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5 - Esame di alcune dichiarazioni sinottiche sulla divinità di Gesù

CAPITOLO V. - ESAME DI ALCUNE DICHIARAZIONI SINOTTICHE SULLA DIVINITÀ' DI GESÙ'

Osservazioni generali. - 1. La Chiesa cristiana crede nella divinità di Gesù; questo è uno degli articoli più fondamentali del suo credo. Si può dire cristiano chi lo rigetta? Se tale articolo è un errore, la " grande illusione " di cui parlava Dielitzsch, dev'essere cercata nel Nuovo Testamento, non nell'Antica Legge, che da Abramo a Gesù, non durò di più della nuova, da Gesù a nói. Il suo campo d'azione si limitava a un popolo nel quale ci furono degli insubordinati; la fede cristiana invece vuoi conquistare il mondo e si presenta come l'ultima parola delle comunicazioni divine all'umanità. Se la Chiesa c'inganna su un punto tanto essenziale, essa bestemmia, e i caratteri di credibilità di cui è dotata, santità e unità, diffusione meravigliosa e stabilità, non sarebbero altro che appelli a un intervento divino per appoggiare l'errore. La prova della divinità di Gesù differisce da quella dell'esistenza di Dio, in cui, affidandoci al valore della nostra conoscenza, dal creato risaliamo all'increato, dal finito all'infinito, dal relativo all'assoluto. Per la divinità di Gesù invece ammettendo l'esistenza di Dio, partiamo dall'asserzione di un uomo e gli chiediamo le prove della sua dichiarazione, perché Dio non può, senza rinnegarsi, autenticare la menzogna -e un uomo senza il soccorso divino non può fare miracoli e profezie, basi solide e semplici su cui Gesù poggiava la sua dichiarazione divina. La prova dell'esistenza di Dio è un appello alla filosofia, quella della divinità di Gesù è un appello alla storia.

2. Nel momento della redazione dei sinottici, gli scritti paolini provano che il cristianesimo, partito da una predicazione molto semplice, s'era ben presto reso conto della profondità del suo insegnamento. L'apostolo delle nazioni rappresenta uno stato della teologia, della cristologia e della soteriologia che alcuni vollero opporre al dato primitivo. Paolo o Gesù, Paolo contro Gesù, fu il tema d'una discussione molto viva che ormai si tende a riconoscere come molto vana. (Cfr. C. H. Dodd, The present Task in New Testament Studies, Cambridge, 1936). Ora si è generalmente d'accordo nell'ammettere che in Paolo l'evoluzione della credenza cristiana ha raggiunto lo stadio della fede nella divinità di Gesù. Perciò i critici devono risolvere il problema posto da loro stessi e che un autore protestante formula in questi termini: I critici " non si accorgono che il problema reale sta nello spiegare la data, relativamente tarda, che la tradizione ecclesiastica assegna a questi racconti ufficiali della vita del suo fondatore; e anche nel giustificare il carattere ingenuo e primitivo della presentazione di Cristo come viene fatta in Marco, essendo affermato che questo vangelo fu scritto dopo parecchi anni di sviluppo culturale e di speculazione teologica, supposti dalle epistole di San Paolo. Ecclesiasticamente, anche se lo datiamo al 65, il Vangelo di Marco è, per così dire, già in ritardo di dieci anni sull'epoca in cui fu scritto. Se ne possono spiegare l'ingenuità e ls caratteristiche primitive da una tradizione antica e pura " (B. H. Streeter, The Four Gospel, Londra 1924, pp. 495-496; cfr. P. L. de Grandmaison, Jésus-Christ, t. ii, Parigi 1928, p. 76). Tale stato di fatto comporta una conseguenza di metodo per l'apologetica cristiana, l.o È facile far notare quanto sia vano il processo dei critici che vogliono cancellare dai sinottici ogni allusione alla divinità di Gesù. Siccome le comunità paoline avevano ricevuto un insegnamento esplicito, non c'è motivo di trovar difficile ammettere che Matteo, Marco, Luca abbiano condiviso questa fede e l'abbiano insegnata nel loro vangelo. 2.o Nello stesso tempo importa pure notare che, per rispondere alle obiezioni che dopo la scuola liberale troviamo identiche in tutti gli storici non credenti, bisogna dimostrare attraverso i sinottici che Gesù si dichiarò figlio di Dio nel senso metafisico e naturale della parola. Da parte loro i critici dovranno concedere che non occorreva, che non era necessario che tali dichiarazioni venissero fatte ad ogni pie sospinto durante il ministero. È necessario ma sufficiente dimostrare che Gesù ha emesso chiaramente questa affermazione in alcune circostanze. I critici ammetteranno pure che il silenzio di Cristo nelle narrazioni sinottiche non corrisponde a una sconfessione delle credenze paoline e giovannee, che resterebbero inspiegate. Gioverà leggere le assennate osservazioni del R. P. Benoit in Revue Biblique, t. xiv, 1947, pp. 606-612.

