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Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
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Spiegazione della Santa Messa di dom Prosper Gueranger abate

Ultimo Aggiornamento: 30/03/2010 23:53
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30/03/2010 23:45


XXX - SUPPLICES TE ROGAMUS

All'orazione che segue, il sacerdote non ha più le braccia allargate, perché s'inchina profondamente in atto di supplica. Ponendo sull'altare le mani giunte, dice: Supplices te rogamus, omnipotens Deus: jube haec perferrì per manus sancti Angeli tui in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae. Parole tremende, afferma Innocenzo III nel suo Trattato sul Sacrificio della Messa. Il sacerdote non designa altrimenti la sua offerta che con la parola haec, "queste cose"; sa che Dio le vede, che conosce il loro valore, e per questo si contenta di dire: jube haec perferrì, "ordina che queste cose siano portate".

E dove vuole che siano portate? In sublime altare tuum. Non basta l'altare della terra; pretendiamo che la nostra offerta sia trasportata sull'altare del cielo, su quell'altare che vide san Giovanni e sul quale è rappresentato un Agnello come immolato: et vidi Agnum stantem tamquam occisum. Questo Agnello, dice san Giovanni, è ritto, però, aggiunge: tamquam occisum, "è come immolato". Infatti, Nostro Signore avrà sempre le sue cinque piaghe che sono ora risplendenti, ma l'Agnello è ritto, perché è vivo, e non morrà più; così ce lo mostra san Giovanni. Tale è l'altare sul quale Nostro Signore sta ritto, nella sua vita immortale, portando impressi i segni di quanto soffrì: Agnum tamquam occisum. È là dinanzi al trono della maestà divina. Il sacerdote domanda dunque a Dio che mandi un Angelo, il quale, prendendo la Vittima sull'altare della terra, la metta sull'altare del cielo.

Qual è questo Angelo a cui allude il sacerdote? Non v'è cherubino, serafino, angelo o arcangelo che possa far ciò che il sacerdote domanda qui a Dio; è al di sopra del loro potere. Orbene, la parola "angelo" significa inviato, e il Figlio è stato inviato dal Padre, è venuto sulla terra e ha dimorato in mezzo agli uomini; è dunque il vero missus, l'Inviato, come Egli medesimo disse: et qui misit me Pater (Gv 5,37). D'altra parte Nostro Signore non è semplicemente nella categoria di quegli spiriti che chiamiamo angeli o arcangeli che Dio pone presso di noi; no, Egli è l'Angelo per eccellenza, Egli è - dice la Sacra Scrittura - l'Angelo del gran consiglio, Angelus magni consilii, di quel gran consiglio di Dio che ha voluto riscattar il mondo e per questo ci ha dato suo Figlio. Il sacerdote domanda dunque a Dio che l'Angelo porti sull'altare del cielo naso, ossia ciò che sta sull'altare della terra, e fa questa domanda per far notare l'identità del Sacrificio del cielo col Sacrificio della terra (15).

Víè qui qualcosa di simile a quel che si pratica nella liturgia greca. Dopo la Consacrazione, gli Orientali domandano allo Spirito Santo di venire ad operare questo divino mistero per dimostrare -come abbiamo detto - che è questo Spirito divino che opera qui come ha operato nella Santissima Vergine all'Incarnazione. Ma il mistero è già operato, e anche qualora il sacerdote greco dimenticasse quest'orazione, l'azione dello Spirito Santo già sarebbe compiuta. Quel ch'essi si propongono nella loro orazione, come noi nella nostra latina che abbiamo analizzata, è di affermare sempre più l'identità dei sacrifici dell'Agnello in cielo e sulla terra. In cielo quest'Agnello è ritto, benché appaia come immolato; qui è immolato ugualmente. Orbene, chi è che riunisce questi due sacrifici in uno solo? Gesù Cristo, l'Inviato, l'Angelo del gran consiglio.
II sacerdote in seguito aggiunge: Ut quotquot ex hac altaris participatione e, pronunziando queste parole, deve baciare l'altare, al quale la Chiesa porta una così grande venerazione per esser immagine di Gesù Cristo, Altare vivente; e di questa venerazione e rispetto sono segno i bei riti che compie per la sua santificazione e consacrazione.

