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Caterina63
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06/08/2012
16:51
I VANGELI
§ 105. La parola “evangelo” significò originariamente la ricompensa data a un messaggero che rechi una buona novella, o anche la buona novella in se stessa; il cristianesimo, fin dai suoi primi tempi, impiegò questa parola per designare la piu' importante e preziosa “buona novella”, quella annunziata da Gesù all'inizio del suo ministero, allorché venne Gesu' nella Galilea annunziando la “buona novella” d'iddio e dicendo: Si è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno d'iddio; pentitevi e credete nella “buona novella” (Marco, 1, 14-15). Quindi, la “buona novella” annunziata in principio da Gesù fu essenzialmente questa: Si e' avvicinato il regno di Dio. Ma a questo primo annunzio segui uno sviluppo, il quale tradusse in atto il contenuto della “buona novella” mediante gli insegnamenti, la vita e la morte redentrice di Gesù. Quindi, a tutto questo complesso di fatti che costituivano la salvezza apprestata da Gesù al genere umano fu in seguito applicata la designazione di “buona novella”, in quanto era annunzio della salvezza già attuata e compiuta. In questo senso S. Paolo si presenta come ministro... della “buona novella” (Colossesi, 1, 23; ecc.), in corrispondenza all'espressione usata dal suo discepolo Luca, che parla di inservienti della parola (Luca, 1, 2); egualmente in questo senso fu scritto in principio ad uno dei vangeli canonici: inizio della “buona novella”di Gesu' Cristo (Marco, 1, 1).
§ 106. Quest'ultimo esempio già prelude ad un'applicazione ulteriore che ricevette più tardi la parola. Per alcuni anni dopo la morte di Gesù la diffusione della “buona novella” avvenne in maniera esclusivamente orale; il quale metodo era quello stesso seguito da Gesù, che aveva soltanto parlato senza lasciare alcun scritto, ed era anche conforme a quello dei dottori giudaici contemporanei, le cui sentenze furono tramandate oralmente ancora per molto tempo fino a quando furono messe in iscritto neI Talmud (§ 87). Era il metodo chiamato dai cristiani “catechesi”, ossia “risonanza” perché consisteva nel “far risonare” (greco katecheo) la voce alla presenza dei discepoli; di guisa che il discepolo, che avesse compiuta la sua istruzione, era il “risonato”, ossia il “catechizzato” (Galati, 6, 6; Luca, 1 4; Atti, 18, 25). Senonche la rapida e vasta diffusione della “buona novella” non poteva permettere, praticamente, che questa restasse affidata per lungo tempo soltanto alla viva voce. Lo sprigionarsi della “buona novella” dalla Palestina e dal mondo giudaico; il suo penetrare in regioni d'altri linguaggi, come nella Siria, nell'Asia Minore e fino in Italia e a Roma; il suo irrompere nelle accademie e negli altri cenacoli del mondo grecoromano; e infine l'effettuarsi di questa avanzata trionfale nel giro di pochi anni, richiesero entro breve tempo che la viva voce fosse corroborata dallo scritto per raggiungere più facilmente e più efficacemente nuove mete. Sappiamo infatti che, già lungo il sesto decennio del secolo I, circolavano scritti contenenti la “buona novella”, e che tali scritti erano molti (Luca, 1, 1-4). Questo nuovo sussidio, fornito al diffondersi del messaggio cristiano, fu come una seconda strada aperta parallelamente alla prima: da allora la “buona novella” s'avanzò su ambedue le strade, la catechesi risonante e la catechesi scritta. Ciò appunto spiega l'ulteriore applicazione che ricevette la parola. Da questo tempo “buona novella” fu, non soltanto l'annunzio della salvezza umana, ma anche lo scritto che conteneva quell'annunzio: il contenente fu designato col nome del contenuto, cioè fu chiamato “vangelo”. Ad ogni modo, anche se la “buona novella” orale aveva perduto la sua sonorità materiale diventando vangelo scritto, l'una e l'altro rimanevano in sostanza una catechesi: non altramente le orationes di Cicerone, essenzialmente orali, rimasero orationes anche quando circolarono in iscritto.
§ 107. E’ però di somma importanza rilevare che la “buona novella” scritta non pretese mai né di soppiantare né di sostituire adeguatamente la “buona novella” orale; e ciò, oltreché per altre ragioni morali, anche perché la “buona novella” orale era molto ricca e conteneva assai più elementi di quella fissata in iscritto. Abbiamo su questo proposito una preziosa testimonianza di Papia di Jerapoli, il quale, scrivendo verso l'anno 120, afferma di aver ricercato ansiosamente ciò che avevano insegnato di viva voce gli Apostoli e gli altri discepoli immediati di Gesù, ch'egli nomina individualmente, apportando infine questa ragione: Giudicavo infatti che le cose contenute nei libri non mi avrebbero giovato tanto, quanto le cose (comunicate) da una voce viva e permanente (in Eusebio, Hist. eccl., III, 39, 4). E parlando di libri e di voce allude indubbiamente alle fonti della vita e della dottrina di Gesù, perché poco dopo tratta espressamente dei vangeli di Marco e di Matteo. Presso gli scrittori cristiani del secolo II l'uso del termine « vangelo » è ancora promiscuo. Talvolta conserva il senso più antico, e perciò designa la « buona novella » in sé, ossia la salvezza umana operata da Gesù, come si ritrova ancora presso Ireneo (Adv. har., iv, 37, 4); ma già lo stesso Ireneo (ivi, III, lì, 8; ecc.); e anche prima di lui Giustino (Apol., I, 66), impiegano il termine per designare determinati scritti, cioè i nostri vangeli. Anche l'eretico Marcione, verso il 140, prefisse il titolo di « vangelo » al suo scritto derivato dal terzo dei vangeli canonici ed accomodato conforme alle dottrine di lui (Tertulliano, Adv. Marcion., iv, 2).