Varie dichiarazioni di Nostro Signore. - Questo studio si propone di esaminare i tre casi principali in cui i sinottici prestano a Gesù la rivelazione della sua filiazione divina e di mostrare che la testimonianza sinottica ha in se stessa garanzia di fedeltà e corrispondenza alle asserzioni di Gesù. Non trascuriamo il valore delle altre dichiarazioni del Signore di cui bisogna pure tener conto e che occorre richiamare prima di studiare i tre testi in questione. Gesù si dichiarò più grande dei profeti (Mt. 12, 41; cfr. 11, 9), di Giovanni Battista (Mt. 11, 9), di Davide (Mt. 22, 43), del tempio (Mt. 12, 6), degli angeli (Mt. 13, 41; 16, 27; 24, 31. 36); ha una potenza che opera miracoli e che può dare agli altri (Mt. 10, 8; Me. 3, 15; 6, 7; Le. 9, 6) che la eserciteranno riferendosi a Cristo anziché a Dio (Me. 16, 17; Le. 10, 17); Egli è padrone del sabato (Mt. 12, 8), legislatore supremo che porta perfezionamenti sostanziali alla legge di Iahvè (Mt. 5, 21. 27. 33. 34. 38); rimette i peccati (Mt. 9, 1 ss.; Me. 2, 5 ss.; Le. 5, 20 ss.; 7, 47 ss.) con un potere riservato a Dio (Me. 2, 7; Le. 10, 21) e attribuisce la stessa virtù purificante all'amore verso la sua persona, come a quello verso Dio (Le. 7, 47); delega la sua autorità senza fare appello a Dio, né a una qualsiasi procura (Mt. 16, 18; 18, 18); è il giudice del mondo (Mt. 7, 22. 23; 13, 41. 49; 16, 27; 19, 28; 24, 27; 25, 31), lo scopo, il centro d'ogni vita morale e religiosa (Mt. 5, 11; 10, 17 ss. 32. 37; 16, 24 ss.; 19, 16 ss.; 24, 9. 13). Gesù non si dice mai espressamente "figlio di Dio ", ma usa formule equivalenti: "È il figlio " (Mt. 11, 27; 24, 37; 28, 19; Me. 13, 32; Le. 10, 22); Dio è suo Padre (Mt. 7, 21; 10, 32; 11, 27; 12, 50 ecc), Gesù e gli uomini non hanno la stessa relazione verso questo Padre; Gesù non si include in una formula come " nostro Padre ", ma dice " il vostro Padre " (Mt. 5, 16. 45; Le. 6, 36; 12, 30. 32); altri gli danno il nome di Figlio (Mt. 3, 17; 17, 5; 14, 33; 16, 16; 26, 63; 27, 54); infine c'è un insegnamento più esplicito nella parabola allegorizzante del padre che manda il figlio a prender possesso della sua vigna (Mt. 21, 33); e nell'ordine dato agli apostoli di battezzare " nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo " (Mt. 28, 19). Queste le grandi linee desunte dagli apologisti nei sinottici per dimostrare la divinità di Gesù. Il riassunto che ne ho dato si trova in L. Kasters, art. Jesus Christus, nel Lexikon fui Theologie und Glaube, t. v, col. 349-350; di esso ho tralasciato i passi che saranno oggetto d'un esame più approfondito, la confessione di Cesarea, il logion giovanneo, la confessione al gran sacerdote.