Il sacerdote continua: Sacrosanctum Filli fui Corpus et Sanguinerà sumpserimus (fa il segno di croce sull'Ostia e sul calice, poi segna se stesso), omni benedictione caelesti, et grafia repleamur. Per eundem Christum Dominum nostrum. Così domandiamo qui d'essere riempiti d'ogni sorta di grazie e benedizione, come se fossimo ammessi in cielo alla partecipazione di questo Altare vivente, che è Gesù Cristo, dove Egli stesso elargisce ogni grazia e benedizione. Domandiamo queste grazie e benedizioni in virtù della nostra partecipazione a quest'altare della terra, che la santa Chiesa tratta con tanta devozione. In nome di quest'altare il sacerdote domanda per tutti gli uomini ogni sorta di benedizioni, perché il sacerdote non parla mai per sé solo, e perciò dice: repleamur, "che siamo riempiti". Fa il segno di croce dicendo le ultime parole per mostrare che queste benedizioni ci vengono dalla croce e per significare altresì che le accettiamo con tutto il cuore.
Qui finisce la seconda parte del Canone, che riguarda l'offerta. Queste tre orazioni circondano l'atto della Consacrazione, come le precedenti l'hanno preparato. Ora la santa Chiesa ci conduce alla preghiera d'intercessione.

NOTE

15) Quest'interpretazione di Dom Guéranger circa ìl'angelo" menzionato nel Canone è naturalmente sua personale. Non manca chi, al contrario, abbia identificato quell'"angelo" con una reale creatura celeste. «All'altare il Cielo e la terra si prestano mutuo soccorso per meglio esprimere a Dio i ringraziamenti e gli omaggi che gli sono dovuti. Infatti, mentre il sacerdote celebra, i santi angeli vanno a portare ed offrire il Sacrificio, come dimostra il fatto seguente, del quale si garantisce l'autenticità. Un giorno un sacerdote, nel momento della Consacrazione, vide intorno all'altare una moltitudine di spiriti celesti che, prostrati, adoravano col più profondo rispetto. Quando si inchinò, secondo la rubrica del Messale, dicendo: "Dio onnipotente, ti preghiamo umilmente di comandare che questi doni vengano portati dalle mani del tuo santo Angelo al tuo sublime altare, alla presenza della tua divina maestà", vide uno di quegli spiriti, più bello degli altri, prendere l'Ostia consacrata e portarla davanti alla divina Maestà.

I cori degli angeli si rallegravano con lui e tutta la corte celeste provava grande gioia per quell'offerta, come se l'avesse presentata essa stessa. Il sacerdote, con lo sguardo in alto come in estasi, contemplava stupito quel sublime spettacolo e, dopo qualche istante, abbassando gli occhi sul corporale, vide l'Ostia di nuovo al suo posto e si meravigliò di un così rapido ritorno. Pieno di gioia terminò la Messa con grande consolazione sensibile e fervore, e più tardi raccontò il fatto a qualche amico, invitandolo a lodarne Dio»: M. DE COCHEM, La Santa Messa, Albano Laziale 2002, p. 139.


XXXI - MEMENTO DEI DEFUNTI

Oltre alla Chiesa trionfante e a quella militante, esiste anche un'altra regione in questo gran Corpo, ed è la Chiesa purgante. Sì, Dio ci ha dato il potere d'intercedere per essa, per venirle in aiuto e farle del bene; così si offre il santo Sacrificio secondo l'intenzione dei suoi membri, e la Chiesa, piena di materna sollecitudine, vuole che in tutte le Messe che si celebrano si faccia menzione dei suoi figli che soffrono ancora nel luogo d'espiazione, onde procurar loro un nuovo sollievo. È articolo di fede credere nell'efficacia del Sacrificio per il sollievo delle anime del Purgatorio, dottrina che ci è stata trasmessa dalla Tradizione. Sin dalla fine del II secolo, Tertulliano parla della preghiera per i defunti. Un tempo vi era un dittico esclusivamente destinato a contener i nomi dei defunti dei quali si voleva far una speciale memoria, come ad esempio quello dei benefattori.