§ 108. Qual era il primo e principale argomento della catechesi, orale o scritta che fosse? Su ciò non può esservi dubbio. Se la fede cristiana aveva per suo fondamento la persona di Gesù, il primo passo sulla strada di questa fede doveva necessariamente essere la conoscenza dei fatti di Gesù; ci viene infatti attestato esplicitamente che si cominciava con l'istruirsi o con l'istruire sulle cose riguardo a Gesìi (Atti, 18, 25; cfr. 28, 31) come pure ci vengono occasionalmente comunicati brevi abbozzi di catechesi che comprendono appunto i fatti di Gesù (Atti, 1, 22; 2, 22 segg.; 10, 37 segg.). E in realtà un cristiano non sarebbe stato cristiano se non avesse saputo che cosa aveva fatto il Cristo, ossia Gesù, quali dottrine aveva insegnate, quali stabili riti aveva istituiti, quali prove avevano dimostrato l'autorità della sua missione, insomma se non possedeva una notizia almeno sommaria della biografia di lui: senza questa notizia la « buona novella » non poteva diffondersi, giacché gli uomini come invocherebbero colui nel quale non credettero? e come crederebbero in colui che non udirono? e come udirebbero senza un banditore? (Romani, 10, 14).
§ 109. Ora, fra i banditori orali della « buona novella » vi fu una classe speciale, a cui sembra che fosse affidata in modo particolare la missione di trasmettere la narrazione e testimonianza dei fatti di Gesù: per conseguenza questi particolari banditori furono designati, con termine spontaneo, come i « buoni-novellisti» ossia gli « evangelisti » (Efesi, 4, II; II Timoteo, 4, 5; Atti, 21, 8). Senza dubbio la catechesi in genere, che mirava alla edificazione e formazione spirituale dei credenti, era favorita indistintamente da tutti quei carismi di cui parla più volte S. Paolo esaltando la loro efficacia parenetica (I Cor., 12, 8-10. 28-30; 14, 26; Rom., 12, 6-8; ecc.); tuttavia il carisma dell'”evangelista”, insieme con quello dell'”apostolo”, era all'avanguardia ed apriva la strada agli altri carismi, appunto perché gettava il primo seme della fede in Gesù e narrando la biografia di lui. Ecco pertanto come la missione degli « evangelisti » è descritta da Eusebio: Essi avevano il primo ordine nella successione degli apostoli. Essendo discepoli meravigliosi di tali maestri, essi costruivano sopra i fondamenti delle chiese che erano stati dapprima gettati in ogni luogo dagli apostoli, dilatando sempre piu' il messaggio ) e disseminando la salutare semenza del regno dei cieli in largo su tutta la terra... Usciti di patria, compivano l'opera di evangelisti ansiosi di bandire il messaggio a coloro che non avevano udito affatto nulla della parola della fede e di trasmettere la scrittura dei divini vangeli. Essi, dopo aver gettato solo i fondamenti della fede in taluni luoghi stranieri, vi stabilivano altri pastori ai quali affidavano la cura di coloro ch'erano stati testé introdotti: di nuovo, poi, si trasferivano in altre contrade e nazioni con la grazia e cooperazione di Dio (Hist. eccl., III, 37). Questa descrizione è opportunamente provocata dalla menzione di Filippo, che è il solo « evangelista » nominato nel Nuovo Testamento (Atti, 21, 8) e che difatti aveva evangelizzato Samaria (Atti, 8, 5 segg.) e altre regioni (Atti, 8, 40).
§ 110. Con ciò siamo penetrati in quella miniera da cui estrassero i loro materiali quei molti scrittori che, come vedemmo sopra (§ 106), avevano composto narrazioni dei fatti di Gesù già nel sesto decennio del secolo I, e la cui opera fu o contemporanea o anche parzialmente anteriore alla composizione dei vangeli canonici. Quella grande miniera comune si chiama « catechesi »; e la catechesi senza dubbio era sostanzialmente unica, sebbene potesse venir presentata sotto forme o tipi alquanto differenti che mettessero capo ai vari e più autorevoli banditori della «buona novella». D'altra parte la Chiesa primitiva non si è curata di tutti indistintamente i molti scritti apparsi lungo il secolo I, ma solo di quattro fra essi: degli altri si è disinteressata, e perciò sono andati perduti, mentre i quattro prescelti divennero le quattro colonne basilari dell'edificio della fede. Ad essi soli la Chiesa attribui un valore di storiografia ufficiale; in essi ella riconobbe l'ispirazione di Dio, e perciò li incluse nell'elenco di Scritture sacre chiamato Canone: sono appunto i quattro vangeli canonici, ossia le quattro « Buone novelle» del Nuovo Testamento. Ma la Chiesa non perse mai di vista l'origine unitaria dei suoi quattro vangeli. Se gli scritti erano quattro, la fonte era una sola, cioè la catechesi. Onde, con perfetta aggiustatezza storica, nel secolo Il Ireneo parla di un solo vangelo quadriforme, come nel secolo seguente Origene afferma che il vangelo, certamente attraverso quattro, e' uno solo, ai quali, ancora nel secolo IV, fa eco S. Agostino parlando dei quattro libri d'un solo vangel.
