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2 - IO TI HO SCELTO (1s42,6)

Iniziava qualcosa di grande


Intanto il disegno di Dio si svolgeva gradatamente e l'estate del 1930 fu decisiva per Carletto, che aveva ormai nove anni. Don Busa­to, un Salesiano del paese, venuto a trascorrere qualche tempo in fa­miglia, notò subito in quel fanciullo esilino ma volitivo, un'anima pron­ta e disponibile alla chiamata del Signore e propose di portarlo nel collegio-aspirantato salesiano di Trento.

La mamma ne fu subito contenta: vedeva che quel figlio era per il Signore, del resto gliel'aveva sempre detto fin da piccolino che vole­va farsi prete. In collegio inoltre avrebbe avuto qualche boccone in più e non avrebbe patito tanto freddo, lui che era soggetto a bronchi­ti: cose tutte che contavano per una mamma costretta dalla povertà a vedere i suoi bambini nella privazione, senza poterli soccorrere. Mam­ma Augusta vide in questa proposta la mano della Provvidenza. Il papà invece non si rassegnava a perdere il suo primogenito da cui sperava un valido aiuto e inoltre diceva: «Se va prete, perdo la discendenza». Ma in fondo anche lui voleva il vero bene dei figli e la volontà di Dio e non mise ostacoli alla sua partenza.

Carletto era fuori di sé dalla gioia. Sentiva che iniziava qualcosa di nuovo e di grande per lui: andava nella « Casa della Madonna » co­me gli aveva detto Don Busato (così infatti Don Bosco chiamava ogni casa salesiana). Con la Madonna, a cui aveva affidato tutta la sua vi­ta, si sarebbe preparato a diventare un santo Sacerdote. Non deside­rava di più. Partì con entusiasmo nel settembre del 1930 assieme ad altri due o tre ragazzi di paesi vicini, accompagnati in una specie di pulmino dal signor Checco de Moro.

All'Istituto "Maria Ausiliatrice" di Trento Carletto fu accolto pa­ternamente dal direttore Don Ghibaudo che, conosciute le sue condi­zioni di famiglia, gli abbassò quasi del tutto la retta; la mamma dava ogni tanto qualcosa, quel poco che riusciva con sacrificio a mettere da parte.

In un clima di preghiera e di gioia voluto da Don Bosco perché i suoi giovani fossero sempre allegri e in Grazia, Carletto si trovò a suo agio. La Congregazione Salesiana diventerà la sua seconda fami­glia intensamente amata fino alla fine.

Nelle omelie dei Superiori, nelle buone notti, nei momenti di pre­ghiera imparò ad approfondire il suo amore per Gesù Eucaristia, per la Madonna, per la Chiesa e il Papa, e scoprì sempre più la grandezza della vita sacramentale.

Gli piaceva quel fare anche le cose più serie e impegnate nel modo più semplice e sereno, nello spirito di famiglia. Così era lo stile deli­neato da Don Bosco e ad attuarlo lì nell'Istituto di Trento influirono molto alcuni vecchi salesiani che avevano conosciuto il Santo Fonda­tore: Don Rigoni, presente al miracolo della moltiplicazione delle ca­stagne; Don Olgiati che ricordava di aver visto il volto del Santo, lu­minoso e assorto, nella moltiplicazione dei pani; Don Stefanelli, un grande missionario mandato da Don Bosco stesso tra gli Indios.

Carletto era avido di sentirli raccontare. Il santo educatore dei gio­vani lo entusiasmava per la sua spiritualità semplice e profonda, per la sua passione di portare le anime giovanili a Gesù. Da Salesiano scri­verà molto su Don Bosco delineando con accenti caldi e penetranti i punti salienti della sua spiritualità e della sua azione educativa e pa­storale.



Non era più il bambino "tutto spirito"

Carletto si immerse nel nuovo genere di vita con il suo solito gioioso tuffarsi con intensità nel presente, ma qualcosa in lui stava cambian­do. Non era più il bambino irrequieto, « tutto spirito » come lo defini­va la mamma: iniziava in lui un processo di interiorizzazione, di pro­fondità spirituale che lo porterà, attraverso gli anni della formazione, a un alto grado di unione con Dio.

Un suo compagno di studi del ginnasio ci offre una preziosa testi­monianza di questi anni che potremmo paragonare al tempo della vi­ta nascosta di Gesù a Nazaret.