Il sacerdote si rivolge dunque a Dio in favore di questi membri che soffrono: Memento etiam, Domine, famulorum famularumque tuarum N. et N., qui nos prsecesserunt cum signo fidei, et dormiunt in somno pacis. Si afferma qui che intercediamo per coloro che ci hanno preceduto col segno della fede. E che cosa intende la santa Madre Chiesa per "segno della fede"? S'intende il segno del battesimo e quello della cresima, che completano il cristiano. Già il battesimo da sé solo ci da il segno della fede, poiché in esso si vien segnati con la croce cosicché, quando si porta in chiesa il corpo d'un defunto, il sacerdote pronunzia su di esso questa preghiera: Non intres in judicium cum servo tuo, Domine, [...] qui, dum viveret, insignitus est signaculo sanctse Trinitatis: "II tuo servo è stato segnato col segno della fede - signum fidei, segno della Trinità -, merita, o Signore, d'essere preso in considerazione e di non essere giudicato troppo severamente". La parola della santa Chiesa signum fidei, ci prova, ancora una volta, che noi non possiamo pregare per gl'infedeli, come abbiamo notato nel memento dei vivi, poiché essi non sono nella Comunione della Chiesa.

Et dormiunt in somno pacis. Con queste parole la Chiesa vuole farci notare com'essa consideri la morte del cristiano: è un sonno -essa dice - perché coloro dei quali parliamo dormono: dormiunt, e per questo s'è dato il nome di cimiteri, parola che significa "dormitorio", ai luoghi utilizzati per dar sepoltura ai morti. Dormono e dormono un sonno di pace: in somno pacis. La santa Chiesa s'esprime così perché coloro per i quali prega sono morti in pace con lei e dando prove della loro filiale sottomissione alle sue decisioni; sono morti in Gesù Cristo, nel bacio del Signore ed, anche qualora fossero in Purgatorio, si può dire di loro che dormono il sonno della pace, perché sono stati salvati in Gesù Cristo che porta seco la pace.

Nelle catacombe si trovano spesso le parole in pace, incise sulle pietre sepolcrali; era questa l'espressione di cui si servivano i primi cristiani parlando della morte. Così pur nell'Ufficio dei Martiri cantiamo: Corpora sanctorum in pace sepulta sunt. Quest'Ufficio antichissimo ci ricorda il linguaggio delle catacombe: in pace. La santa Chiesa conserva questo ricordo nel momento in cui prega per i morti, ponendo sulla bocca del sacerdote le parole: dormiunt in somno pacis.

La rubrica prescrive al sacerdote di congiungere le mani prima di terminare questa prima parte dell'orazione. È allora che egli prega per i defunti che vuoi raccomandar in modo particolare. Dopo averlo fatto, allarga di nuovo le mani e prosegue la sua preghiera, dicendo: Ipsis, Domine, et omnibus in Christo quiescentibus. Vediamo in tal modo che ciascuna Messa è proficua per tutte le anime del Purgatorio. Locum refrigerii, lucis et pacis, ut indulgeas, deprecamur. Osserviamo bene ciascuna delle tre petizioni avanzate qui dalla Chiesa: refrigerio, luce, pace. Che cos'è dunque il Purgatorio? È un luogo dove le anime sentono crudelmente gli ardori del fuoco e, di conseguenza, hanno necessità di sollievo. È inoltre un luogo dove non v'è luce, poiché la Chiesa reclama per quelle anime locum lucis; niente, dunque, viene a distrarle dalle loro sofferenze in questo luogo di espiazione. È, infine, un luogo in cui regna la più continua agitazione, perché le anime colà trattenute non possono ancora ricongiungersi a Dio verso il quale si sentono spinte; luogo di turbamento, cagionato dalla disgrazia di vedersi sommerse nella tristezza e nel dolore: è la mancanza della pace. È, in una parola, un luogo del tutto contrario a quello in cui regnano refrigerium, lux et pax. Queste tre espressioni sono della più alta importanza, poiché ci fanno conoscere che quando noi preghiamo per i defunti, giunge ad essi il nostro soccorso come refrigerio, luce e pace.

Il sacerdote termina la sua orazione con la consueta conclusione: Pereundem Christum Dominum nostrum. Amen. Nella rubrica è prescritto di terminarla chinando il capo, cerimonia che non è prevista alla fine delle altre orazioni. È come un'istanza maggiore: in questo momento s'illumina il Purgatorio, perché la preghiera offerta per le anime lì trattenute non è mai inutile. Sembra che la prigione s'apra per lasciare penetrar in essa rugiada, luce e pace, e questo triplice soccorso si concede alle anime nella misura in cui la giustizia di Dio lo reputa conveniente. E questo perché la Chiesa non prega per i defunti se non attraverso il suffragio, non avendo più su di essi i diritti che ha sopra i suoi membri viventi in questo mondo. Ma noi sappiamo anche che le sue preghiere sono sempre di salutare effetto per le anime del Purgatorio, e che Dio non lascia mai senza efficacia alcuna delle preghiere che gli sono rivolte.