§ 111. E dell'antico sentimento della Chiesa circa questa comune origine dei quattro vangeli si ha una riprova nei titoli sotto cui essi sono giunti fino a noi. I titoli suonano in greco Marco, Luca, Giovanni, le quali espressioni si trovano trasportate di peso in latino da scrittori del secolo II, come Cipriano, e da antichi codici latini, ove si legge cata Matteo, cata Marco, ecc., pur conservandosi il significato originario di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questi titoli non provengono certo dai rispettivi autori, benché designino coloro che secondo la tradizione erano gli autori; ad ogni modo negli antichi codici il titolo di Vangelo si trovava originariamente una sola volta, cioè in cima alla collezione di tutti e quattro insieme, mentre in cima ai singoli si trovava il rispettivo titolo di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questa norma pratica fu dettata dall'idea che il Vangelo era in realtà uno solo, quello estratto dalla catechesi, sebbene tale unità apparisse sotto quattro forme, quella secondo Matteo, quella secondo Marco, ecc. I precedenti rilievi sono della massima importanza per comprendere quale fosse per i cristiani la vera base su cui poggiava l'autorità storica dei vangeli. Quella base era l'autorità della Chiesa, della cui catechesi era genuino e diretto prodotto l'unico quadriforme vangelo. I singoli autori delle quattro forme del vangelo in tanto valevano, in quanto erano rappresentanti della Chiesa, dalla cui autorità essi erano adombrati ma credendo ai quattro autori, il cristiano credeva in realtà all'unica Chiesa, mentre se attraverso ad essi il cristiano non fosse potuto giungere fino alla Chiesa, non avrebbe creduto al loro vangelo. Tutto ciò è espresso nitidamente da S. Agostino col suo celebre aforisma: Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholic Ecclesia' commoveret auctoritas (Contra epist. Manich., v, 6). In conclusione, il processo storico dell'origine dei vangeli fu il seguente. La “buona novella” orale fu più antica e più ampia della « buona novella » scritta: l'uno e l'altra furono produzioni della Chiesa, e dall'autorità di questa furono adombrate. Il che equivale a dire che il vangelo scritto presuppone la Chiesa e si basa su essa.
§ 112. Questa conclusione è in assoluto contrasto con l'antico concetto che la Riforma luterana si fece dei vangeli canonici, e taluno potrebbe forse sospettare che sia una conclusione ispirata da mire polemiche più che fondata sulla pura documentazione storica. Senonché alla stessa conclusione sono giunti recentemente anche studiosi che, non solo non hanno alcuna preoccupazione di apologia cattolica, ma sono invece seguaci dei metodi più radicali e più demolitori riguardo alla critica dei vangeli. Basterà riportare il giudizio di uno solo fra essi: In seguito alla fissazione del canone del Nuovo Testamento alla fine del secolo II si fini per dimenticare che i nostri Vangeli hanno una preistoria importantissima e che bisogna collocarli, non già all'inizio, ma al termine di un lungo processo anteriore. Perciò nella sua nozione della tradizione il cattolicismo si e' sempre guardato da una considerazione esagerata ed esclusiva della lettera scritta... Con la Riforma il nostro concetto sull'origine dei Vangeli venne falsato. La Riforma tirò le ultime conseguenze dalla canonizzazione del Nuovo Testamento, facendo dell'ispirazione verbale il suo dogma essenziale. Mentre il cattolicismo non dimenticò mai completamente che la tradizione precede la Scrittura, i teologi sorti dalla Riforma non tennero piu' alcun conto del fatto che, fra l'epoca in cui e' vissuto Gesù e quella della composizione dei Vangeli, corre ”Vita di Gesu'” scritta. E’ strano rilevare che proprio i teologi piu' liberali della seconda metà del secolo XIX hanno subito inconsciamente l'influenza della teoria dell'ispirazione verbale, non badando che alla lettera scritta, senza preoccuparsi dell'importante periodo in cui il Vangelo non esisteva che sotto forma di parola viva; in Revue d'histoire et de philosophie relig., 1925, pagg. 459-460).