« Le cose grandi maturano sempre nel silenzio e nel nascondimen­to » disse più volte Don Carlo; lo aveva egli stesso sperimentato. Ecco dunque quanto dice quel suo compagno: « Ho conosciuto Car­lo De Ambrogio (in collegio ci si chiamava regolarmente per cognome, solo tra amici si usava il nome) nel settembre 1930, quando siamo entrati insieme (eravamo della stessa età) all'Istituto Maria Ausiliatri­ce di Via Barbacovi a Trento, per frequentare la 5a elementare.

Non ho precisi ricordi di quell'incontro né di quel primo anno. Car­letto, così lo chiamavo, non aveva caratteristiche da richiamare l'at­tenzione: era minuto, esilino; ma non ricordo che fosse malaticcio, se non forse per ripetuti mal di gola: portava fino a primavera un cra­vattone di lana.

Non ho mai saputo, o non ricordo, da che famiglia provenisse: de­corosa, non ricca, almeno a giudicare dai vestiti sempre in ordine, ma non vistosi come altri compagni portavano.

Ricordo la sua fierezza di essere vicentino; quando uscivamo alla passeggiata del giovedì pomeriggio per le vie di Trento, faceva conti­nui confronti con la maggior importanza di strade e case della sua Vi­cenza; ed io, che ero di Trento, ne rimanevo un po' indispettito.

Fin dai primi mesi andò a lezioni di pianoforte da Don Attilio An­gelini, con Angelo Paganella; evidentemente la musica l'aveva sem­pre avuta nel sangue. Eravamo insieme cantori; ricordo come si can­tava di gusto specialmente nelle annuali esibizioni dell'operetta ("Oc­chio di Falco" - "Menestrello della Morte" - "Il cieco di Gerico" - "Gara in montagna" ... ). Negli ultimi anni accompagnava al piano­forte le nostre esibizioni di fine anno. Non erano ormai più solo le sonatine di Clementi; gli ultimi anni, quando avevamo un po' più di libertà, andavo qualche volta, durante la ricreazione delle quattro, a sentirlo e a battergli il tempo: allora conobbi per la prima volta Cho­pin, Mozart, Beethoven e Liszt. Da allora, sempre, quando sento una Rapsodia Ungherese, una Polacca, la Patetica chiudo gli occhi e lo rivedo attento allo spartito con la gioia di trasmettere la sua gioia. La comune sensibilità musicale fu, forse, il nostro legame più stretto.

Molti anni dopo (eravamo a Praglia per la Prima Teologia) avem­mo frequenti conversazioni in materia: mi istruiva sul valore univer­sale della musica, linguaggio comune a tutte le lingue, sempre mezzo solo di unione fra i popoli, sempre immediato strumento di elevazio­ne ad un piano superiore. Forse mi ripeteva concetti ricavati da lettu­re; ma li esponeva con la convinzione e la foga di chi scava nel pro­prio animo e dà alla luce una sua creatura, una sua intuizione. Riascoltando le musicassette Gam, rivedo il suo volto illuminarsi condividendo con Bach o Beethoven la soddisfazione della creazione lirica. Non so quale atteggiamento abbia poi tenuto verso la "musica moderna", non riesco ad immaginargli che una benevola soppor­tazione.



Vinceva sempre lui e... ci teneva

Era sempre molto attento a scuola e, dotato di memoria superiore alla media, non faceva fatica a collegare e fissare le varie nozioni. Ri­cordo una rinnovata discussione (si era in 5° ginnasio) sulla superiori­tà del ragionamento (che io sostenevo) o della memoria. Egli infatti sosteneva che una buona memoria interiorizzata e illuminata dalla lo­gica, fosse più utile del semplice ragionamento. Non riuscì allora a convincermi della sua tesi. Solo in seguito, nelle varie necessità della vita e dell'insegnamento riconobbi che aveva ragione. Questa sua vi­vace memoria lo aiutò molto nello studio. Non ricordo che fosse sem­pre il primo nelle classifiche di fine anno; solo nelle gare di religione (si studiava allora a memoria il piccolo Catechismo di S. Pio X) vin­ceva sempre lui, e ci teneva.

Nel gioco era sempre impegnato, anche se non con prestazioni vi­stose. Era assai agile, aveva scatto ma non resistenza. Di voce delica­ta, aveva per natura un contegno che sembrava timido e rassegnato ma non rinunciatario. Faceva valere le sue ragioni con fermezza, mai con prepotenza.