XXXII - NOBIS QUOQUE PECCATORIBUS

Ora, dopo aver fatto scorrer il Sangue di Gesù Cristo a profitto delle anime del Purgatorio, ritorniamo a noi. Il sacerdote si dichiara peccatore con noi dicendo: Nobis quoque peccatoribus famulis tuis, de moltitudine miserationum tuarum sperantibus, partem aliquam, et societatem donare dignerìs, cum tuis sanctis..., "Anche noi, sebbene peccatori, reclamiamo la nostra parte di felicità, non vogliamo restarne al di fuori". È questo il solo momento in cui il sacerdote alza la voce durante il Canone, battendosi il petto. Il nostro amore fraterno ci aveva indotto a pregare per quei nostri fratelli che sono morti e non sono ancora entrati nell'eterna beatitudine. Anche noi preghiamo Dio di rendercene partecipi, sperando nella sua bontà e misericordia.

E con chi vogliamo essere compartecipi? Cum tuis sanctis Apostolis et Martyribus. Sembra alla santa Chiesa di non aver ancor nominato abbastanza Santi. Ma, non volendo aumentare la prima lista, trova qui il momento propizio per parlare di coloro che le sono particolarmente cari. Poiché è una gloria grandissima per i Santi essere menzionati in quella ch'è l'Azione per eccellenza (ossia la Santa Messa), Dio ha scelto gli eletti che devono essere ricordati alla presenza di Cristo medesimo.
Di nuovo incontriamo qui gli Apostoli e i Martiri: Cum tuis sanctis Apostolis et Martyribus. E ciò perché nei primi secoli si rendeva o-maggio ed onore soltanto a queste due categorie di Santi, non essendo ancora stabilito il culto dei Confessori. Desideriamo dunque esser in società, societatem, con essi ed anche cum Joanne, ossia con Giovanni Battista, il Precursore del Signore.

Stephano, Stefano, il protomartire. Perché questo modello, capo dei Martiri non è stato ancora nominato? Perché dopo aver nominato nel primo dittico san Pietro e gli Apostoli, la Chiesa è passata subito ai primi Papi: Lino, Cleto e Clemente. Nominando san Pietro e i suoi tre successori, si definisce subito la santa Chiesa e il potere di Pietro con questa gloriosa triade di santi Papi. Santo Stefano avrebbe scompaginato quest'ordine di idee, se lo si fosse nominato nella prima lista, come pure san Giovanni Battista, che non è considerato né come apostolo né come martire, quantunque abbia predicato la penitenza e la venuta del Signore, e sia morto a motivo del suo zelo nel difendere la virtù della castità. La santa Chiesa non vuole, tuttavia, tralasciare di commemorare questi due grandi Santi e per questo li inserisce qui.

Matthia: è un apostolo, ed è menzionato qui perché, avendo la santa Chiesa nominato dodici Apostoli nel suo primo dittico e collocato in esso san Paolo, Mattia, che fu eletto per completar il collegio apostolico dopo la defezione di Giuda, doveva pur esservi nominato, ed era opportuno collocar il suo nome in cima al secondo dittico.
Barnaba, fu compagno di san Paolo in molti dei suoi viaggi apostolici.
Ignatio, il gran martire che, dopo sant'Evodio, successe a san Pietro nella sede di Antiochia. È sua quella magnifica lettera indirizzata ai Romani nella quale parla della felicità di soffrire per amore di Gesù Cristo. Venne a Roma, sotto l'impero di Traiano e in questa città subì il martirio.

Alexandro, quinto o sesto successore di san Pietro, pontefice di eminenti qualità. È opportuno nominarlo qui, perché fu lui che ordinò di aggiunger al Canone le parole: Qui prìdie quam pateretur, per ricordar in questo solenne momento la Passione del Signore.
Marcellino, Petro: Marcellino e Pietro, martiri ambedue della persecuzione di Diocleziano. Il primo era sacerdote, Pietro era esorcista. Non si separano mai, i loro nomi vanno sempre uniti.
Finora, come abbiamo veduto, nel Canone non s'è fatta menzione delle donne. La santa Chiesa non può tuttavia ometterle. Qual è dunque la prima di cui ci parla? Felicitate: è la grande Felicita, l'eroica madre che nella persecuzione di Marco Aurelio rinnovellò il generoso sacrificio della madre dei Maccabei, sacrificando sulle are della fede i suoi sette figli. Ella, a sua volta, soffrì il martirio il 29 novembre, alcuni mesi dopo il martirio dei suoi figli, che avvenne nel luglio precedente. È tanto illustre la gloriosa martire Felicita, come pure i suoi figli, che, essendo già aperte le catacombe all'epoca del suo martirio, si divisero i corpi dei suoi figli tra i diversi cimiteri. Nel cimitero di santa Priscilla fu sepolta lei con due dei suoi figli.