§ 113. Di quale ampiezza, e anche di quale particolare indole, fossero gli scritti andati perduti fra i molti che circolavano lungo il sesto decennio del secolo I, non possiamo dire con sicurezza. E’ ben verosimile che in massima parte fossero d'ampiezza assai limitata, minore anche di quella di Marco che è il più breve dei nostri vangeli. Quanto all'indole, dovevano essere di tipo vario: pur trattando tutti della vita di Gesù, taluni potevano occuparsi specialmente dei fatti, altri specialmente degli insegnamenti e delle parole; tra gli scritti sui fatti, chi prendeva di mira specialmente il ministero in Galilea, chi il ministero in Giudea, chi gli avvenimenti della passione e morte, qualcuno anche i fatti dell'infanzia precedenti al ministero pubblico; tra gli scritti sugli insegnamenti, uno preferiva le parabole, un altro i comandamenti fondamentali della nuova Legge (quali si ritrovano nel Discorso della montagna), un terzo le profezie sulla fine di Gerusalemme e del mondo intero, e così' di seguito. Riscontriamo, pertanto, che questi elementi sparsi si ritrovano tutti complessivamente nei nostri tre primi vangeli chiamati Sinottici (Giovanni, sotto questo aspetto, fa parte a sé), come pure troviamo che i Sinottici alla loro volta mostrano una trama generica comune. Le linee costanti di questa trama sono: il ministero di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù; il ministero di Gesù in Galilea; il ministero di Giudea; la passione, morte e resurrezione. A queste linee costanti può esser premessa la narrazione, più o meno ampia, dei fatti dell'infanzia, come in Matteo e Luca: ad ogni modo tale narrazione serve quasi da preambolo alla trama costante, mentre il vero corpus del racconto comincia col ministero di Giovanni il Battista. Pronunciando queste parole (Atti, 1, 21-22), sembra che Pietro abbia delineato un programma generico; egli stesso mostra di attenersi a tale programma, giacché in un suo discorso segue sommariamente le quattro linee della suddetta trama, incipiens a Galilea post baptismum quod predicavit Joannes e finendo con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (Atti, 10, 37-41). Siffatta corrispondenza fra il programma e l'azione di Pietro (cfr. anche Atti, 2, 22-24), e inoltre il posto sovreminente da lui tenuto fra i primissimi banditori della “buona novella”, rendono legittima la supposizione che appunto a Pietro risalga la trama di quella catechesi le cui linee generali si ritrovano complessivamente seguite dai nostri tre primi vangeli, come dovevano esser seguite isolatamente dal più dei molti scritti andati perduti. Chi fossero poi gli autori degli scritti perduti, noi non sappiamo affatto. Poterono benissimo appartenere al numero di coloro ch'erano insigniti dal carisma dell'”evangelista”; taluno poté anche essere testimone personale dei fatti narrati, in quanto era stato discepolo immediato di Gesù morto un ventennio prima: tuttavia dal confronto di Luca, 1, 1 con 1, 2, sembra risultare una contrapposizione tra scrittori e testimoni, per cui i primi dipenderebbero dai secondi e non sarebbero - almeno nella maggioranza - testimoni essi stessi. Quanto agli autori dei vangeli canonici, e al tipo di catechesi da cui ciascuno di essi dipende, non resta che ricercare le testimonianze della tradizione, passando cosi dal periodo di preparazione a quello di composizione dei quattro vangeli.
Matteo
§ 114. Il primo vangelo è attribuito all'apostolo Matteo, chiamato anche Levi e già pubblicano (§ 306), da una costante tradizione che risale al principio del secolo II. Il già allegato Papia di Jerapoli, che verso l'anno 120 scrisse cinque libri di Spiegazione dei detti del Signore, affermava in essi che: Matteo in dialetto ebrai cocoordinò i detti ciascuno poi li interpretò com'era capace (in Eusebio, Hist. eccì., III, 39, 16). Altre testimonianze successive - quali quelle di Ireneo, di Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 2), di Clemente Alessandrino (Stro mata, 1, 21), ecc. - confermano più o meno esplicitamente la notizia di Papia. E’ anche certo che tutta l'antichità cristiana, in una gran quantità di attestazioni che sarebbe inutile elencare, ha attribuito a Matteo precisamente il primo dei nostri vangeli canonici e non un altro scritto. Che cosa esattamente afferma Papia dello scritto di Matteo? Egli dice che in esso Matteo coordinò i detti di Gesù: ossia che, non solo raccolse insieme i detti in questione. Gli antichi, infatti, badavano molto in un'opera letteraria all'”ordinamento”: secondo essi uno scrittore doveva in primo luogo provvedere al ritrovamento di un soggetto, quindi sottoporre il soggetto all'«ordinamento»; questo ordinamento, poi, non era sempre quello cronologico, bensì presso gli stessi storici era sovente l'ordinamento logico, fondato o sull'analogia delle varie trattazioni, o sulla congiunzione di causa ed effetto, o sull'unità di luogo e di persone, e simili. E che Papia abbia qui di mira questo ordinamento letterario, risulta da quanto egli ha detto immediatamente prima circa il vangelo di Marco (citeremo l'intero passo al § 128), ove afferma che Marco scrisse esattamente, ma non già con ordinamento; al contrario, nello scritto di Matteo egli ritrova con soddisfazione questo “ordinamento”.
§ 115. Ora, quali sono i detti contenuti nello scritto di Matteo? Etimologicamente il termine greco significa detti (sentenze, oracoli); ma particolarmente, presso scrittori giudei e cristiani, significava anche passi in genere della sacra Scrittura, che contenessero indifferentemente sia sentenze sia fatti. Papia stesso usa altrove il termine in questo secondo senso più ampio: nel già accennato passo ove parla del vangelo di Marco, dice che questo contiene le cose o pronunzsate o operate da Gesù; eppure, immediatamente appresso, egli designa questo complesso narrativo come detti di Gesù. Inoltre la stessa opera scritta da Papia era bensì intitolata Spiegazione dei detti del Signore, ma dagli accenni e citazioni che ne rimangono risulta che essa trattava, oltreché delle sentenze, anche dei fatti di Gesù e dell'età apostolica. Per conseguenza, non solo l'antichità cristiana, ma anche tutti gli studiosi indistintamente fino al secolo XIX inoltrato, ritennero che questi detti attribuiti da Papia a Matteo designino il primo dei nostri vangeli canonici: tanto più che di un'opera assegnata a Matteo o ad altri Apostoli, conteneva solo sentenze di Gesù, non esiste né attestazione né traccia alcuna trasmessa dall'antichità. Se poi passiamo a confrontare questi dati, strettamente positivi, con il contenuto del nostro primo vangelo, troviamo una adeguata corrispondenza alle due caratteristiche rilevate da Papia: quella dell'appellativo di detti, e quella dell'”ordinamento” letterario.