In chiesa aveva un contegno serio, ma non sdolcinato. Ricordo al­tri compagni che passavano per "sanluigi" con pose mistiche, mentre lui fu sempre normale. Lo ebbi spesso compagno di banco in chiesa. Pregava, con tutti insieme, sottovoce, composto, ma non compunto. Era di gradevole compagnia, cordiale, pronto allo scherzo rispettoso, allo sgambetto anche, fra amici, quando si camminava insieme.



Queste parole non si dicono

Di particolare pulizia verbale. Eravamo già adolescenti, un giorno mi sgridò (ricordo chiaramente l'ora e il posto preciso) quando gli dissi ridendo un'espressione un po' volgare in uso dalle nostre parti. Si fe­ce di colpo serio e mi ammonì: "Queste parole non si dicono". Rimasi interdetto perché, anche con mia madre, avevo sempre usato la fra­se senza saperne il senso letterale. Da allora divenni anch'io più atten­to ad un esame preventivo di molte locuzioni.

Leggeva moltissimo. Ricordo, al ritorno dalle vacanze dopo la 4a ginnasio, durante i primi scambi di notizie sui fatti estivi, mi riferì su­bito il contenuto di un libro che gli era piaciuto. Era la narrazione della vita di una squadra di calcio di ragazzi particolarmente abili nel pal­leggio stretto e nell'intesa reciproca, tanto da non permettere agli av­versari di toccare il pallone, ottenendo quindi risultati favorevoli ad ogni incontro. Sono passati cinquant'anni, il calcio ha fatto bei pro­gressi, ma non ho mai dimenticato la ricchezza dei particolari, la vi­vezza degli occhi nel riferire le cose lette.

In collegio, in ogni classe, c'è sempre il "beniamino" degli inse­gnanti. Lui forse lo fu talvolta; ma non se ne vantò mai né se ne ap­profittò. Ricordo sospetti ed insinuazioni su altri egualmente preferi­ti; mai su di lui. Si faceva benvolere da tutti proprio per la sua riser­vatezza; non si vantava né si metteva in mostra pur avendone motivo, come quando si esibiva al pianoforte o veniva premiato.

Con me aveva molto tatto nei frequenti richiami ad un maggiore impegno nello studio; la sua cortesia in questo mi faceva ottenere qual­che miglioramento, più dei richiami degli insegnanti.

Più avanti i ricordi si fanno confusi. Cominciavo a vederlo più ri­servato, quasi più astratto. Aveva una forte vita interiore, ed i miei contatti con lui si fecero più sfiorati, quasi di striscio.

Mi dispiace moltissimo di non averlo potuto in seguito avvicinare di più che in brevi incontri. Fra i compagni di scuola fu quello con cui ebbi contatto umano più amichevole ed utile.

Grazie alle musicassette Gam lo sento ancora amico, e del bene me ne fa ancora tanto».



Arrivederci a Torino

Tali ricordi e impressioni collimano in pieno con quelli del geome­tra B., un altro compagno degli anni di formazione dal 1931 al 1937. Abitava a Velo D'Astico, a un chilometro da Arsiero, e questo servì non poco a stringere legami di familiarità e di amicizia, tanto più che le due mamme s'incontravano spesso avendo in comune le stesse an­sie e preoccupazioni e quella punta di nostalgia insopprimibile per il posto vuoto lasciato dai loro ragazzi.

In particolare Carletto ne aveva lasciato uno grande in famiglia per la sua bontà ed esuberanza gioiosa che contagiava. « Carlo era sem­pre molto affettuoso, in particolare con la mamma, molto compren­sivo nei suoi riguardi, non le dava mai motivo di sofferenza » afferma la sorella Renata. La mamma accettava anche il sacrificio della sua lontananza, purché fosse del Signore e fosse contento.

« Stravedeva per quel figlio - dice il sig. Brunello che la conobbe nei frequenti contatti -. Aveva per lui un amore indescrivibile, uni­co, ed era contentissima che si facesse Sacerdote. Più tardi lo fu an­che il papà».