Perpetua: è la nobile Perpetua di Cartagine. Poiché è collocata dopo santa Felicita, non v'è dubbio che la Felicita qui menzionata è quella di Roma e non quella che subì il martirio a Cartagine con santa Perpetua. Qui Perpetua rappresenta la sua compagna e tutti quelli che soffrirono con lei il martirio. È qui nominata sia perché è la più illustre di tutte, sia per avere scritto parte del racconto del suo martirio.
Agatha, Lucia. Sino al pontificato di san Gregorio Magno si diceva: Perpetua, Agnete, Caecilia; ma questo santo Pontefice, che sentiva grande affetto per la Sicilia, dove aveva fondato sei monasteri, inserì nel Canone due vergini siciliane, Agata di Catania e Lucia di Siracusa, dando ad esse come a straniere il primo posto e mettendo dopo di loro le vergini romane Agnese e Cecilia. Perché si antepone qui Agnese a Cecilia, se Agnese soffrì il martirio sotto l'impero di Diocleziano, mentre per incontrare Cecilia dobbiamo risalire all'epoca di Marco Aurelio? Sembra che non vi sia altra ragione che l'armonia della frase.

Anastasia, nobile vedova romana che soffrì il martirio sotto l'impero di Diocleziano. Questa santa Martire acquistò a Roma grande celebrità, al punto che il Sommo Pontefice soleva celebrare nella sua Chiesa la seconda Messa di Natale. Oggi quest'uso è sparito, ma si conserva quello di far la commemorazione di una così grande Santa nella seconda Messa di detto giorno.
Intra quorum nos consortium, non aestimator meriti, sed veniae, quaesumus, largitor admitte. Dopo aver fatto di nuovo memoria dei Santi, il sacerdote domanda a Dio che si degni ammetterci tra loro. Non certamente perché ne abbiamo diritto per i nostri meriti, ma per opera e grazia della sua bontà e misericordia. Il sacerdote termina quest'orazione con la consueta conclusione: Per Christum Dominum nostrum.

XXXIII - PER QUEM HAEC OMNIA

Anticamente si praticava in questo momento della Messa una cerimonia che oggi è sparita. Sì collocavano vicino all'altare pane, vino, verdura e frutta, e il sacerdote pronunciava le parole seguenti (che anche oggi fan seguito alla conclusione dell'orazione precedente): Per quem haec omnia, Domine, semper bona creas, sanctìficas, vivificas, benedicis et praestas nobis. Nel proferire queste parole, il sacerdote, che allora stava alla presenza del medesimo Dio e in tutta la grandezza del suo ministero, dava la benedizione a tutti quei frutti che si presentavano dinanzi all'altare. La differenza tra gli usi e costumi di quei tempi e quelli dei nostri giorni spiega perfettamente l'esistenza di detta cerimonia nell'antichità e la sua omissione nell'epoca attuale. Anticamente la Chiesa non aveva che un solo altare disposto secondo la descrizione fatta da san Giovanni nell'Apocalisse, ossia: il trono del Padre in fondo all'abside, l'altare dinanzi, i vegliardi a ciascun lato e l'Agnello sopra l'altare. Si diceva una Messa sola, e non tutti i giorni; la celebrava il vescovo, e tutti i sacerdoti si univano a lui e consacravano con lui. I fedeli presentavano dunque tutti i frutti della terra e quanto serviva al loro nutrimento, perché il vescovo li benedicesse in quell'unica Messa. Più tardi, verso il secolo VIII, per ispirazione dello Spirito Santo, si andò facendo più frequente la celebrazione del santo Sacrificio, si moltiplicarono gli altari e si aumentò il numero delle Messe. E, a misura che s'introduceva questo santo costume, andò sparendo quello di portar i frutti da benedire.
Che ne faceva dunque la santa Chiesa di queste parole di benedizione? Il sacerdote le sottrasse al significato primitivo per applicarie al Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo presente sull'altare, attraverso il quale ci sono state date tutte le cose.

