Il quarto vangelo
San Giovanni non racconta l'istituzione della Eucaristia. Questo silenzio non crea nessuna difficoltà perché scopo dei vangeli non era quello di dire tutti i fatti e i detti di Gesù (cf. Giovanni 20, 30-31; 21,24-25). Giovanni, comunque, ci ha conservato il discorso di Gesù a Cafarnao, che è conosciuto come la “promessa dell'Eucaristia”. I discepoli dovettero certamente ricordarsi di quella promessa durante la celebrazione dell'Ultima Cena.
a) Nel discorso a Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù aveva detto:
“lo sono il pane vivo disceso dal cielo. Se qualcuno mangia di questo pane, vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Giovanni 6,51).
E' comprensibile l'immediata reazione dei Giudei che, scandalizzati, disputavano tra loro: “Come può dare in cibo la sua carne?” (Giovanni 6,52). Avevano capito, anche se in modo assai materiale, il realismo delle parole di Gesù. Il quale, rispondendo o piuttosto continuando il suo discorso, non ritratta né addolcisce le sue espressioni:
“In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell'Uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Giovanni 6,53-55).
b) A scanso, comunque, di equivoci e per far capire meglio il realismo della sua promessa Gesù aggiunge:
“E' lo Spirito che vivifica; la carne non giova a nulla” (Giovanni 6,i63). Come per dire: “I sensi e il ragionamento umano non possono far capire ciò che io dico. Solo lo Spirito può dare l'esatta intelligenza delle mie parole” (cf. Giovanni 14,26). Gesù fa appello al coraggio della fede, che è frutto gioioso dello Spirito. A nulla valgono i sofisticati ed orgogliosi ragionamenti dell'uomo carnale.
Gesù dunque non ritratta la sua dichiarazione su una reale equivalenza tra la sua carne e il suo sangue e il cibo e bevanda che egli avrebbe dato ai suoi discepoli affinché avessero la vita. Tuttavia non approva l'interpretazione carnale, che i Giudei di Cafarnao (i cafarnaiti) avevano dato alle sue parole. Non sarà la sua carne grondante sangue che egli avrebbe dato in cibo e bevanda. Solo l'uomo carnale, senza lo Spirito di Dio, poteva immaginare tali cose.
c) Ma l'esigenza di Gesù di accettare la realtà della sua carne come cibo e del suo sangue come bevanda non trovò i suoi uditori disposti a fare la scelta coraggiosa. “Molti si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Giovanni 6,66). I Dodici, comunque, e tanti altri con loro e dopo di loro hanno protestato la loro fede con la dichiarazione chiara e coraggiosa: “Signore, a chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Giovanni 6,68).
Solo la fede accetta la reale presenza del Corpo e Sangue di Cristo nel pane e vino consacrati. Credere vuol dire aderire con coraggio a ciò che dice una persona degna appunto della nostra fede, anche se i sensi non percepiscono e gli occhi non vedono. E nessuno merita tanto la nostra fede quanto l' Emmanuele, ossia Dio presente nell'uomo Gesù, che è la Verità, il Testimone fedele e verace, la Parola di Dio (cf. Giovanni 14,6, 1,1; Apocalisse 3,14).
La Santa Messa
Nel raccontare come si svolsero i fatti nell'ultima Cena del Signore sia Paolo che Luca ci hanno conservato alcune parole di Gesù molto significative:
“Fate questo in memoria di me” (Luca 22,19). “Fate questo in memoria di me Tutte le volte che lo bevete, fate questo in memoria di me” (1 Corinzi 11,24-25).
E' chiaro che Gesù si riferiva al futuro. Egli dava ai suoi discepoli il comando di ripetere anche durante la sua assenza, ciò che egli aveva fatto in quella memorabile Cena. E col comando conferiva anche il potere di compiere l'opera che egli aveva compiuto, vale a dire di perpetuare la sua presenza in mezzo ai suoi mediante il pane e il vino consacrati, e con la presenza anche il suo sacrificio.