§ 116. E in primo luogo, fra i vangeli sinottici, Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occupano circa tre quinti dell'intero scritto: perciò con particolare ragione esso poteva esser designato come una raccolta di detti, pur conservandosi a questa parola il significato usuale meno rigoroso che includeva anche la narrazione di fatti. Inoltre, la raccolta dei discorsi di Gesù ivi riferiti è stata ripartita in cinque gruppi, secondo quella norma di “ordinamento” letterario che stava a cuore a Papia. Il primo gruppo contiene ciò che si potrebbe definire lo statuto del regno fondato da Gesù, cioè il Discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7); il secondo contiene le istruzioni date agli Apostoli per diffondere il regno (cap. 10); il terzo, le parabole del regno (cap. 13); il quarto, i requisiti morali per appartenere al regno (cap. 18); il quinto, il perfezionamento del regno e la sua consumazione nei fini estremi (capp. 23-25). Notevole è che ognuno di questi gruppi è preceduto da poche parole d'introduzione, ed è poi seguito da una conclusione, la quale tutte le volte è, con minime mutazioni, questa: E avvenne che, quando Gesu' ebbe terminato o questi discorsi o queste parabole, ecc. (7, 28; 11, 1; 13, 53; 19, 1; 26, 1). Notevole è anche che siffatto “ordinamento” in cinque gruppi, certamente non fortuito, corrisponde numericamente ai cinque libri in cui Papia aveva diviso la sua opera di Spiegazione dei detti del Signore; il che potrebbe far sospettare, benché la cosa non sia punto certa, che Papia avesse seguito nella sua opera l'”ordinamento” da lui segnalato nello scritto di Matteo, se in essa egli si era occupato soprattutto dei discorsi di Gesù.
§ 117. L'antico pubblicano Matteo, quando mise mano a questa sua opera, era certamente uomo abituato da gran tempo a scrivere, perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell'ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei pagamenti; al contrario gli altri Apostoli, sebbene non fossero privi di lettere, dovevano avere in genere più familiarità con remi e reti da pescatori che non con pergamene e calami da scrittori (salvo forse i due benestanti figli di Zebedeo), e ciò specialmente subito dopo la morte di Gesù quando iniziarono da soli la loro missione. Testimoni oculari delle azioni di Gesù erano stati tutti egualmente, ma l'abilità scritturale di Matteo era un vantaggio tecnico su altri Apostoli, e questo dovette far sì che fosse assegnato di preferenza a lui l'incarico di mettere in iscritto la catechesi orale degli stessi Apostoli. Quando Matteo si mise all'opera è possibile, sebbene non dimostrato, che già circolasse qualche scritto contenente detti o fatti di Gesù; ma anche se ciò potesse dimostrarsi, si tratterebbe certamente di saggi ancora scarsissimi sia per numero sia per contenuto, composti inoltre per iniziativa privata e privi d'ogni carattere ufficiale. Al contrario, l'incarico dato a Matteo rispondeva all'opportunità che la catechesi orale degli Apostoli fosse ampiamente e ufficialmente riecheggiata in un documento scritto, ricevendone quel sussidio pratico che era richiesto, come vedemmo (§ 106), dalla crescente diffusione della buona novella. Il tipo di catechesi da mettersi in iscritto non poté essere se non quello già collaudato dalla pratica della Chiesa, e le cui linee maestre erano state tracciate da chi aveva la sovreminenza sui banditori ufficiali della buona novella: fu perciò il tipo di catechesi che metteva capo a Pietro (§ 113), senza però escludere il sussidio di altri elementi provenienti dal collegio apostolico che non entravano ordinariamente nel quadro di quella predominante catechesi. In conclusione lo scritto riassunse il pensiero dell'intero collegio apostolico, pur attenendosi alle linee principali della catechesi di Pietro.
§ 118. Un documento quale quello di Matteo, composto da un testimone dei fatti, garantito e sussidiato da altri testimoni, inquadrato entro le linee maestre di un insegnamento ufficiale, esteso su un'ampiezza che non fu mai più raggiunta da scritti dello stesso genere, era destinato immancabilmente ad acquistare un valore singolare. Troviamo infatti che il vangelo di Matteo, come ci viene presentato dalla concorde antichità quale primo in ordine di tempo, cosi è primo quantitativamente per impiego fattone fin dai primi tempi: basti ricordare che, da parte cattolica, Giustino martire a mezzo il secolo IIimpiega il nostro Matteo non meno di centosettanta volte, e che prima di lui gli antichissimi eretici Ebioniti impiegavano il solo vangelo di Matteo, a detta di Ireneo, ma probabilmente alterato.
