la Chiesa, comprendiamo quanto la Santa Messa s'allontani dalle devozioni private. Deve dunque venire prima di tutte, e le sue intenzioni devono essere rispettate. Così la Chiesa fa partecipe di questo grande Sacrificio tutti i suoi membri; questo fa sì che, se il santo Sacrificio della Messa cessasse, non tarderemmo a ricadere nell'abisso di depravazione in cui si trovavano i pagani, e questa sarà l'opera dell'Anticristo. Questi metterà in pratica tutti i mezzi possibili per impedire la celebrazione della Santa Messa, affinchè questo grande contrappeso sia abbattuto, e così1 Dio metta fine a tutte le cose, non avendo più ragione di farle sussistere.

Ciò sarà facilmente comprensibile se osserviamo che, dopo il protestantesimo, in seno alle società la forza è notevolmente diminuita. Sono scoppiate guerre sociali dovunque, portando con sé la desolazione, e questo unicamente perché l'intensità del Sacrificio della Messa è diminuita. È il preludio di ciò che avverrà quando il diavolo e i suoi satelliti usciranno scatenati per tutto il mondo, portando dappertutto il terrore e la desolazione, come ci avverte il profeta Daniele. A forza d'impedire le ordinazioni e di far morire i sacerdoti, il diavolo impedirà la celebrazione del grande Sacrifìcio, e allora verranno i giorni della desolazione e del pianto.
E non bisogna meravigliarsene, perché la Santa Messa è un grande evento per Iddio come per noi.

Questo evento straordinario torna direttamente alla sua gloria. Come potrebbe disconoscere la voce di questo Sangue mille volte più eloquente di quello di Abele? È obbligato a prestarle una speciale attenzione, perché la sua gloria v'è interessata, e perché è il suo stesso Figlio, il Verbo eterno, Gesù Cristo, che s'offre come Vittima e che prega per noi il Padre suo.
Così, dunque, dobbiamo sempre considerare tre cose nella Santa Eucaristia: anzitutto il Sacrifìcio che da gloria a Dio; poi il Sacramento che è alimento delle anime nostre; infine, il possesso di Nostro Signore che è la nostra consolazione in questo esilio. Il semplice possesso di Nostro Signore, che ci consente di adorarlo con facilità, è minore del Sacramento o della Comunione; la Comunione è minore del Sacrificio poiché in essa si tratta soltanto di noi; ma, quando queste tre cose si trovano unite insieme, allora tutto è completo e si realizza pienamente il fine che Nostro Signore si propose nell'istituire l'Eucaristia.

Senza dubbio, se ci fosse stato concesso solamente di poter adorar il Signore, presente in mezzo a noi, sarebbe stato già molto, ma c'è stato dato molto di più nella Comunione. Tuttavia, il Sacrificio rimane ben al di sopra di questi due primi benefici. Infatti, attraverso il Sacrificio possiamo agire su Dio stesso, senza ch'Egli abbia il diritto d'esser indifferente ad esso, poiché, altrimenti, attenterebbe alla sua stessa gloria.

E, siccome Dio ha fatto tutto per la sua gloria, presta attenzione al Sacrificio della Messa e accorda, in un modo o nell'altro, ciò che gli viene domandato. Così neppure una sola Messa si celebra senza che si compiano i quattro fini di questo gran Sacrificio: l'adorazione, il ringraziamento, la propiziazione e l'impetrazione; e ciò perché Dio vi si è obbligato. Quando Nostro Signore, insegnandoci a pregare, diceva: Sanctificetur nomen tuum, era già molto, e questa domanda riguarda grandemente la gloria di Dio. Ma nella Santa Messa abbiamo molto di più: possiamo dire a Dio che non ha il diritto d'ignorar il Sacrificio perché in esso è Gesù Cristo che si offre e non può far a meno d'ascoltare, perché è Gesù Cristo che prega.

In passato si metteva nel Canone, dopo il nome del vescovo, quello del re: et Rege nostro N. Da quando san Pio V ha composto il Messale attualmente in uso, questo nome si omette, fondandosi questa decisione di quel Pontefice sulle differenze di religione dei prìncipi, sorte dopo il Protestantesimo. Attualmente c'è bisogno d'un permesso particolare di Roma per menzionar il re nel Canone. La Spagna lo domandò sotto Filippo II e l'ottenne. In Francia, il parlamento di Tolosa e quello di Parigi, offesi perché il re non era nominato nel Messale di san Pio V, ne proibirono la stampa. Nel 1855 Napoleone III domandò al Papa l'autorizzazione d'essere nominato nel Canone della Messa, e gli venne accordato.
La prima e la seconda orazione del Canone della Messa non hanno né conclusione né Amen.



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