Il potere che Gesù conferiva ai discepoli comportava dunque anche un carattere sacerdotale. Coloro ai quali era dato il comando di ripetere quella Santa Cena - possiamo dire quel rito - venivano costituiti anche sacerdoti. Non perché Cristo abbia dei successori, come il sacerdozio levitico presso l'antico Israele (cf. Ebrei 8,24; 7,11). Egli, Cristo, resta per sempre. Risorto da morte, rimane sempre vivo e possiede un sacerdozio che non tramonta (cf. Ebrei 7,24). Ma ha trovato il modo di esercitare il suo eterno sacerdozio mediante coloro che Paolo qualifica come “collaboratori di Dio” (1 Corinzi 3,9; 2 Corinzi 6,1).
I fedeli discepoli di Gesù capirono assai bene la volontà del loro Maestro e, a cominciare dai primissimi tempi dopo l'ascensione, si riunivano in assemblee liturgiche, ossia di servizio divino e di preghiera, per annunciare la morte del Signore mediante la celebrazione della Cena e comunicare col suo Corpo e col suo Sangue.
La testimonianza di san Paolo è chiara ed inequivocabile. Ai fedeli di Corinto egli ricordava con parole severe di celebrare convenientemente, ossia col massimo rispetto, la Cena del Signore: “Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più mangiare la Cena del Signore” (1 Corinzi 11,20).
Dal modo come l'apostolo si esprime è fuor di dubbio che nelle riunioni dei cristiani il punto centrale era la celebrazione della Cena del Signore. Questo avveniva sia con la parola, ossia ricordando quanto Gesù aveva fatto, sia col rito, ossia ripetendo la Cena e comunicando al pane-Corpo e al vino-Sangue di Cristo. Ripetiamo: le riunioni dei primi cristiani avevano come punto culminante la celebrazione della Santa Cena.
L'esempio di Paolo (cf. Atti 20, 7-11)
Lo stesso Paolo osservava il comando di Gesù e celebrava la Cena del Signore, ossia la Santa Messa, durante i suoi viaggi apostolici. Un caso tipico è quello raccontato in Atti 20,7-11, anche per le circostanze straordinarie che l'accompagnarono.
“Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane e Paolo conversava con loro; poiché doveva partire il giorno dopo, prolungò la conversazione fino a mezzanotte. C'era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore dove eravamo riuniti; un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo allora scese giù, si gettò su di lui, lo abbracciò e disse. “Non vi turbate; è ancora in vita!”. Poi risalì, spezzò il pane e ne mangiò, e dopo aver parlato ancora fino all'alba, partì” (Atti 20,7-11).
Osservazioni:
a) Qui si tratta indubbiamente della Cena del Signore, ossia di una celebrazione eucaristica, accompagnata forse o inserita in una refezione ordinaria come probabilmente usavano fare i primi cristiani a Gerusalemme (cf. Atti 2,46). In effetti, l'espressione “spezzare il pane” (greco klasai arton) era divenuta per i cristiani la formula per indicare la Santa Cena. Così si esprimono i sinottici nel racconto della istituzione (cf. Matteo 26,26; Marco 14,22; Luca 22, 19). In questo modo si esprime san Paolo in 1 Corinzi 10,16 dove parla certamente della Cena del Signore: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di Cristo?” (Vedere anche Luca 24,30).
b) La struttura della celebrazione corrisponde sostanzialmente a quella della Santa Messa, che perpetua nel tempo il sacro rito in conformità al comando del Signore (cf. 1 Corinzi 11,26). Vi era la liturgia della Parola indicata chiaramente dalla lunga conversazione di Paolo, che senza dubbio parlava del Signore e delle proprie esperienze missionarie, cose tutte che contribuiranno alla formazione del Nuovo Testamento. E vi era la liturgia eucaristica, i cui momenti essenziali sono indicati dallo spezzare il pane e dal mangiarne, ossia fare la Santa Comunione.
c) Possiamo anche precisare il tempo dell'anno e il giorno della settimana, in cui ebbe luogo quella celebrazione. Non si era nei giorni della Pasqua perché poco prima, al verso 6 dello stesso capitolo, lo storico Luca nota accuratamente che Paolo e i suoi compagni (tra cui lo stesso Luca) erano partiti da Filippi dopo i giorni degli Azzimi, ossia dopo la Pasqua, e raggiunsero Troade, dove avvennero i fatti che stiamo narrando, cinque giorni dopo. A Troade si trattennero una settimana. La Pasqua dunque era passata da parecchi giorni.