Le brevi puntate che faceva in famiglia nelle vacanze estive erano una festa per tutti. Svolti i suoi impegni di preghiera e di servizio, amava fare passeggiate ed escursioni con i compagni sulle sue montagne: il Cimone, il Sumano, il Priaforà, il Caviojo ecc. Conserverà sempre uno spiccato amore alla montagna che dalla meditazione dei testi bi­blici, soprattutto dell'Esodo, aveva scoperto come «il luogo per ec­cellenza dell'incontro con Dio». Le vette lo attiravano - segno del suo spirito tutto proteso verso l'alto - e da adolescente compì con i Salesiani anche delle vere scalate sulle Dolomiti.

Nel periodo estivo del 1932 avvenne un piccolo episodio un po' singolare. Aveva allora 11 anni. Un giorno andando con la mamma a fare delle spese, incontrarono in treno, nello stesso scompartimento un'altra mamma con la sua bimbetta di cinque anni. Le due mamme intrecciarono subito dei fitti discorsi di casa e Carletto, che si sentiva molto più grande, intratteneva la bimba con piccoli giochi. Al mo­mento di salutare, disse alla bimba: «Arrivederci a Torino. Tu allora sarai Suora e io Sacerdote». Esattamente 26 anni dopo, quella bam­bina, divenuta una Suora del Cottolengo di Torino, andrà a confes­sarsi da Don Carlo.

Profezia? Di fatto si riscontrano qua e là negli anni della sua mis­sione di Sacerdote vari episodi di profezie avveratesi. Quando glielo si faceva notare, egli dissimulava sorridendo e diceva: «La Mamma a volte mi fa dire delle cose che poi, non so come, si avverano. Io le dico così... e poi si realizzano davvero. Ma è Lei che fa! ».

Per lui contava però quello che chiamava sempre: «il vero spirito di profezia », cioè l'annuncio della Parola di Dio. « II profeta - diceva - è uno che parla a nome di Dio, che diffonde la Parola stessa di Dio ».

E lanciando i giovani Gam all'evangelizzazione metterà in luce la promessa del Signore nel profeta Gioele: « Io effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie» (3,1).

E si fonderà sull'affermazione del Concilio Vaticano II che sotto­linea come tutti i laici «dopo essere stati incorporati a Cristo nel Bat­tesimo e costituiti Popolo di Dio, sono resi partecipi - nella loro mi­sura - dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo» (Lumen Gentium, n. 31 a).



Quella veste sacerdotale tanto attesa

Nell'aspirantato di Trento Carletto rimase un anno in più dei suoi compagni perché troppo giovane per accedere al noviziato. Anche que­sto fu provvidenziale, come sottolineò più volte egli stesso, perché poté approfondire meglio lo studio del greco alla scuola di Don Ponzio, un validissimo insegnante di greco e latino, allievo del Carducci. Que­ste solide basi gli serviranno in seguito per accostare e tradurre diret­tamente dal greco i testi originali della Parola di Dio, soprattutto i quattro Vangeli, le Lettere di S. Paolo e di S. Giovanni, l'Apocalisse.

A quindici anni Carletto entrò nel Noviziato Salesiano di Este (Pa­dova). Alla cerimonia della vestizione erano presenti la mamma che non poteva trattenere le lacrime dalla gioia, e la sorellina Lucia di sei anni. Papà era assente per lavoro e Renata era a casa con il fratellino Egidio nato da poco.

All'altare Carlo ricevette, assieme a una cinquantina di suoi com­pagni, la nera talare benedetta. Aveva tanto desiderato quella lunga veste sacerdotale. La baciò, la indossò con venerazione e gratitudine e da quel giorno non la toglierà più, neppure quando, anni dopo, farà dei lunghi e disagevoli viaggi in India e in Oriente. Era per lui segno della tunica sacerdotale di Cristo e della sua totale appartenenza a Lui e alla Chiesa.

Il Maestro dei Novizi, Don Manzoni, una figura di asceta, di pro­fonda vita interiore, si accorse subito della stoffa di quel novizio, esi­le e gracile, ma dotato di ferrea volontà e di slancio spirituale e comprese che con lui poteva puntare al massimo ed esigere tutto.

Don Carlo faceva tesoro di tutte le istruzioni sulle virtù e sui voti che il Maestro teneva ogni giorno, annotava i punti più salienti, ne faceva oggetto di meditazione, per tradurli in convinzioni personali e in vita pratica.

