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PARTE QUARTA: l'Orazione ossia, la Preghiera

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2010 16:42
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26/08/2010 16:39

PARTE QUARTA: L'ORAZIONE


QUINTA DOMANDA
Rimetti a noi i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori




402. In questa domanda
si manifesta la somma carità di Dio verso di noi


Sono molte le cose che indicano l'infinita potenza di Dio, unita a pari saggezza e bontà, tanto che, da qualunque parte si volga lo sguardo e il pensiero, si presentano subito prove indubitabili della sua immensa potenza e misericordia. Però nulla certamente serve meglio a porre in luce il sommo suo amore e la meravigliosa sua carità verso di noi, dell'ineffabile mistero della passione di Gesù Cristo. Da essa scaturisce quella fonte perenne, destinata a lavarci dalle sozzure dei peccati, nella quale imploriamo, come Dio stesso ci ispira e ci largisce, di essere immersi e purificati, quando gli chiediamo: Rimetti a noi i nostri debiti.

Questa domanda racchiude in sé la somma dei beni, di cui, per Gesù Cristo, fu colmato il genere umano, come insegna Isaia: Le iniquità della casa di Giacobbe saranno rimesse; e di questo frutto essa godrà: il suo peccato sarà cancellato (Is 27,9). Lo prova anche David, quando chiama beati quelli che hanno potuto ottenere il salutare frutto del perdono: Beati coloro di cui sono state perdonate le iniquità (Ps 31,1). Per tutto ciò, dunque, i Pastori prendano in esame ed espongano il valore di questa dottrina, tanto importante per farci conseguire la beatitudine celeste.

Entriamo ora a considerare un altro ordine di domande poiché fin qui abbiamo domandato a Dio non solo i beni eterni spirituali, ma anche quelli della vita terrena, che sono caduchi; ora invece preghiamo che allontani da noi i mali dell'anima e del corpo, di questa come dell'eterna vita.

403. Disposizioni necessarie


Siccome per ottenere ciò che domandiamo si richiede una retta maniera di domandare, ci sembra bene dire in quali disposizioni d'animo devono essere quelli, che vogliono chiederlo a Dio. I Parroci, perciò, insegneranno ai fedeli che chi voglia fare questa preghiera, deve innanzi tutto riconoscere il proprio peccato; quindi esserne turbato e addolorato; infine persuadersi che è volontà di Dio perdonare ai peccatori che si pentono e si accingono a ciò che abbiamo detto. Infatti dal duro ricordo e dal riconoscimento dei propri peccati non deve seguire quella disperazione di ottenere il perdono che tormento l'anima di Caino (Gn 4,3) e di Giuda (Mt 27,4), i quali stimarono Dio soltanto vendicatore inesorabile, e non mite e misericordioso com'è. In questa preghiera l'animo deve essere tale che, riconoscendo con dolore i nostri peccati, cerchiamo rifugio in Dio, come presso un padre, e non come presso un giudice, e da lui imploriamo che agisca verso di noi non secondo giustizia, ma secondo la sua misericordia.

Facilmente saremo portati a riconoscere i nostri peccati, se presteremo ascolto a quanto Dio medesimo dice e insegna nelle sacre Scritture. Si legge in David: Tutti hanno traviato, tutti sono diventati inetti: non v'è chi faccia il bene, nemmeno uno (Ps 13,3 e Ps 52,4); e Salomone: Non c'è sulla terra uomo giusto che faccia il bene e non pecchi (Si 7,21). A ciò si devono riferire queste altre parole: Chi può dire: Mondo è il mio cuore, e sono puro da peccato? (Pr 20,9). Egualmente scrisse san Giovanni, per distogliere gli uomini dall'orgoglio: Se diremo di non aver peccati, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi (1Jn 1,8). E Geremia: Tu hai detto: Sono senza peccato ed innocente: si allontani perciò l'ira tua da me. Ebbene, ecco, io contenderò in giudizio con te, perché hai detto: Non ho peccato (Jr 2,35).