In quanto al giorno della settimana ci è detto esplicitamente che quel rito di “spezzare il pane” avvenne “nel primo dei sabati”, ossia il primo giorno dopo il sabato, che è il primo giorno della settimana ebraica. Quel giorno, per i cristiani, era divenuto “giorno di assemblea” (cf. 1 Corinzi 16,2), in ricordo della risurrezione del Signore (cf. Matteo 28,1). Fin dai tempi antichissimi veniva chiamato “il giorno del Signore”, dies dominicus, ossia Domenica (Cf. infra, pp. 59-63).
Paolo dunque celebrò a Troade la Santa Messa la domenica dopo il suo arrivo, molti giorni dopo la Pasqua.
d) Dalla stessa testimonianza di Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi possiamo ricavare un'altro importante particolare, vale a dire che la Cena del Signore non era celebrata una sola volta all'anno, ma molte volte. Scrive l'apostolo:
“Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è affatto un consumare la cena del Signore!” (1 Corinzi 11,20, Garofalo).
L'espressione greca, che corrisponde al quando, è “ogni volta che vi radunate”. E' chiaro che i primi cristiani non si radunavano “una sola volta” all'anno, (cf. Atti 2,44-47), ma più volte anche alla settimana. Dal modo dunque come si esprime l'Apostolo è fuor di dubbio che la celebrazione eucaristica non avveniva una sola volta all'anno, ma ogni volta che i veri discepoli di Cristo si riunivano in assemblea piccola o grande.
Alcune testimonianze più antiche
1 - Nel tempo che seguì la morte degli Apostoli, e poi sempre, i veri cristiani hanno continuato a celebrare la Cena del Signore, così come aveva comandato Gesù e come avevano fedelmente fatto i suoi immediati discepoli. Tra le testimonianze più antiche va ricordata quella della Didachè, detta anche Dottrina degli Apostoli, la cui composizione risale alla fine del primo secolo Era Cristiana ed è perciò quasi contemporanea del quarto vangelo e della Apocalisse:
“Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete le grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si riunisca a voi prima che siano riconciliati, affinché non sia profanato il vostro sacrificio. Così infatti ha detto il Signore: " In ogni luogo e in ogni tempo, mi sia offerto un sacrificio mondo, poiché io sono un gran re, dice il Signore, e il nome mio è ammirevole tra le genti”,
2. - Anche Ignazio, vescovo di Antiochia, morto martire a Roma nel 107,d.C., testimoniava che “l'Eucaristia è la carne del Salvatore nostro Gesù Cristo, quella carne che sofferse per i nostri peccati e che il Padre, nella sua bontà, risuscitò”. Per Ignazio il pane dell'Eucaristia è “farmaco d'immortalità, antidoto per non morire ma per vivere in Gesù Cristo sempre”. Vedendo approssimarsi il suo martirio scriveva: “Non mi compiaccio di un nutrimento di corruzione né dei piaceri di questa vita. Voglio pane di Dio, che è carne di Gesù Cristo, del seme di David; e come bevanda voglio il suo sangue, che è amore incorruttibile”.
3,. - Riportiamo ancora la testimonianza di Giustino, che come Ignazio finì la sua vita col martirio verso la metà del secondo secolo:
“Questo alimento noi lo chiamiamo Eucaristia Noi non lo prendiamo come un pane comune e una comune bevanda; ma come Gesù Cristo Salvator nostro, incarnatosi in virtù del Verbo di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, cosi il nutrimento, consacrato con la preghiera di ringraziamento formata dalle parole di Cristo e di cui si nutrono per assimilazione il sangue e le carni nostre, è, secondo la nostra dottrina, carne e sangue di Cristo incarnato. Gli Apostoli infatti, nelle loro Memorie dette Evangeli, tramandarono che Gesù Cristo lasciò loro questo comando: preso un pane e rese grazie Egli disse loro: Fate ciò in memoria di me; questo è il mio corpo; e preso similmente il calice e rese grazie, disse: Questo è il mio sangue; e a loro soli li offerse”
Fedeli amministratori
“Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori, è che ognuno risulti fedele” (1 Corinzi 4,1-2).