§ 1. - La confessione di Cesarea

1. Testi. - Mt. 16, 13-20 " Venuto poi Gesù nelle parti di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?" Risposero essi: "Alcuni dicono che sia Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei Profeti". "Ma voi", domandò loro, "chi dite che io sia?". Gli rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù a lui: "Beato te, Simone Bar-Iona, perché non carne e sangue te l'ha rivelato ma il Padre mio, che è nei cieli. Ora anch'io ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa. E a te io darò le chiavi del regno dei cieli; e ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli". Allora impose ai discepoli di non dire a nessuno che egli era il Cristo ". In Marco Gesù andando verso i villaggi che dipendevano da Cesarea di Filippo, interroga i discepoli come in Matteo, ma la risposta di Pietro è: "Tu sei il Cristo". Dalla risposta di Gesù riporta solo l'ordine di s non dire niente a nessuno " (Me. 8, 27-30); Luca qui non ci interessa, le domande sono le stesse, Pietro risponde " Tu sei il Cristo di Dio ", e l'ordine di Gesù viene riportato come in Marco (Le. 9, 18-22).

Si pone dunque questo problema: Se sia storicamente dimostrabile che Matteo riportò esattamente le parole di Pietro : " Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio "vivo" ", e in die senso le usi l'apostolo.

2. La situazione storica. - B. Weiss (Leben Jesu, t. n, p. 267) vide bene: "Non si può comprendere la scena di Cesarea di Filippo nel senso che il popolo non considera ancora Gesù come il Messia, e che gli apostoli arrivano per la prima volta a riconoscere la messianità, ma nel senso che il popolo non lo ritiene più come Messia, mentre gli apostoli perseverano in questa fede ". Al successo incontrato da Gesù quando moltiplicò i pani, segui il distacco della folla, che si spiega benissimo con l'attestazione di Giovanni, il quale dice che Gesù si ritirò sul monte e fece il discorso sul pane di vita. Bisogna anche vedere dove tende la confessione poiché i tre evangelisti notano concordi come Gesù dopo il riconoscimento incominci a parlare della sua passione e morte.

3. Importanza della confessione. - Dati i luoghi paralleli, non d può essere dubbio che Pietro abbia riconosduto la messianità di Gesù. La formula lucana si ferma qui; invece Matteo si separa dagli altri due sinottici non solo aggiungendo " il Figlio del Dio vivo ", ma anche la beatitudine rivolta a Pietro. Ci meraviglia sentire R. Bultmann (Die Frage nach dem messianischen Bewusstsein Jesu und der Petruskenntnis, [La questione della coscienza messianica di Cristo e la confessione di Pietro] in Z N T W, t. XIX, 1920, pp. 170-171) dar risalto al carattere semitico di tutto il passo e dichiarare che si devono cercare le circostanze della redazione nella più antica comunità di Gerusalemme (così, Idem, Die Geschichte der Synoptischen Tradition, [Storia della tradizio ne sinottica], Gottinga, 2.a ed. 1931, pp. 147-150, e P. Billerberk, Kommentar zum Neuen Testarnent aus Midrasch und Talmud [Commento al N. T. tratto dal Midrasch e dal Talmud], 1922, t. i, pp. 730-746). Il P. Lagrange, colpito da questa particolarità di Matteo, dapprima aveva pensato che il primo Vangelo, secondo un sistema spesso usato, avesse unito due serie di fatti in una sola narrazione. Ma poi abbandonò il suo punto di vita. In ogni caso i1 carattere semitizzante della pericope di Matteo ci fa aprire gli occhi contro un'interpretazione troppo frettolosa in favore di Marco e di Luca.

Anzitutto notiamo che in definiva le due testimonianze ne fanno una sola, perché Luca segue Marco passo passo; inoltre qui Marco pare meno vicino ai fatti che Matteo e chiunque confronti attentamente i testi non troverà più difficile spiegare il silenzio di Marco e di Luca che l'esposizione di Matteo, perché " il contesto è chiaro e logico nel primo vangelo; invece negli altri due il lettore trova un po' difficile interpretare un riassunto ". Infatti: l'omissione di queste parole " fa si che nel terzo vangelo il v. 21 si colleghi a stento a ciò che segue " (A. Durand, Evangile selon saint Mallhieu in Verbum Salutis, Parigi 1924, p. 277). Ammettiamo quindi che nulla autorizza a rifiutare come secondario il racconto di Matteo. Per la questione del primato e una precisazione sulle allegazioni moderne si veda H. Dieckmann, Neuere Ansichten uber die Echthei der Primalstelle, Mt. XVI, 17 ss. (Nuove opinioni sopra la genuinità della pericope relativa al primato) in Biblica, t. IV, 1939, pp. 169-200.