§ 119. Tuttavia, da principio, all'impiego e all'ampia diffusione dello scritto di Matteo si opponeva il grave ostacolo della lingua in cui era stato composto. La notizia già comunicataci da Papia, che Matteo scrisse in dialetto ebraico - è in realtà confermata da altri antichi - quali Ireneo, Origene, Eusebio, Girolamo i quali egualmente parlano di lingua ebraica o paterna: quasi certamente il termine ebraico designa qui l'aramaico (come nel contemporaneo Flavio Giuseppe, Guerra giud., vi, 96; cfr. v, 272, 361; ecc.), giacché ai tempi di Matteo in Palestina si parlava aramaico; ad ogni modo, ebraico o aramaico che fosse, la lingua primitiva semitica era inaccessibile ai cristiani di stirpe non giudaica e anche a moltissimi altri provenienti dal giudaismo della Diaspora, i quali non conoscevano altro che il greco. Ma l'ostacolo fu superato, bene o inale, nella maniera accennata dallo stesso Papia: i detti, nel loro testo originale semitico, andarono in mano ai vari lettori e catechizzatori, ciascuno poi li interpretò com'era capace. Le quali parole lasciano intravedere un ampio lavorìo sorto ben presto attorno a un testo cosi opportuno e autorevole: alcuni catechizzatori ne avranno tradotto oralmente, in maniera estemporanea, quegli squarci che volta per volta occorrevano al loro ministero; altri avranno anche apprestato traduzioni scritte, e queste poterono essere sia parziali sia, più raramente, totali; non dovettero anche mancare scritti che, come la Spiegazione dello stesso Papia, erano piuttosto di esegesi illustrativa che di semplice traduzione. Ma l'osservazione di Papia, che ciascuno interpretò com'era capace, fa anche comprendere che in tutto quel lavorio la buona volontà spesso non era accompagnata da un'adeguata perizia, soprattutto riguardo alla conoscenza della lingua da cui si traduceva o anche in cui si traduceva. E’ anche del tutto possibile che i molti, che nel sesto decennio del secolo I avevano gia scritto sui fatti di Gesù (§ 110), usufruissero ampiamente della composizione di Matteo, pur unendola con altri elementi desunti dalla tradizione di testimoni o di loro discepoli.
§ 120. Ma la Chiesa, che aveva adombrato della sua autorità la catechesi scritta in semitico da Matteo, dovette a un certo punto estendere la sua vigilante cura anche alle traduzioni del testo originale, per timore che quell'autorità ufficiale fosse indebitamente invocata ad adombrare traduzioni che non meritavano tanto onore. Ciò che precisamente avvenisse non ci è noto, ma le conseguenze sono chiare ed eloquenti. Le traduzioni puramente orali ed estemporanee dovettero sempre più diminuire, col diminuire dei catechizzatori ch'erano in grado di intendere l'originale semitico; le traduzioni scritte, parziali o totali che fossero, rimasero nell'ombra, cioè nell'uso privato e non ufficiale, e perciò destinate prima o dopo a perdersi. Una sola traduzione non andò perduta e giunse fino a noi, ma appunto perché fu adottata ufficialmente dalla Chiesa in sostituzione del troppo arduo testo semitico originale: è il testo greco del nostro Matteo canonico. Da chi sia stata fatta questa traduzione noi non sappiamo, come ai suoi tempi confessava di non saperlo S. Girolamo. Certamente fu oompiuta qualche decennio dopo ch'era apparso lo scritto di Matteo, quando cioè effondendosi sempre più il cristianesimo fuori della Palestina, diventava sempre meno usabile il testo originale semitico: risulta anche, da accurati raffronti letterari, che la traduzione fu compiuta dopo ch'erano apparsi gli altri due vangeli sinottici, delle cui espressioni letterarie essa risente. Il traduttore, infatti, non limitò il suo lavoro ad una semplice trasposizione delle parole da una lingua all'altra: bensi, oltre a ricercare una certa spigliatezza letteraria e quindi a non seguire servilmente la lettera anche per questa ragione, egli nello stesso tempo ebbe di mira la catechesi pratica. Poiché nel frattempo erano apparsi i due vangeli di Marco e di Luca, scritti originariamente in greco e rispecchianti in maniera più diretta le catechesi rispettivamente di Pietro e di Paolo, il traduttore li tenne sott'occhio durante il suo lavoro, e nel rendere il testo semitico si avvicinò per la scelta delle espressioni a quelle che trovava già impiegate in passi paralleli dei due nuovi vangeli greci: con ciò egli volle imprimere una certa uniformità letteraria a quei tre documenti, che rispecchiavano la catechesi fondamentalmente unica.
§ 121. La stessa mira della catechesi influì anche in altre maniere sulla traduzione. Trasportato in greco, lo scritto di Matteo allargava enormemente il suo campo d'azione e poteva raggiungere lettori non giudei, cioè non abituati a idee ed espressioni tipicamente semitiche; d'altra parte il testo semitico di Matteo doveva avere (come risulta dal confronto con gli altri due Sinottici) talune espressioni che potevano o essere fraintese o suscitare meraviglia presso gli accennati lettori. Perciò il traduttore, per adattare meglio lo scritto al nuovo campo di catechesi, rimosse queste occasioni di errore e di meraviglia, e pur conservando il senso fondamentale attenuò la forza di certe frasi. Sembra anche probabile che egli abbia spostato taluni passi del testo originale raggruppandoli differentemente, conforme ai modelli di Marco o di Luca, ancora perché questo nuovo raggruppamento gli parve opportuno per l'uso catechetico. Questi criteri larghi non erano affatto inconciliabili con l'idea di «traduzione» presso gli Ebrei, come appare chiaramente da vari casi dell'Antico Testamento; per limitarsi al solo Ecclesiastico, le antiche versioni di questo libro fatte direttamente dal testo ebraico originale (sia esso, o no, quello ritrovato un quarantennio addietro) mostrano che i vari traduttori seguirono criteri d'una libertà estrema. Molto più discreto di essi fu invece il traduttore di Matteo; egli seguì criteri che, pur non essendo i rigorosi odierni, s'ispirano a quella libertà ch'era vantaggiosa allo scopo supremo della catechesi. Ma il fatto stesso che la Chiesa approvò e adottò la traduzione da lui apprestata, e che i più antichi scrittori ecclesiastici la impiegarono come testo di vangelo canonico, dimostra che quella traduzione riproduceva in maniera “sostanzialmente identica” l'originale semitico. Troppo gelosa era la vigilanza della Chiesa per tollerare che il maestoso nome assegnato alla più antica e autorevole scrittura del suo insegnamento ufficiale, venisse attribuito a una traduzione che di quella scrittura fosse soltanto un evanescente simulacro; il rigore usato più tardi dalla stessa Chiesa contro gli scritti apocrifi, i quali parimenti si rifugiavano sotto gloriosi ma mentiti nomi e talvolta erano perfino libere rimanipolazioni di libri canonici, conferma la suddetta vigilanza abituale ed è una garanzia anche per quanto riguarda la traduzione greca di Matteo.