Tutte queste parole, che già Cristo Signore aveva posto sulle loro labbra, egli stesso le conferma prescrivendoci la preghiera con la quale ordina di confessare i nostri peccati. L'autorità del concilio Milevitano proibisce di interpretarla diversamente: Se qualcuno dice che le parole dell'orazione Domenicale: Rimetti i nostri debiti, siano dette dai santi per umiltà e non per convinzione, sia scomunicato. Chi potrà, infatti, tollerare che uno, mentre prega, mentisca, e non davanti agli uomini, ma davanti a Dio, domandando con le labbra di essere perdonato, quando nel suo cuore egli dicesse di non avere commesso i peccati di cui chiede perdono? (Can. 8).

Ma, nella necessità di riconoscere i nostri peccati, non basta ricordarli con leggerezza; è necessario invece che il ricordo sia acerbo, punga il cuore, stimoli l'animo e produca il dolore. Perciò i Parroci svolgeranno ampiamente e con cura questo punto, affinché i fedeli non solo si ricordino dei loro misfatti e delle loro colpe, ma si ricordino di essi con dolore e rimorso, in modo che, sentendosene profondamente angustiati, ricorrano a Dio Padre, e chiedano a lui di strappare gli aculei del peccato che li dilaniano.

Né soltanto si studieranno i Parroci di far loro vedere la turpitudine dei peccati, ma anche l'indegnità e sordidezza di noi uomini che, mentre non siamo che putrida carne e bassezza, osiamo offendere la maestà incomprensibile, l'eccellenza indicibile di Dio, e ciò in modo incredibile, essendo da lui creati, redenti e colmati di innumerevoli e grandissimi benefici. E perché? Per andare, staccandoci da Dio padre nostro e sommo bene, a venderci al demonio in schiavitù miserabile, per la vergognosa mercede del peccato. Poiché è indescrivibile la crudeltà del dominio del diavolo negli animi di quelli che, sottrattisi al soave giogo di Dio e spezzato l'amabile legame della carità col quale il nostro spirito è tenuto stretto a Dio nostro padre, si sono dati al suo acerrimo nemico, chiamato nei Libri sacri: principe, o rettore di questo mondo (Jn 12,31 Jn 14,30 Jn 16,11), principe delle tenebre (Ep 6,12) e re di tutti i figli della superbia (Jb 41,25).

Ben si adattano queste parole di Isaia a coloro che sono sottoposti alla tirannia del demonio: O Signore nostro Dio, altri padroni ci hanno posseduti all'infuori di te (Is 26,13).

Se la rottura del patto della carità ci commuove poco, ci commuovano le calamità e i dolori nei quali incorriamo per il peccato. Esso viola la santità dell'anima, sposa di Cristo; profana il tempio del Signore, per cui dice l'Apostolo, contro quelli che lo fanno: Se qualcuno viola il tempio di Dio, Dio lo distruggerà (1Co 3,17). Innumerevoli sono i mali che il peccato fa' cadere sull'uomo, quasi peste universale che David cosi ha espresso: Non c'è sanità nella mia carne, davanti alla tua collera; non v'è pace per le mie ossa, in presenza dei miei peccati (Ps 37,4). Confessando che nessuna parte di sé era rimasta intatta dalla peste del peccato, riconosceva veramente l'entità di questa piaga, poiché il veleno del peccato era penetrato nelle ossa, cioè aveva infettato la ragione e la volontà, che pure sono le parti più ferme della nostra anima. E le sacre Scritture indicano quanto sia estesa questa peste, quando chiamano i peccatori zoppi, sordi, muti, ciechi, paralitici in tutte le membra.

Ma, oltre al dolore che sentiva per la scelleratezza dei suoi peccati, più ancora era oppresso David per l'ira di Dio che capiva rivolta contro di lui per il suo peccato. Poiché c'è guerra tra gli scellerati e Dio, incredibilmente ingiuriato dai loro delitti. Dice infatti l'Apostolo: L'ira e lo sdegno, la tribolazione e l'angoscia, saranno nell'anima di ciascun uomo che fa il male (Rm 2,8); perché anche se l'azione del peccato passa, non passa la macchia e il reato; l'ira di Dio sempre lo persegue come l'ombra segue il corpo.