Ammesso che il testo di Matteo meriti fede, è necessario che ci vediamo una confessione della divinità di Gesù? A favore di questo riconoscimento si argomenta cosi: Lo Sarebbe strano che gli apostoli, vivendo nell'intimità del Maestro, non avessero compreso il titolo di Figlio che egli applicava in modo speciale a se stesso. - 2.0 Dopo la tempesta sedata, i dodici " adorarono " Gesù e proclamarono " tu sei veramente il Figlio di Dio " (Mt. 14, 33) dichiarazione che, messa a confronto con quella di Filippo è a come l'alba davanti al giorno ", dice Durand op. cit., p. 276. - 3.o Se Pietro riceve le felicitazioni del Maestro e se il Maestro proclama che solo la rivelazione divina potè aprirgli le profondità d'un tale segreto, ciò significa che Pietro ha fatto una professione veramente straordinaria, in armonia col riconoscimento d'un Messia divino. Per questo la maggior parte degli autori cattolici e un numero molto importante di protestanti ammettono che Pietro riconobbe la natura divina di Gesù. Vi sono però delle sfumature. Durand (Evangile selon saint Matthieu, p. 276) ci vede " l'espressione chiara, ferma, autentica " della divinità di Gesù; per il P. Lagrange a Pietro, aggiungendo l'articolo e la qualifica di Figlio del Dio vivo, professa con la chiarezza che gli è possibile, l'origine divina di Gesù, che possiede la natura dell'essere infinito, il quale ha la vita e la può trasmettere " (Evangile selon saint Matthieu, p. 322); il P. Lebreton (Orìgines, p. 295) stabilisce in primo luogo che Pietro prima di tutto riconobbe e proclamò la messianità di Gesù, poi che questo messianismo è il vero, cioè religioso e divino (p. 316); Dausch (Die drei altere Evangelien, [I tre vangeli più antichi] p. 236) pur ammettendo che la messianità è l'oggetto primario della confessione di Pietro, fa notare che la dignità di Gesù proviene dalla divina sua origine e natura, aggiungendo die " il segreto della persona di Gesù fu pienamente e veramente penetrato solo attraverso la resurrezione del Signore ". Tuttavia Tillmann, (Methodlsches und Sachliches tur Darstellung der Gotteit Christi nach dem Synoptikern gegenùber der modernen Kritik, [Metodo e realtà nella dimostrazione della divinità di Cristo secondo i Sinottici contro i critici moderni] in Biblische Zeitschrift, t. vili, 1910, p. 254) nelle parole di Pietro vuole vedere soltanto un riconoscimento della messianità.

Il giudizio di Tillmann è troppo assoluto. Scrivendo il suo vangelo Matteo usava l'espressione Figlio di Dio in senso metafisico e forse opponeva le due espressioni: Figlio dell'uomo e Figlio di Dio. È questo un dato iniziale, da cui non ci si deve allontanare; ma egli attribuisce la chiara visione di questo a Pietro nel momento della confessione? Il P. Lagrange dice molto esattamente che Pietro proclama la divinità " con la chiarezza che gli era possibile ", perché per lui Gesù non è un uomo come un altro, ha rapporti unici con Dio, di cui si dice " il Figlio " in un modo diverso da quello di tutti gli uomini; è dotato di una potenza miracolosa, di un potere spirituale straordinario; è il messia che col suo carattere speciale compensa la mancanza di regalità temporale sempre sperata. Le folle non comprendono o fraintendono la natura d'una personalità tanto complessa; gli apostoli non arrivano fino in fondo al mistero che solo il Padre può rivelare e chi riceve tale comunicazione è beato; su di lui poggerà l'edificio contro il quale gli assalti dell'inferno non prevarranno mai. C'è un termine solo per tradurre la trascendenza, la singolarità, l'appartenenza del Messia a Dio: egli è "Figlio di Dio". Più tardi lo Spirito scoprirà la profondità della rivelazione del Padre; intanto nei Dodici, assieme alla fede incrollabile nella messianità, scende il segreto dell'intima natura del Maestro. Il ricordo del grido spontaneo di Pietro e il ricordo dell'approvazione di Gesù rimarranno negli apostoli come un primo raggio proveniente da Dio, che poi irradierà il cristianesimo nascente.

§ 2. - Il " logìon " giovanneo.