Queste parole dell'Apostolo possono essere fatte proprie dalla Chiesa Cattolica anche a riguardo dell'amministrazione della Santa Cena, che è uno dei più grandi misteri di Dio. Ha seguito e segue l'insegnamento e la prassi del divino Maestro e come gli Apostoli e i cristiani dei primi tempi dei cristianesimo crede ed insegna il carattere sacrificale della Santa Cena e la presenza reale del Signore nel pane e nel vino consacrati, pur nello sforzo legittimo di penetrare mediante lo Spirito la profonda realtà del mistero.
Riportiamo la professione di fede di Paolo VI: “Noi crediamo che la Messa, celebrata dal sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell'ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell'ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue, che da li a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (... ). Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione.
Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica, deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù .( ... ).
L'unica ed invisibile esistenza del Signore glorioso nel cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa”.
Osservazioni
I. - In questa professione di fede la prima verità è che “la Messa (...) è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari”. Qual è il senso di queste parole?
a) Non bisogna immaginare, anzitutto, che la Santa Messa sia un nuovo sacrificio di Cristo, il quale “si è offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti” (Ebrei 9,28). Ma è anche vero che “egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta (... ), è sempre vivo per intercedere” a nostro favore (Ebrei 7,24-25; cf. Romani 8,34).
Questo vuol dire che Gesù il Cristo interviene continuamente nella storia facendo dono di se stesso al Padre. Questa sua offerta, questo suo intervento salvifico, si esprime soprattutto, in modo ,diretto ed esplicito, nel memoriale da lui istituito, nella celebrazione cioè della Santa Messa. La quale perciò è una nuova presenza, un nuovo aspetto dell'unico sacrificio, quello cioè della Croce. Nella Santa Messa Cristo è la vittima, Cristo l'offerente, perché egli stesso ha trovato il modo di immolarsi mediante segni (il pane e il vino) e col ministero di coloro ai quali egli disse: “Fate questo in memoria di me” (Luca 22,19: 1 Corinzi 11,24). Le Messe, anche se sono molte, ricordano, rinnovandolo in modo efficace cioè salvifico, l'unico sacrificio di Cristo, il suo impegno a salvarci.
b) Non è forse vero che gli uomini usano commemorare, ossia rendere in qualche modo presente, un fatto o evento storico di grande importanza? Gli Ebrei celebravano la Pasqua per ricordare, qua si per rinnovare, il grande evento della liberazione dal faraone (cf. Esodo, cap. 12; Deuteronomio, cap. 16). Era un ricordo che rendeva presente il grande evento con la sua carica religiosa e salvifìca. In modo analogo la Santa Messa non fa dimenticare il sacrificio della Croce; al contrario lo rende presente d'una attualità efficace per la salvezza di tutti gli uomini.
2. - “Noi crediamo che la misteriosa presenza del Signore (...) è una presenza vera, reale, sostanziale”. E' il linguaggio abituare della Chiesa Cattolica per precisare il modo, in cui essa crede presente la Persona del Signore nel pane e nel vino consacrati, escludendo errori ed equivoci.
a) Vera esclude una presenza meramente simbolica. Sarebbe troppo poco, anzi errato, dire che il pane e il vino sono simboli del Corpo e Sangue di Cristo. Facciamo un esempio. La freccia che un gruppo di scouts segna all'ingresso della foresta serve a indicare la loro presenza nella foresta. Ma gli scouts o il loro campo non sono nella freccia. Questo è solo un simbolo, un indice, della loro presenza.
Non così il pane e il vino consacrati. Essi non indicano che Cristo è presente altrove. Presenza vera vuol dire che Cristo è là, nel pane e nel vino consacrati: non bisogna cercare altrove per trovarlo.
b) Reale esclude pure una presenza meramente simbolica o emblematica e allo stesso tempo mette in risalto che nel pane e nel vino consacrati vi è la Persona di Cristo che rinnova continuamente la sua offerta al Padre e si dona come reale nutri- mento al suoi discepoli per la preservazione e la crescita della loro vita soprannaturale. “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Giovanni 6,55).
c) Sostanziale infine vuol dire che il Signore Gesù non solo agisce mediante il pane e il vino consacrati per la salvezza dell'uomo, standosene lontano. No! Egli agisce di presenza. L'Eucaristia non è solo un canale della virtù santificatrice del Salvatore del mondo, ma è la stessa fonte della salvezza. Nell'Eucaristia Cristo dona se stesso.