Così il sacerdote, pronunziando le parole sanctificas, vivificas, benedicis, fa il segno di croce sull'Ostia e sul calice. Potrà dirsi che questo cambio è un po' forzato, ma almeno ci dimostra il grande rispetto che la Chiesa porta al Canone della Messa poiché, per non perdere queste parole, le applica al Corpo di Gesù Cristo, che è stato creato come i frutti della terra e che, per i misteri della sua Passione, della sua Risurrezione e della sua Ascensione, ha compiuto perfettamente ciò che queste parole esprimono: sanctificas, vivificas, benedicis; e, infine, preastas nobis, "ci è donato come nutrimento".
Oggi rimane qualche vestigio dell'antica cerimonia nel rituale benedettino, poiché il giorno della Trasfigurazione si benedice, in questo momento, l'uva, benché non si adoperino per questa benedizione le parole del Canone, ma un'orazione presa dal Messale di Cluny. Similmente, il Giovedì Santo il vescovo benedice a questo punto della Messa l'olio degli infermi.

Il Canone volge al termine. Terminerà quando il sacerdote alzerà la voce per dire la conclusione ultima e recitare l'orazione domenicale. I Greci chiamano il Canone Liturgia. Con l'andar dei secoli il significato di questa parola si è estesa a tutto l'insieme di cui si compone l'Ufficio divino, ma in principio non s'intendeva altro che il Canone della Messa, il quale, secondo il significato della parola greca, è l'opera per eccellenza. Similmente, vediamo scritto nel Messale latino: Infra actionem, per significare ciò che si fa nell'Atto del Sacrificio, che è l'atto per eccellenza. Inoltre, la parola Canone è una parola greca, come abbiamo detto. Non v'è nulla di strano nell'uso di queste parole greche, se si considera l'estensione grandissima che aveva avuto la lingua greca nell'epoca in cui è nata la Chiesa, fino al punto che dei quattro Vangeli, tre certamente furono scritti in greco.

Prima della fine della grande preghiera, si compie sull'altare un rito molto solenne, che costituisce l'ultima confessione che fa la Chiesa dell'identità che esiste tra il Sacrificio della croce e quello della Messa. Il sacerdote scopre il calice che contiene il Sangue del Signore, e, dopo aver fatto la genuflessione, prende con la mano destra l'Ostia santa e con la sinistra il calice; poi fa con l'Ostia il segno di croce sul calice per tre volte, dicendo: Per ipsum, et cum ipso, et in ipso; quindi fa il segno di croce, sempre con l'Ostia, tra il calice e il suo petto, ed aggiunge: est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancii; mette quindi di nuovo l'Ostia al di sopra del calice ed, alzando un po' l'una e l'altro, dice: omnis honor et gloria; posa infine l'Ostia sul corporale, ricopre il calice e dice: Per omnia saecula saeculorum, e il popolo risponde: Amen.

Che cosa significano questi gesti del sacerdote? La santa Chiesa possiede il suo Sposo nello stato d'immolazione e di sacrificio, ma sempre vivente. Così vuoi far rilevar in Lui questa qualità di Dio vivente e l'esprime con la riunione del Corpo e del Sangue del Signore, ponendo l'Ostia al di sopra del calice che contiene il prezioso Sangue, per rendere gloria a Dio. Allora dice per bocca del sacerdote: per ipsum, per Lui è glorificato il Padre; et cum ipso, con Lui è glorificato, perché la gloria del Padre non è superiore a quella del Figlio, né da quella isolata (quanta grandezza in questo cum ipso!), et in ipso, in Lui è glorificato il Padre, poiché la gloria che il Figlio da al Padre è nel Figlio e non fuori di Lui, in ipso. Sicché, dunque, per Lui, con Lui (cioè condividendo insieme con Lui), e in Lui, si da a Dio Padre tutto l'onore e tutta la gloria.
Il sacerdote fa ancora il segno di croce per due volte, ma lo fa solamente tra il calice e il suo petto. Perché questa differenza? Le parole che pronuncia ce lo dicono: est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti. Poiché né il Padre né lo Spirito Santo sono stati immolati, non conviene che nominandoli si metta l'Ostia al di sopra del Sangue che appartiene unicamente al Figlio, essendo stato Egli l'unico a rivestirsi dell'umana natura e ad immolarsi per noi.