1. Il testo. - Matteo, 11, 25-30: " In quel tempo Gesù prese a dire: "lo ti lodo e ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai saggi e agli scaltri, e le hai rivelate ai semplici. SI, o Padre, perché cosi ti è piaciuto. Ogni cosa a me fu data dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; né alcuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed aggravati, e io vi darò sollievo. Prendete su di voi il mio giogo e apprendete da me, che sono mite e umile di cuore, e cosi troverete conforto alle anime vostre: poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero". Luca, 10, 21-22. " In quel momento Gesù esultò d'allegrezza per virtù dello Spirito Santo e disse: "Io ti lodo e ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute queste cose nascoste ai saggi e agli scaltri, e le hai rivelate ai semplici. SI, o Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa è stata data a me dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre: né chi è il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo" ".

2. L'autenticità. -L'autenticità parziale o totale di questi passi fu messa in dubbio da J. Wellhausen, Dos Evangelium Mallhaei, Berlino, 1904; A. Loisy, Les Evangiles synopliques, Ceffonds 1907-1908, 1.1, pp. 905-315; A. von Harnack Spriiche und Reden Jesu, (Detti e sermoni di Gesù) Lipsia 1907, pp. 189-216; E. Norden, Agnostos Theos, Lipsia 1913, pp. 277-308; R. Bultmann, Die Geschi-chle der Synoptischen Tradilion, (Storia della tradizione sinottica) 2.a ed. Got-tinga. 1932. Autori cattolici e protestanti la difesero energicamente: M. J. La-grange, Evangile selon saint Lue, Parigi 1924, pp. 300-301; id., Evangile selon saint Mallhieu, Parigi 1924, pp. 226-230; J. Lebreton, Orìgines du Dogme de la Trinile, 7.a ed. Parigi 1927, pp. 591-598; A. H. Neile, The Gospel according to S. Matthew, Londra 1915, pp. 163-167; Weiss, Das Logion Mt. Il, 25-30, in Festschrift G. Heinrici, Lipsia 1914, pp. 120-129; E. KÌostermann, Das Matlhaus-evangelium, Tubinga 1927, pp. 101-104; H. Schumacher, Die Selbsloffenbarung Jesu bei Mt., 11, 27; Le. 10, 22, (La autorivelazione di Gesù in Matteo e in Luca), in Biblische Studìen, Friburgo in Br., 1922.

I critici usarono argomenti molto speciosi e a riassumerli senza entrare nei particolari, c'è pericolo di darne solo una confutazione imperfetta; quindi è meglio rimandare agli studi speciali ricordati, specialmente a quello di H. Schumacher, J. Lebreton, e M. J. Lagrange. Accettiamo la conclusione del P. Lebreton (o. e, pp. 597-598): "Da tutti questi rilievi si conclude che il nostro testo di Mt. 11, 25-27 e di Le. 10, 21-22 è davvero il testo autentico dei due Vangeli. L'identità delle due redazioni ci costringe a risalire a una fonte comune e il dettaglio dell'espressione indica una fonte aramaica".

3. Il significato. - A questa pericope fu dato il nome di e logion giovan-neo " perché tale preghiera di ringraziamento di Gesù per una rivelazione fatta agli uomini ha una tonalità che ricorda quella del quarto vangelo. È infatti " la perla più preziosa di Matteo " (Lagrange, Saint Matthieu; p. 226). Gesù, il Figlio, afferma che:
1.o tutto gli è stato trasmesso dal Padre suo;
2.o la conoscenza che il Figlio ha del Padre è uguale a quella del Padre verso il Figlio;
3.o nessuno fuori del Padre e del Figlio ha questa conoscenza;
4.o per mezzo di lui viene agli uomini la conoscenza del Padre e di tutto quello che il Padre gli ha trasmesso;
5.0 gli uomini in lui troveranno il rivelatore divino, forza e consolazione.

Non è necessario far notare che qui Gesù si pone su un piano d'eguaglianza col Padre e che quest'uguaglianza porta su ciò che l'essere ha di più intimo: la conoscenza. In Matteo Gesù si chiama "Figlio" tre volte, e dopo aver detto " Padre " ripete per due volte " il Padre ". Quest'insistenza sulle relazioni tra Padre e Figlio, sulla conoscenza, oggetto di queste relazioni, e sulla rivelazione e la salute, ci fa entrare nell'intimità del Figlio. Nessuno può riservare la conoscenza del proprio essere a Dio e pretendere di conoscere Dio come viene conosciuto da Lui, senz'essere Dio stesso. " Basterebbe questa sola parola a determinare il domma cristiano, a fare riconoscere nel Figlio di Dio non un essere intermediario, come lo aveva concepito Filone, ma il Figlio eguale e consustanziale al Padre suo; san Paolo e san Giovanni completeranno con altre linee questa rivelazione di Cristo ma non la supereranno " (Lebreton, p. 308).