Noi possiamo dire che i tre termini vera, reale e sostanziale hanno un identico significato di fondo e si rafforzano reciprocamente in una perpetua affermazione che Cristo è presente veramente, veramente, veramente nel pane e nel vino consacrati.
La transustanziazione
Per indicare questo modo di presenza del Signore, che non è meramente simbolico o emblematico o virtuale, la Chiesa Cattolica ha adottato la parola transustanziazione. Con questo termine si vuole indicare un mutamento sostanziale del pane e del vino, che vengono “transustanziati” nel corpo e sangue di Cristo morto e risorto.
Nell'Eucaristia non vi è nessuno spostamento locale del Corpo glorioso di Cristo assiso alla destra del Padre dopo l'ascensione. Restando quello che, è, il Signore glorioso si rende presente al posto di un'altra cosa, ossia del pane e del vino della loro sostanza - che solo muta. Certo rimane il mistero. Si tratta solo d'uno sforzo della mente umana, che trova il modo migliore per esprimere ciò che dice la Parola di Dio, ciò che dice la Bibbia, senza tradirla o minimizzarla o vanificarla. Per chi capisce, il mistero è una dimensione inseparabile della fede, della vera fede, che è accettazione di realtà invisibili sulla base della Rivelazione divina. Senza il mistero, la religione diventa un orgoglioso scientismo. Dicono i geovisti: Ma la parola “transustanziazione” non c'è nella Bibbia.
Si risponde :
a) Non c'è la parola, ma c'è certamente la cosa, la realtà soprannaturale che tale parola esprime con piena fedeltà alla Bibbia. In questo caso, la parola transustanziazione vuol esprimere l'autentico significato delle formule eucaristiche usate dal Signore: “,Questo è il i mio corpo, questo è il mio sangue”.
b) I geovisti usano tante parole che non sono nella Bibbia per diffondere i loro errori. Per esempio, dicono che il pane e il vino benedetti sono emblemi. Nella Bibbia non vi è la parola emblema. Come mai i geovisti non si fanno scrupolo di usarla? (Leggere Matteo 7,3-5).
PARTE SECONDA
L'ERRORE
Presenza reale
1. - L'errore:
“Il pane rappresenta il corpo carnale di Gesù. Il calice rappresenta il versato sangue di Gesù. Pane e vino benedetti sono emblemi del corpo, e sangue di Cristo”.
La verità:
Il verbo è (greco estìn) usato dai tre evangelisti ha un significato reale, non simbolico. Significa essere, non rappresentare. Ricordiamo la giustificazione biblica di questa spiegazione.
a) San Paolo rimprovera i cristiani di Corinto di essere colpevoli verso il Corpo e il Sangue del Signore. Questo rimprovero seguito dalla punizione divina non avrebbe senso, se quel pane e quel vino dopo la consacrazione continuassero ad essere ancora sostanzialmente pane e vino comuni con un rivestimento esteriore di simbolo (cf 1 Corinzi 11, 27-29).
b) Nella stessa lettera ai Corinzi (1 Cor. 10,16) l'apostolo afferma che il calice è una comunione col Sangue di Cristo e il pane consacrato è una comunione col suo Corpo. Comunione vuol dire unione con qualcuno o con qualcosa realmente presente. Se nel pane e nel vino della Santa Cena Cristo non fosse realmente presente, Paolo non avrebbe potuto parlare di comunione col suo Corpo e col suo Sangue.
c) Nel discorso della promessa (cf. Giovanni 6, 48-66, supra, pp. 23-24) Gesù dichiarò che avrebbe dato in cibo la sua carne e in bevanda il suo sangue. I Giudei diedero alle parole di Gesù un significato troppo reale, cioè carnale. Gesù corresse la loro interpretazione carnale, ma non negò che bisognava intendere la sua dichiarazione in senso realistico, non emblematico.
2. - L'errore:
Nella Bibbia leggiamo spesso frasi come queste.- “lo sono la via” (Giovanni 14,6); “lo sono la porta” (Giovanni 10,7); “lo sono la vite” (Giovanni 15,1); “lo sono la luce del mondo” (Giovanni 8,12). Così pure nel Vangelo è detto: “Il seme è la parola di Dio” (Luca 8,1 1). In tutti questi casi e in tanti altri simili il verbo è (greco estìn) equivale a significa, ha cioè un significato emblematico. La stessa cosa deve dirsi delle formule eucaristiche.