Soprattutto, come la Vergine in ascolto, meditava e conservava nel suo cuore ogni Parola di Dio; la leggeva e rileggeva con avidità in pre­ghiera e scopriva come ogni volta gli apriva nuovi e luminosi orizzonti.



Nel suo cuore l'offerta era per sempre

Sull'esempio dell'umile Serva del Signore coltivava in particolare l'umiltà, sapendo come questa virtù attirasse l'azione dello Spirito San­to e fosse il fondamento di ogni altra virtù, come dice S. Agostino: «Vuoi costruire un altissimo edificio? Comincia a scavare delle fon­damenta profonde ». Da Sacerdote ripeterà spesso questa frase, espres­sione del suo indirizzo spirituale: « Non ci può essere amore vero, se non è umile amore».

La Vergine dell'annunciazione era il suo modello per un sì di amore a Dio sempre nuovo, totale ed esclusivo in preparazione alla profes­sione religiosa.

E l'ora venne. Il 21 agosto, vigilia della festa di Maria Regina, Don Carlo si consacrava al Signore con il voto di castità, povertà e obbe­dienza; la formula era per un anno, ma nel suo cuore l'offerta era per sempre. Del resto Gesù e Maria erano i suoi amori da sempre.

Nel suo cuore generoso e ardente vi era anche il grande ideale di essere missionario per portare il Vangelo ai più poveri che ancora non lo conoscevano. Forse questo desiderio gli era nato quando da ragaz­zetto ascoltava nel collegio di Trento i racconti infuocati del missio­nario salesiano Don Stefanelli. Ne parlò con i Superiori, i quali rico­nobbero in quel giovane novizio umile e volitivo la stoffa del missio­nario. Occorreva però il permesso scritto dei genitori, ma questa vol­ta papà Pietro fu irremovibile: non se la sentiva proprio di non rive­dere più il suo amato Carletto. E così non se ne parlò più. Il disegno di Dio per lui era un altro: sarebbe stato missionario del Vangelo in Italia nell'ora in cui le tenebre del materialismo-ateo sarebbero state ancora più fitte di quelle del paganesimo. Con la sua evangelizzazione Don Carlo riaccenderà la fede spenta in tante anime, soprattutto tra i giovani.

Dopo la professione religiosa partì con i suoi compagni per lo stu­dentato filosofico di Foglizzo Canavese e due anni dopo diede con esito brillante l'esame di maturità classica. Lo studio e l'approfondimento culturale in lui non erano mai fine a se stessi, ma in vista del Regno di Dio; tutto per lui diventava segno o esplicitazione delle grandi real­tà racchiuse nella Parola di Dio.

Negli anni 1939 - 43 fu mandato prima a Legnago, poi a Verona e infine a Mogliano Veneto per il periodo del cosiddetto "tirocinio", in cui, a contatto con le attività specifiche della Congregazione, il gio­vane Salesiano verificava e collaudava la sua vocazione, imparando a unire la vita di preghiera e di unione con Dio con l'azione educativo­apostolica tra i giovani.

Don Carlo aveva allora solo diciotto anni, eppure all'esuberanza nell'animare il gioco o il canto dei ragazzi che gli erano affidati, uni­va un forte senso di responsabilità nell'assistenza e nell'insegnamento.

Soprattutto sentiva l'urgenza di portarli a Gesù: era questo lo sco­po del suo stare lì, in mezzo a loro. E usava lo stile semplice ed effica­ce della "parolina all'orecchio", insegnato da Don Bosco nel "Siste­ma preventivo". Nel pieno del gioco o nei momenti di passaggio avvi­cinava or l'uno or l'altro e gli diceva qualcosa che lo portasse ad ama­re Gesù e la Mamma Celeste: era una parola del Vangelo che lasciava in quelle anime giovanili una traccia incancellabile.



Il suo tutto era Gesù

Egli stesso trascriveva qualche parola di Gesù su un biglietto e la portava nel taschino interno della veste, dalla parte del cuore: piccole attenzioni e industrie di un'anima sensibile all'azione dello Spirito San­to. Viveva intensamente i tempi di preghiera. Adesso in mezzo all'at­tività ne sentiva ancor più l'urgenza e, per mantenere ininterrotta l'u­nione con Dio anche a scuola, in cortile, per la strada, si serviva delle giaculatorie ( = brevi preghiere e atti d'amore) che lui chiamava « pic­cole frecce di fuoco».