§ 122. L'indipendenza da un servilismo verbale, testé rilevata nel traduttore di Matteo, offre anche occasione a metter bene in luce un principio importantissimo per l'interpretazione dei racconti evangelici in genere. Troviamo, cioè, che un'eguale indipendenza dal servilismo verbale è mantenuta dagli evangelisti stessi nelle loro narrazioni, sì, da discordare verbalmente fra loro anche nel riferire testi rigorosamente fissati alla lettera ovvero parole di specialissimo valore dottrinale. Ad esempio, la tavoletta di condanna fatta apporre da Pilato sulla croce di Gesù recava senza dubbio un testo rigorosamente fissato alla lettera; eppure quest'unico testo è riportato con le seguenti divergenze verbali: Gesù1il Nazareno, il re dei Giudei (Giovanni, 19, 19); Costui e' Gesù, il re dei Giudei (Matteo, 27, 37); Il re dei Giudei, costui (Luca, 23, 38); Il re dei Giudei (Marco, 15, 26). Più grave ancora è il caso dell'Eucaristia, istituita una sola volta da Gesù e con parole ben precise; eppure anche qui se confrontiamo la materialità delle parole, riferite sia dai tre Sinottici sia da S. Paolo (I Corinti, Il), troviamo nette divergenze. Ora, tutto ciò dimostra che la preoccupazione della catechesi antica, e quindi anche degli evangelisti canonici che dipendono da essa, era la fedeltà sostanziale non già quella grettamente verbale, e che essi ricercavano l'adesione alla verità del senso non già alla materialità della lettera. Il culto della lettera materiale apparirà solo 16 secoli più tardi, quando la Riforma protestante dimenticherà che i vangeli dipendono dalla catechesi e li giudicherà basati in maniera autonoma sulla pura lettera; ma gli evangelisti stessi, con la loro indipendenza della lettera, danno una formale smentita storica al giudizio della Riforma, e il traduttore greco di Matteo conferma questa smentita imitando gli evangelisti nella libertà verbale.
§ 123. Riguardo al tempo in cui Matteo scrisse in semitico il suo vangelo, abbiamo un solo argomento ben certe, ma oltre a questo soltanto delle probabilità. La certezza è data dalla uniforme e costante attestazione degli antichi documenti, secondo cui Matteo fu cronologicamente il prirno evangelista canonico: è quindi anteriore a Luca che fu scritto non dopo l'anno 62, come pure è anteriore a Marco scritto poco prima di Luca. Più in su di questo estremo limite abbiamo solo delle probabilità: se i molti che scrissero circa i fatti di Gesù lungo il sesto decennio trassero parecchio del loro materiale dall'opera di Matteo, come sopra supponemmo (§ 119), questa autorevole fonte deve risalire ai primi anni di quel decennio, ossia circa al 50-55. A questa conclusione sembra opporsi il noto passo di Ireneo (Adv. haer., III, 1, 1), che nel testo greco (in Eusebio, Hist. eccl., V, 8, 2) suona letteralmente cosi: Matteo fra gli Ebrei nella propria lingua di essi produsse anche una scrittura di vangelo, evangelizzando Pietro e Paolo in Roma e fondando la chiesa; quindi, dopo la dipartita di costoro, Marco, il discepolo e l'interprete di Pietro, ci trasmise anch'egli per iscritta le cose predicate da Pietro, ecc. Il tratto che riguarda Matteo contrappone la pubblicazione del suo scritto semitico alla evangelizzazione di Pietro e Paolo a Roma, e sembra ben supporre che i due fatti fossero contemporanei: quindi Matteo avrebbe scritto dopo l'inizio dell'anno 61, nel qual tempo Paolo giunse a Roma secondo il noto racconto degli Atti, 28, 14 segg. Si è tentato spiegare questo tratto supponendo che Ireneo non s'occupi ivi della cronologia, ma solo contrapponga l'operosità anche letteraria di Matteo in Palestina a quella soltanto orale di Pietro e Paolo a Roma: tuttavia la spiegazione non ha persuaso, specialmente per le limitazioni cronologiche che seguono (dopo la dipartita di costoro; ecc). D'altra parte Ireneo, ottimo conoscitore del Nuovo Testamento e delle sue origini, non poteva ignorare che anche prima dell'arrivo di Paolo esisteva a Roma una fiorente chiesa, come risulta sia dagli Atti (ivi) sia dall'anteriore lettera di Paolo ai Romani; perciò la menzione di Paolo, a proposito della fondazione della chiesa di Roma, non può essere interpretata nel senso di una rigorosa simultaneità cronologica. Ciò probabilmente offre la chiave di spiegazione. Ireneo, che abitualmente considera la chiesa di Roma come una fondazione collettiva di Pietro e di Paolo insieme, la ricorda come tale anche nel nostro passo, astraendo dalla esatta precedenza dell'uno sull'altro; egli perciò fissa la simultaneità cronologica tra la fondazione, presa in se stessa, e la composizione dello scritto di Matteo. In questa interpretazione il periodo degli anni 50-55, che assegnammo allo scritto di Matteo, sarebbe confermato, essendo appunto quello il periodo di pieno stabilimento e sviluppo della chiesa di Roma.