Ma quando David fu ferito da questo aculeo, fu eccitato a chieder perdono dei delitti commessi. L'esempio del suo dolore, e lo spirito di questo insegnamento i Parroci li attingeranno dal suo cinquantesimo salmo, per esporli ai fedeli uditori, e istruirli, cosi, coll'esempio del Profeta, al sentimento del dolore, cioè alla vera penitenza e alla speranza del perdono.

Quanta utilità presenti questo insegnamento, per imparare a sentir rimorso dei nostri peccati, lo dichiara in Geremia Dio medesimo, quando, esortando alla penitenza Israele, lo ammoniva di capire tutta l'importanza dei mali, conseguenza del peccato: Vedi, diceva, quanto è dannoso e doloroso l'avere abbandonato il Signore tuo Dio, e non avere più il timore di me, dice il Signore degli eserciti (Jr 2,19). Cuore duro, di pietra, cuore di diamante, sono chiamati dai profeti Isaia (LXVI,12), Ezechiele (Ez 36,26), Zaccaria (Za 7,12) quelli che mancano del senso e del rimorso delle loro colpe; poiché essi, come la pietra, non sono tocchi da nessun dolore, e nessun senso nutrono della vita e della resipiscenza salutare.

Ma per far si che il popolo, atterrito dalla gravita dei suoi peccati, non disperi di impetrare perdono, i Parroci dovranno richiamarlo alla speranza, ricordando che Cristo Signore diede facoltà alla Chiesa di rimettere i peccati, come si dichiara nel rispettivo articolo del Simbolo. D'altra parte egli ci dimostra con questa preghiera quanto siano grandi la misericordia di Dio e la sua liberalità verso il genere umano; perché se Dio non fosse sempre pronto a condonare i peccati ai penitenti, non avrebbe mai prescritto questa formula di preghiera: Rimetti a noi i nostri debiti. Perciò dobbiamo tener sempre presente nell'animo che Colui il quale ci ha ordinato di invocare la sua paterna misericordia con questa preghiera, è dispostissimo anche ad accordarcela. Questa petizione, infatti, implica la seguente dottrina: cioè che Dio è disposto a perdonare volentieri quelli che veramente si pentono. E contro Dio, infatti, che noi pecchiamo, sottraendoci alla sua obbedienza, turbando, per quanto dipende da noi, l'ordine della sua sapienza, offendendolo a fatti e a parole.

Ma egli è anche Padre sommamente benefico, e potendoci condonare qualunque colpa, dichiara non solo di volerlo fare, ma anche spinge lui stesso gli uomini a chiedergli perdono, e insegna loro con quali parole lo debbano fare.

Perciò nessuno potrà dubitare che, col suo aiuto, sia in nostro potere di conciliarci la sua grazia. E poiché questa prova della volontà divina, propensa al perdono, solleva la nostra fede, alimenta la speranza, infiamma la carità, vale la pena di illustrare questo passo con alcune testimonianze divine ed esempi di uomini, ai quali quando si pentirono Dio concesse il perdono di delitti anche gravissimi. Ma poiché abbiamo svolto questo tema, quando l'argomento lo richiedeva, nel proemio a questa preghiera e nella parte del Simbolo che tratta della remissione dei peccati, i Parroci attingano di là tutte le ragioni e gli esempi idonei all'illustrazione di questo punto; altri ne attingeranno alla fonte della sacra Scrittura.

404. Sotto il nome di "debiti" s'intendono i peccati

Essi seguiranno anche qui la norma da noi raccomandata per le altre domande, sicché i fedeli capiscano che cosa voglia dire la parola "debiti", affinché non abbiano a chiedere, ingannati dall'ambiguo senso, cose diverse da ciò che devono.

Occorre intanto sapere che noi non chiediamo che ci venga rimesso il debito d'amore che dobbiamo professare a Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e la mente, il cui assolvimento è necessario alla salvezza. Sotto il nome di debito si comprendono l'obbedienza, il culto, la venerazione e qualsiasi altro dovere; però noi non domandiamo la remissione di questo dovere, ma solo di essere liberati dai nostri peccati. Cosi interpreto la parola san Luca (11,4), usando il termine peccati al posto di debiti. I quali peccati sono debiti perché col commetterli diventiamo rei davanti a Dio, e sottoposti al debito di una pena, che scontiamo soddisfacendo o soffrendo. Di questo genere di debito parlo Cristo Signore per bocca del Profeta: Ciò che non ho rubato devo restituire (Ps 58,5); dalle quali parole si desume che non solo siamo debitori, ma anche incapaci di pagare, non potendo in nessun modo il peccatore soddisfare da se stesso.