Ma, pronunziando queste ultime parole: omnis honor et gloria, il sacerdote riporta l'Ostia santa al di sopra del calice, volendo esprimere che ormai, nelle vene del Dio ch'egli offre, circola il Sangue divino con l'immortalità. Il sacerdote può dunque dire a Dio: omnis honor, et gloria, "quest'offerta è l'atto più glorioso che possa essere fatto in onor tuo, o Signore, perché possediamo Cristo risuscitato, ed è Lui medesimo che è immolato in tuo onore su quest'altare". No, Colui che offriamo non è una semplice creatura, ma per lui e con lui - per ipsum et cum ipso - si da a Dio ogni gloria ed onore. Tale gloria e tale onore vanno direttamente a Dio, il quale non può ricusare l'omaggio che gli tributa Colui che è immolato e che tuttavia è vivo. Il Sacrificio offerto in questo modo è il più grande che possa farsi per Iddio.
L'immolazione di Nostro Signore sul Calvario fu un delitto orrendo e abominevole; l'immolazione che s'effettua sull'altare è quanto di più glorioso possa esservi per Dio, poiché Colui che è offerto è vivo. È il Dio vivente che noi offriamo: è il Figlio vivente offerto al Dio vivente. Può esservi nulla di più grande? E che cosa v'è di più giusto dell'esprimer questo pensiero ponendo il Corpo del Signore al di sopra del calice che contiene il suo Sangue? Ecco perché il santo Sacrificio della Messa è l'atto più glorioso che si possa far per Iddio, poiché in questo momento sublime gli si tributa ogni onore e gloria: per ipsum, et cum ipso, et in ipso.

Questo rito solenne, di cui abbiamo trattato, ci mostra anche quanto Dio abbia amato il mondo. Pensiamo bene che il sacerdote ha tra le mani Colui per il quale non solamente si da a Dio ogni onore e gloria, ma Colui che condivide con Dio questa medesima gloria: per ipsum, et cum ipso! È il Verbo del Padre che si lascia prendere, che si lascia toccare, perché vuole che si dia a Dio ogni gloria ed onore: omnis honor et gloria; vuole che salga fino al trono di Dio un omaggio che possa essergli gradito. Che sono gli omaggi degli uomini in confronto a quelli che Nostro Signore rende al Padre suo?
Sì, il santo Sacrificio della Messa è veramente l'atto più glorioso che possiamo offrire a Dio. È ben vero che possiamo anche offrirgli delle preghiere o far atti di virtù, ma ciò non forza la sua attenzione, mentre nella Messa è obbligato da tutte le perfezioni in essa contenute a prestar attenzione all'omaggio che gli viene reso.
Ma questo rito così importante esiste sin dai primi secoli? Certamente è antichissimo e deve essere sempre esistito, perché si trova ovunque. Si comprende, infatti, che là santa Chiesa, offrendo il suo Sposo a Dio, non può sempre dire che è morto; essa l'ha immolato, è vero, ma Colui che ha così immolato è vivente e bisogna che lo confessi. Ora trovano esatto compimento i tre grandi misteri della Passione, della Risurrezione e dell'Ascensione.

Il nostro Cristo è veramente tutto quanto ci esprimono questi tre misteri, e la santa Chiesa ce lo ricorda. Prima che si fossero compiuti, non esistevano - per così dire - tante ricchezze. Nasce in Betlem, ma l'Incarnazione sola non doveva salvarci, secondo i disegni di Dio, quantunque sarebbe stata più che sufficiente a riscattarci, se Egli l'avesse voluto. Allora Cristo soffre la Passione, ma anche questo non è tutto. Gli manca la vittoria sulla morte: la Risurrezione. Anche questo non basta. Cristo deve aprire le porte del cielo, e per questo occorre la sua Ascensione. Bisogna che la nostra natura umana di cui s'è rivestito, nella quale ha sofferto e per la quale ha subito la morte, sia da Lui collocata in cielo, per mezzo della sua Ascensione gloriosa. Così, dunque, Colui che il sacerdote tiene nelle sue mani è realmente il Signore, che ha sofferto, è morto, è risuscitato ed è salito al cielo.