§ 124. L'esame interno dello scritto di Matteo conferma e schiarisce le notizie trasmesse dalla tradizione. Minuziosi e lunghi confronti, fatti recentemente e che sarebbe qui fuor di luogo riprodurre, hanno messo in luce i molti elementi tipicamente semitici, sia stilistici sia lessicali, che sono passati dal testo originale nella versione greca. Principale fra tutti è l'espressione regno dei cieli, che si ritrova soltanto in Matteo e certamente riproduce alla lettera la formula usata da Gesù in aramaico: questa espressione era sorta per la preoccupazione rabbinica di evitare l'impiego del nome di Dio, ed era perciò una sostituzione dell'espressione equivalente regno di Dio, che è la sola usata dagli altri evangelisti.
§ 125. Che Matteo si rivolga a cristiani provenienti dal giudaismo, risulta anche dall'indole della sua trattazione. Senza dubbio la sua mira è storica, volendo egli riferire circa la dottrina e i fatti di Gesù; tuttavia egli fa ciò nel modo che gli appare più efficace ed appropriato per lettori che già ebbero fede in Mosè. Nel vangelo di Matteo, più che in ogni altro, Gesù appare come il Messia promesso nell'Antico Testamento e che ha realmente adempiuto in se stesso le profezie messianiche: di qui l'assidua cura dell'evangelista di concludere molte narrazioni con l'avvertimento che ciò anvenne affinché si adempisse quello ch'è detto, ecc., riferendosi a qualche passo dell'Antico Testamento (cfr. Matteo, 1, 22-23; 2, 15. 17.23; ecc.). Anche la dottrina di Gesù è presentata con riguardo speciale alle sue relazioni sia con l'Antico Testamento, sia con le dottrine e lo spirito dei predominanti Farisei. Riguardo all'Antico Testamento la nuova dottrina è, non già un'abrogazione, bensì un perfezionamento e una integrazione: solo Matteo riporta le affermazioni di Gesù ch'egli non sia venuto a disfare la Legge e i Profeti bensì a compierli e che non passi dalla Legge un solo jota o un apice fino a che tutto s'adempia (ivi, 5, 17-18). Riguardo alle dottrine dei Farisei, quella di Gesù è in antitesi perfetta: non soltanto la minaccia Guai a voi (Scribi e Farisei ipocriti!)... è ripetuta per ben sette volte in un solo capitolo (cap. 23; il vers. 14 è un riporto fatto da altrove), ma in tutto il resto di questo vangelo l'abisso che separa le due dottrine è messo in luce più che negli altri Sinottici. Parimente soltanto Matteo fa notare che la missione personale di Gesù era rivolta direttamente alla sola nazione d'Israele (ivi, 15, 24; cfr. 1, 21), come pure che la missione preparatoria degli ApoIstoli mirava al solo Israele con precisa esclusione dei pagani e dei Samaritani (ivi, 10, 5-6). Perfino la designazione dei pagani gentili, dell'Antico Testamento, risente ancora nelle espressioni di Matteo di quell'inveterato disprezzo che il giudaismo aveva decretato ai non giudei, per cui « gentile » era praticamente sinonimo dell'aborrito « pubblicano » (ivi, 5, 46-47; 18, 17) e la condizione di un gentile in confronto con quella di un giudeo era come quella di un cane di casa in confronto con quella di un figlio del padrone (ivi, 15, 24-27) le quali espressioni o saranno attenuate o scompariranno presso i successivi Sinottici, che s'indirizzeranno specialmente a cristiani provienti dal paganesimo. Tuttavia, oltrepassata questa scorza giudaica, il vangelo di Matteo si manifesta come rigorosamente universalistico: esso è, più che ogni altro, il Vangelo della Chiesa, come già apparve al Renan. La parola « Chiesa » è impiegata, fra gli evangelisti, dal solo Matteo (16, 18; 18, 17); e questa istituzione di Gesù è, non già riservata ai soli Giudei, ma aperta a tutte le genti che vi accorreranno numerose dall'Oriente e dall'Occidente per assidersi a mensa insieme con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli (ivi, 8, 11), e i confini di questo regno saranno i confini stessi del mondo (ivi, 13, 38) anzi i pagani gentili sostituiranno praticamente gli Israeliti nel possesso del regno di Dio (ivi, 21, 43).
§ 126. L'ordine seguito da Matteo nella sua composizione è, come già sappiamo, l'«ordinamento» sistematico gradito da Papia (§ 114). Scrivendo per lettori educati nel giudaismo, e avendo a loro riguardo uno scopo ben definito, Matteo subordina spesso a quell'«ordinamento» la consecuzione cronologica, e ricorre a procedimenti letterari ch'erano comuni nelle scuole rabbiniche e miravano specialmente a una utilità pratica mnemonica. Come egli raccoglie nei 5 grandi gruppi gia visti i detti di Gesu' (§ 116), così altrove riunisce in gruppi di 5, o di 7 o di 10, ma soprattutto di 3, le singole sentenze o i singoli fatti. Frequente è pure l'applicazione della legge del «parallelismo», fondamentale nella poesia ebraica, e specialmente del «parallelismo antitetico», per cui a una data affermazione si fa seguire, a guisa di conferma, la negazione del suo contrario. L'intero Discorso della montagna (capp. 5-7), cioè proprio il primo dei 5 gruppi di detti, è tutto una concatenazione di tali procedimenti letterari (§ 320).
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