Perciò dobbiamo cercare rifugio nella misericordia divina; e siccome ad essa corrisponde una eguale giustizia, di cui Dio è rigido amministratore, dobbiamo fare uso della preghiera e dell'aiuto della passione del Signore nostro Gesù Cristo. Senza di questa nessuno mai ottenne il perdono dei peccati, mentre da essa è sempre scaturita, come da fonte, tutta l'efficacia e il valore della soddisfazione. Infatti il prezzo pagato da Cristo Signore sulla croce, e trasferito in noi in virtù dei sacramenti ricevuti realmente o col desiderio, è di tanto peso, da impetrare per noi e operare in noi ciò che chiediamo in questa preghiera, ossia la remissione dei peccati.

E qui non preghiamo soltanto per ottenere perdono dei lievi e facili errori, ma anche dei peccati più gravi e funesti. Però la nostra preghiera avrà peso sulla gravita dei nostri delitti soltanto attraverso il sacramento della Penitenza, ricevuto di fatto oppure col desiderio, come già abbiamo spiegato.

405. Sono chiamati "nostri" i debiti,
perché commessi volontariamente


Ma noi chiamiamo "nostri" i debiti per ben altra ragione che quella per la quale dicemmo nostro il pane. E nostro quel pane, perché dato a noi in dono da Dio; ma i peccati sono nostri, in quanto la loro colpa risiede in noi e sono fatti per volontà nostra; né essi avrebbero natura di peccato, se non fossero volontari. Noi dunque riconoscendo e confessando la colpa, imploriamo la necessaria clemenza di Dio. Né ci serviamo di scusa alcuna, e non ne attribuiamo la responsabilità ad altri, come fecero i progenitori, Adamo ed Eva (Gn 3,12); ma noi stessi ci chiameremo colpevoli, facendo nostra la preghiera del Profeta, se vogliamo essere saggi: Non piegare il mio cuore a pensieri cattivi, sicché non cerchi scuse ai miei peccati (Saliti. CXL,4).

406. Domandiamo che vengano rimessi "a noi",
perché dobbiamo essere solleciti della salute di tutti

Né diciamo rimetti a me, ma "a noi", perché la fraterna convivenza e carità tra tutti gli uomini esigono, da ciascuno di noi, sollecitudine della salute del prossimo, cosicché quando preghiamo per noi, preghiamo anche per gli altri. Quest'abitudine, tramandataci da Cristo Signore, e dalla Chiesa di Dio ricevuta e costantemente conservata, fu in ispecial modo osservata dagli Apostoli e fecero si che la diffondessero anche gli altri. Preclaro esempio di preghiera per la salute del prossimo, fatta con desiderio e zelo ardente, ci offre nell'antico e nel nuovo Testamento, l'esempio dei santi Mosè e Paolo; il primo pregava Dio con queste parole: Rimetti loro questo fallo; oppure, se non lo fai, cancella me dal tuo libro (Ex 32,31); l'altro diceva: Desidero di essere io stesso fatto anatema da Cristo per i miei fratelli (Rm 9,3).

407. La particella "come"
ha valore di similitudine e di condizione

"Come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Questa particella: come, si può intendere in due modi; infatti ha forza di similitudine, quando chiediamo a Dio che, allo stesso modo che per doniamo le ingiurie e le contumelie a coloro che ci hanno offesi, cosi egli condoni a noi i nostri peccati. Denota pure condizione; nel quale senso l'interpreta Cristo Signore in quel detto: Se perdonate agli uomini le loro mancanze, perdonerà a voi il Padre celeste i vostri peccati; ma se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre mancanze (Mt 6,14).

Tanto nell'uno che nell'altro significato risalta per noi la necessità di perdonare; se vogliamo che Dio ci conceda il perdono dei nostri peccati, è necessario che noi cominciamo col perdonare coloro dai quali ricevemmo offesa. Anzi Dio tanto esige da noi di dimenticare i torti e di sentire mutua carità, da rigettare e disprezzare i doni e i sacrifici di coloro che non si sono riconciliati col perdono.