La verità:
a) Negli esempi citati e in altri simili, Gesù non ha detto: Questa via o questa porta o questa vite ecc. sono io. Non si è riferito cioè a una via o porta o vite ecc. determinata, specifica, limitata, escludendo le altre. Egli ha usato un linguaggio generico e ha detto: la via, la porta, la vite ecc. Questo dice chiaramente che egli voleva indicare la via (= qualunque via) ecc. come simbolo o emblema della sua persona. Il verbo è (estìn) equivale a significa.
Se Gesù avesse detto: “Questa via o questa vite ecc. sono io”, indicando una via o vite ben determinata a esclusione di tutte le altre, si potrebbe giustamente pensare a una sua presenza di diversa natura in una via o vite specifica, particolare, ben determinata. Il verbo è (estìn) conserverebbe il suo significato fondamentale, reale, e non quello simbolico.
b) Questo appunto è il caso delle formule eucaristiche. Gesù ha detto: Questo, cioè il pane che ho nelle mani, a esclusione di altro pane, è il mio Corpo. E così del vino. Questo modo di esprimersi non può indicare altro che tra lui e quel pane (e vino) vi deve essere un rapporto unico, reale, sostanzialmente diverso da ogni altro pane e vino.
3. - L'errore:
Nella frase biblica: “Quella Roccia era Cristo” (1 Corinzi 10,4) il verbo era ha un significato simbolico ed equivale a “significa”. Lo stesso deve dirsi del verbo è delle formule eucaristiche.
La verità:
a) Nella Bibbia dell'Antico Testamento sono gli scrittori sacri a usare l'immagine o simbolo della roccia - di qualunque roccia - per indicare che Jahve è un sicuro fondamento e sostegno o luogo di rifugio per il suo popolo. Jahve mai ha detto: “Questa roccia sono io”. Quando perciò gli scrittori sacri dicono: “Jahve è roccia” (cf. Deuteronomio 32,4; 2 Samuele 22,3; 23,3 ecc.) usano un linguaggio simbolico. il verbo è equivale a “significa”.
b) In 1 Corinzi 10,4 san Paolo applica l'immagine della Roccia a Cristo. Le parole “quella roccia era Cristo” è lui che le dice, non Dio, non Cristo. E Paolo non aveva né il potere né l'ordine divino di cambiare una roccia nella Persona di Cristo.
Il verbo era della frase paolina, in questo contesto, non può non avere che un significato simbolico, come lo aveva negli scrittori dell'Antico Testamento, da cui Paolo prende il suo modo di esprimersi.
4. - L'errore:
Se il pane e il vino consacrati diventano carne e sangue di Cristo, Gesù faceva anche in modo che i suoi fedeli apostoli si rendessero cannibali mangiando letterale carne umana e bevendo letterale sangue umano, questo in violazione della legge che Dio aveva dato ai Giudei contro il bere o mangiar sangue. (Levitico 17:10.11).
La verità:
a) “Non c'è niente di nuovo sotto il sole” (,Qoèlet 1,9). I testimoni di Geova, accusando i veri cristiani di cannibalismo, ripetono la stessa grossolana calunnia dei pagani contro i cristiani dei primi secoli. La mentalità pagana, carnale e grossolana, non poteva elevarsi alla sublimità dei riti cristiani. Essi perciò, con chiara allusione alla Cena del Signore celebrata dai cristiani, fantasticavano calunniosamente di cannibalismo, di sacrifici umani ecc. I testimoni di Geova vanno collocati tra le file degli antichi pagani ignoranti e denigratori.
b) L'errore dei geovisti ripete pure l'errore dei Giudei di Cafarnao, a cui fu lo stesso Gesù a dare la risposta appropriata (cf. pp. 23-24). Egli li ammonì di non dare alle sue parole un significato letterale e carnale; ma non ritrattò ciò che aveva affermato, vale adire che la sua Carne è vero cibo e il suo Sangue vera bevanda (cf. Giovanni 6,55).
Il Signore non può ingannare anche se i sensi non aiutano a capire. Solo il coraggio della fede accetta ciò che dice il Signore. Simon Pietro e con lui moltissimi altri hanno protestato e protestano la loro fede nella Parola del Figlio di Dio (cf. Giovanni 6,68).