§ 3. - La confessione davanti al Sommo Sacerdote.

1. Il testo. - Mt. 26, 63-65 " Ma Gesù taceva. E il sommo sacerdote: "Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio". Gesù gli rispose: "Tu l'hai detto; anzi, vi dico che d'ora in poi vedrete il Figliuol dell'uomo seduto alla destra della Potenza (di Dio) venire sopra le nubi del cielo". Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: "Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo più di testimoni? Ecco, ora voi avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?" ". I luoghi paralleli di Marco (14, 61-64) e Luca (22, 66-71) non apportano nessun cambiamento essenziale alla narrazione di Matteo. In Marco l'interrogazione è equivalente: "il Cristo, il Figlio del Benedetto", e più forte in Luca, che sopprime il "Cristo " per conservare solo: " il Figlio di Dio "

 

2. Il significato. - Gesù poteva essere consegnato ai Romani soltanto dopo un giudizio di morte del sommo sacerdote Caifa. La sentenza è decisa in anticipo, ma la procedura esige la comparsa dell'accusato, la deposizione di due testi e la sentenza. Nell'assemblea riunita affrettatamente si fini col trovare due testi che accusarono Gesù di aver voluto distruggere il tempio, ma il Maestro non si degnò di rispondere a questi infelici; il sommo sacerdote vede chiaro che sarebbe un'ingiustizia troppo clamorosa prestare fede a testimonianze contraddittorie e si decide a vincere il mutismo di Gesù, scongiurandolo in nome del Dio vivo; davanti alla legittima domanda del sommo sacerdote Gesù confessa di essere realmente il Cristo, il Figlio di Dio. La risposta dispensa da ogni inchiesta ulteriore; è il suo decreto di morte. Che cosa voleva dire Caifa domandando a Gesù se egli era il Cristo, il Figlio di Dio? Voleva forzare il Maestro e confessare la sua messianità, oppure a questa dichiarazione aggiungeva quella della filiazione divina?

Non occorre dire che Caifa capisse pienamente le parole che usava; ma, in ogni modo, nelle sue labbra " Figlio di Dio " non è sinonimo di Messia. La tradizione giudaica non ha mai accertato che Messia e Figlio di Dio siano sinonimi poiché al Messia non è dato questo titolo. Perciò Caifa non fa altro che riprendere una formula ripetuta dai discepoli e lanciata da Gesù stesso e che sarà ripetuta a Pilato. " Egli si è fatto il Figlio di Dio e, secondo la nostra legge, deve morire " (Gv. 19, 7); il centurione dirà: " Quest'uomo era davvero Figlio di Dio " (Me. 15, 39). Né Caifa, né i discepoli, né Gesù potevano asserire un'equivalenza tra Figlio di Dio e Messia, perché rivendicare il titolo di Messia non era una bestemmia, come non lo era reclamare Dio come Padre nel senso morale e religioso. Caifa " aveva scelto una formula che Gesù non poteva rifiutare senza rinnegare la propria vita, né adottare senza farsi condannare per bestemmia " (Lebreton, o. e, p. 328). M. Goguel (La Vie de Jésus, Parigi, 1932) riconosce il vero significato di questa dichiarazione.

Conclusione. - Matteo in occasione della confessione di Cesarea, Matteo e Luca nell'inno di giubilo, Matteo, Luca e Marco nella descrizione del giudizio di Gesù attribuiscono a Gesù, almeno equivalentemente, una dichiarazione d'identità sovrumana, divina, e Cristo legò a queste rivelazioni la fondazione della sua Chiesa su Pietro, l'appello all'inesauribile tesoro della "sua bontà e l'annuncio del giudizio del mondo. Quelli che ne furono testimoni fissarono questi detti come una base per la loro fede, un motivo di speranza e una sorgente d'amore. Il cristianesimo nacque e visse di essi, per essi si diffuse. Quando gli evangelisti scrivono, sull'esempio di Gesù, cristiani e apostoli hanno già dato la loro vita per affermare, come lui e per lui, questa certezza riguardo alla filiazione divina.