Anche la legge di natura richiede che ci mostriamo, verso gli altri, quali desideriamo che essi siano con noi; e impudente oltre ogni dire sarebbe colui che domandasse a Dio la remissione dei suoi peccati, e conservasse poi l'animo suo ostile verso il prossimo. Perciò devono essere sempre pronti al perdono coloro che hanno subito un'offesa. A ciò li spinge fortemente questa preghiera, e l'ordine di Dio che troviamo in san Luca: Se il tuo fratello pecca verso di te, riprendilo; e se è pentito, perdonagli. Se avrà peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte al giorno ritorna a te dicendo: Me ne pento, perdonagli (Lc 17,3). E nel Vangelo di san Matteo si legge: Amate i vostri nemici (Mt 5,44). L'Apostolo ancora, e, prima di lui, Salomone, ha scritto: Se il tuo nemico ha fame, nutrilo; se ha sete, dagli da bere (Rm 12,20 Pr 25,21). Lo stesso si riscontra in san Marco evangelista: Quando state pregando, se avete qualche cosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro nei cieli vi perdoni anch'egli i vostri falli (Mc 11,25).

408. Motivi del perdono


Ma poiché nulla forse si compie con maggiore riluttanza, per difetto della nostra depravata natura, che il perdono delle ingiurie, i Parroci dovranno ricorrere a tutta la loro forza d'ingegno e d'animo, per cambiare e piegare l'animo dei fedeli a questa mitezza e a questo amore cosi necessari al cristiano. Indugino nel riferire i testi sacri, nei quali si può udire Dio che ordina il perdono dei nemici.

Proclamino ancora questa verità assoluta e di grande efficacia sull'animo dell'uomo: che essi sono figli di Dio, purché siano facili a perdonare le ingiurie, e amino di cuore i loro nemici. Nell'amare i nemici trasparisce la somiglianza nostra con Dio nostro Padre, il quale si riconcilio col genere umano, a lui cosi nemico e molesto, redimendolo dall'eterna morte con la morte del proprio Figlio. Serva anche di esortazione e di precetto l'ordine del Signore nostro Gesù Cristo, che noi non possiamo non osservare, senza gran disonore e danno: Pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,44).

Qui si richiede nel Parroco prudenza non comune, perché qualcuno, conoscendo la difficoltà e nello stesso tempo la necessità del precetto, non disperi della salute. Infatti vi sono di quelli che, comprendendo il dovere di lasciar passare le ingiurie, dimenticandole di proposito, e di amare quelli che li hanno offesi, desiderano adempiere a questo dovere, e con tutte le loro forze vi si adoperano; ma sentono infine di non avere la forza di dimenticare completamente le ingiurie patite, poiché rimane nel loro animo qualche resto di avversione. Perciò sono tormentati da grandi agitazioni di coscienza, nella paura di non conformarsi all'ordine dato da Dio, per non aver deposta qualsiasi inimicizia semplicemente e sinceramente. I Pastori, allora, spiegheranno gli impulsi contrari della carne e dello spirito, e come quella sia proclive alla vendetta, questo al perdono, e la lotta che dura perpetua tra di essi. Dimostreranno che non si deve affatto temere per la propria salute, a causa delle passioni della nostra natura corrotta che è in contrasto e in rivolta contro la ragione, purché lo spirito persista nel suo compito e nella volontà di perdonare le ingiurie e di amare il prossimo.

Se poi ci sono di quelli che non riescono ancora a indurre il loro animo ad amare i nemici dimenticandone le ingiurie ricevute, e perciò, temendo di non conformarsi alla condizione richiesta in questa petizione, non osano fare la preghiera domenicale, i Parroci addurranno queste due ragioni, per liberarli da simile dannoso errore. Ognuno dei fedeli fa queste preghiere a nome di tutta la Chiesa, nella quale bisogna pure che ci siano alcuni i quali hanno condonato i debiti di cui abbiamo parlato. C'è poi questo: con tale domanda chiediamo a Dio che ci conceda anche tutto ciò che è necessario a farci trovare favorevole ascolto presso a lui. Chiediamo infatti il perdono dei peccati, il dono della vera penitenza, il dolore interno, la forza di aborrire i peccati, e di poterli confessare al sacerdote in tutta sincerità e devozione.