Ecco perché dobbiamo ringraziare costantemente Dio per essersi degnato di farci nascere dopo il compimento di tutti questi grandi misteri. In quanto a quelli che sono morti tra la Risurrezione e l'Ascensione, benché più felici di molti altri, non lo sono stati però quanto noi, perché i misteri di Cristo non erano allora completi.
Quelli che sono morti tra la morte di Nostro Signore e la sua Risurrezione furono meno felici ancora.
Quanto a coloro che sono morti prima della venuta di Gesù Cristo, non avevano altro che le speranze ed era loro necessario lasciare questa vita prima di vederle realizzate. Quanto più fortunati siamo noi rispetto a quelli che ci hanno preceduto! Noi diciamo: Unde et memores, Domine, nos servi tui, sed et plebs tua sanata, eju-sdem Christi Filli tui Domini nostri tam beatae Passionis, nec non et ab inferis Resurrectionis, sed et in caelos gloriosae Ascensionis. Quanta forza ci danno queste parole che ci ricordano la Passione, la Risurrezione e la gloriosa Ascensione di Gesù Cristo! Qual religioso fervore e quale amore non dobbiamo avere per una sola Messa, poiché è ciò che di più grande ha fatto Gesù Signore! È tutto ciò ch'Egli può fare; è ciò che farà sempre, perché il ministero di Gesù Cristo non cesserà mai; Egli è e sarà sempre il Sommo Sacerdote: Tu es sacerdos in aeternum.

Nostro Signore sarà sempre Sacerdote, poiché lo stesso Padre suo glielo ha detto: Juravit Dominus et non paenitebit eum: tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech, "il Signore l'ha giurato, e non se ne pentirà: tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedech" (Sai 109,4). Il Signore lo ha giurato, juravit, e - aggiunge -: secondo l'ordine di Melchisedech, perché Gesù Cristo deve esercitar il suo ministero per mezzo del pane e del vino che furono anche la materia del sacrificio di Melchisedech. È dunque Sacerdote per sempre - in aeternum - offrendosi sempre per noi ed essendo sempre vivo. E ciò, secondo quanto afferma san Paolo, al fine d'interceder per noi: Semper vivens ad interpellandum prò nobis (Eb 7,25), avendo conservato le piaghe della sua Passione per esser in relazione col Sacrificio ed offrirle per noi al Padre.

Così la santa Chiesa dice con piena confidenza in Dio: Jube haec perferri per manus sancii Angeli tui in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae, "Comanda, Signore, che le cose che offriamo qui, haec, siano trasportate per mano del tuo Angelo al tuo sublime altare, perché formino un tutt'uno con quell'altare del cielo, poiché sono degne di esso". E ciò perché sull'altare della terra come sull'altare del cielo, è sempre Gesù Cristo Colui che offre, essendo Sacerdote in eterno ed insieme Vittima. E, quando il mondo avrà cessato d'esistere, Nostro Signore continuerà a render a Dio i medesimi omaggi nella sua qualità di Sacerdote: sacerdos in aeternum, perché Dio deve essere sempre onorato. Orbene, la parte propiziatoria e la parte impetratoria del Sacrificio cesseranno d'esistere, mentre Gesù Cristo, sacerdos in aeternum, continuerà unicamente ad adorar e a ringraziare.

Non sarà inutile far notare brevemente che il santo Sacrificio della Messa è circondato dal sacrificio della lode, e questo riceve da quello la sua vita vera. La santa Chiesa ha fissato l'Ora Terza per offrire il santo Sacrificio. E poiché a quest'ora discese lo Spirito Santo sulla Chiesa, ci fa cominciare Terza dicendo: Nunc Sancte nobis Spiritus... Ella invoca il divino Spirito affinchè con la sua presenza la infervori e la prepari ad offrire il gran Sacrificio. Sin dal Mattutino, tutto l'Ufficio riceve già i raggi di luce che emanano da questo Sacrificio, e tale influenza durerà sin all'ora di Compieta, che pone fine al sacrificio della lode.

Un tempo, come abbiamo detto, l'elevazione avveniva alla fine del Canone, uso che ha conservato la Chiesa greca. Il sacerdote, dopo aver posto l'Ostia al di sopra del calice ed aver detto le parole: omnis honor et gloria, si volta verso i fedeli e mostra loro il Corpo e il Sangue del Signore, mentre il diacono fa ad essi udire le parole: Sancta sanctis, "le cose sante ai santi".
Finita la grande preghiera del Canone, il sacerdote rompe il silenzio che finora regnava nell'assemblea ed esclama: Per omnia ssecula saeculorum. E il popolo risponde: Amen, in segno di approvazione di ciò che è stato fatto e d'unione all'offerta, presentata a Dio.



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