Essendo necessario, pertanto, anche per noi perdonare a coloro che ci avranno causato del danno o del male, quando preghiamo Dio che ci perdoni, nello stesso tempo invochiamo da lui la forza di riconciliarci con quelli che odiamo. Perciò si devono distogliere dalla loro opinione quelli che sono turbati dall'inane e colpevole timore di irritare maggiormente Dio con questa preghiera; e invece esortarli a farla frequentemente, domandando a Dio padre che infonda loro la capacità di perdonare a quelli che li hanno offesi, e di amare i nemici.

409. Perché la domanda sia fruttuosa, si richiedono nel peccatore la contrizione dei peccati e il proposito di non più peccare

Perché questa domanda sia davvero fruttuosa, nel farla dobbiamo tener fisso il pensiero a questo: noi supplichiamo e chiediamo una grazia che non è accordata se non a colui che si pente. Pertanto dobbiamo ispirarci a quella carità e devozione che si conviene ai penitenti; e conviene loro appunto che, avendo i loro peccati quasi davanti agli occhi, li espiino con le lacrime. A questo pensiero si deve aggiungere la promessa di evitare le circostanze in cui prima ci era avvenuto di peccare, e che ci darebbero nuovo modo di offendere il Dio nostro padre. Questo pensiero aveva David, quando diceva:Il mio peccato mi sta sempre davanti (Ps 50,5); e altrove: Bagnerò ogni notte il mio letto, e irrigherò di lacrime il mio giaciglio (Ps 6,7).

Inoltre ognuno, nel pregare, abbia sempre presente l'ardentissimo zelo di quanti, con preghiere, hanno ottenuto da Dio il perdono dei loro peccati: l'esempio di quel pubblicano che, standosene lontano nel tempio per il dolore e la vergogna, e cogli occhi fissi a terra, non faceva che battersi il petto, dicendo: Dio, abbi misericordia di me peccatore (Lc 18,13); quello della donna peccatrice che, tenendosi dietro a Cristo Signore gli bagnava i piedi con le lacrime, e, asciugatili coi propri capelli, glieli baciava (Lc 7,38); e ancora l'esempio di Pietro principe degli Apostoli, che, uscito fuori dell'atrio, pianse amaramente (Mt 26,75).

Si tenga in mente che più gli uomini sono deboli e propensi alle malattie dell'animo, cioè ai peccati, tanto più hanno bisogno di molte e frequenti medicine; e medicine dell'anima sono la Penitenza e l'Eucaristia che il popolo fedele deve usare molto spesso.

Viene poi l'elemosina che, come dicono le sacre Scritture, è medicina adatta a sanare le ferite spirituali; perciò, quelli che desiderano fare questa preghiera con vera pietà, pensino a fare il bene ai poveri. L'angelo di Dio san Raffaele mostra in Tobia quanta forza essa abbia nel lavare la macchia dei peccati: L'elemosina libera dalla morte, purga dai peccati, e fa trovare misericordia e vita eterna (Job. 12,9). Lo attesta anche Daniele quando cosi consiglia il re Nabucodonosor: Riscatta i tuoi peccati con le elemosine, e le tue iniquità con atti di misericordia verso i poveri (Da 4,24).

Ma la migliore delle elargizioni, anzi il modo migliore di usare misericordia, sono dimenticare le offese, e la buona disposizione d'animo verso chi ti avrà colpito nel patrimonio, nella fama, nel corpo tuo o dei tuoi. Chiunque, insomma, desidera che Dio sia molto misericordioso verso di lui, regali a Dio le proprie inimicizie, perdoni ogni offesa, preghi con amore per i nemici, afferrando ogni occasione di ben meritare verso di essi.

Ma qui rimandiamo i Parroci al luogo dove trattammo dell'omicidio e sviluppammo questo argomento. Li esortiamo però a concludere su questa domanda facendo notare che non c'è cosa più ingiusta di colui che, essendo duro con gli altri uomini, al punto di non usare indulgenza per nessuno, chiede che Dio sia mite e benigno verso di lui.
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