Questo amore di Dio tenuto sempre vivo, si riversava poi, oltre che nei giovani, anche nei Confratelli della Comunità che lo amavano molto per la sua gioiosa generosità, per quel suo costante sorriso, per l'atteggiamento discreto e riservato che lasciava agli altri lo spazio di esprimere se stessi, per il suo esempio di fervore che stimolava al be­ne. Da parte sua Don Carlo cercava di vedere in ogni fratello Gesù stesso e maturava in sé una sempre più delicata attenzione agli altri e la capacità di accoglierli e di amarli così com'erano.

Al termine dei quattro anni di tirocinio i Superiori lo ritennero idoneo alla vita salesiana e lo ammisero alla professione perpetua il 16 agosto 1943, il giorno dopo la solennità dell'Assunta. Aveva solo 22 anni e già si era spossessato della sua vita per farne dono totale ed esclusivo a Dio e alla sua dolcissima Mamma, « la Diletta del suo cuore» per sempre.

In preparazione all'ordinazione sacerdotale lo inviarono prima a Praglia, poi di nuovo a Mogliano Veneto e quindi a Monteortone per i corsi di teologia. Contemporaneamente portava avanti gli studi per la laurea in lettere all'università di Padova.

In questi quattro anni di preparazione immediata al Sacerdozio ma­turò in lui una più profonda interiorità che si intravedeva - come af­fermano i suoi compagni di studi - dal suo atteggiamento semplice e naturale, ma più raccolto e silenzioso, e dai suoi interventi e discorsi centrati su Gesù. Gesù era davvero "il tutto" della sua vita e a Lui orientava ogni cosa.



Berrò solo il vino della Messa

Un suo compagno di teologia che gli fu vicino in tutto il curricu­lum della formazione, notò che non prendeva mai vino a tavola, nep­pure nelle feste. Un giorno volle chiedergliene il motivo e Don Carlo rispose: « Non ho mai voluto prenderlo in vita mia. Berrò solo il vino della mia prima Messa ». Era così grande il Mistero Eucaristico ai suoi occhi che tutto era preparazione a quell'ora tanto desiderata di salire l'altare per celebrarlo. E berrà sempre e solo il vino eucaristico.

In questi quattro anni di teologia si dedicava molto alla lettura e allo studio di esegesi biblica per conoscere, penetrare e comprendere sempre meglio la Parola di Dio, e poiché a quel tempo scarseggiavano i libri di esegesi cattolica, sviscerava anche quelli di autori protestan­ti, confrontando tutto con il Magistero della Chiesa e tenendo ciò che era vero e buono.

Si applicava allo studio della teologia con l'anima in preghiera per interiorizzare e rendere vitali nello Spirito Santo verità e nozioni. Aveva fatta sua la preghiera di Salomone per chiedere al Padre il do­no della Sapienza: «Inviala dai cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso, perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica e io sappia ciò che ti è gradito.

Chi può rintracciare le cose del cielo? Chi ha conosciuto il tuo pensiero se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo Santo Spirito dall'alto? » (Sap 9,10.16-17). Molti anni dopo dirà: « La mistica, ossia l'esperienza intima di Dio, la preghiera che attira la presenza dello Spirito Santo con la sua un­zione spirituale, dovrebbero sempre impregnare, permeare tutta la teo­logia; altrimenti questa diventa pura teologia razionale che non co­struisce nulla, anzi disorienta».

È quanto lui aveva sempre fatto. Integrava lo studio strettamente necessario con la lettura di libri di ascetica e di biografie di santi, tra i quali preferiva i mistici: S. Francesco d'Assisi per il suo amore al Vangelo « sine glossa », S. Teresina del Bambino Gesù per la sua "pic­cola via" di amore e di abbandono al Padre, la beata Elisabetta della Trinità per l'intensa vita di contemplazione e di unione con i Tre.

Oltre a S. Giovanni Bosco - che egli amava per la sua anima di apostolo che sapeva fondere insieme contemplazione ed azione -, que­sti tre Santi influirono grandemente nella sua vita spirituale e nella spi­ritualità che sarà chiamato a trasmettere.

La Mamma Celeste lo guidava passo passo per formarlo secondo i suoi disegni.

Si servirà di questa fusione di Parola di Dio, di teologia, di ascetica e mistica, non solo per avanzare nell'intimità con Dio e nella santità, ma anche per guidare spiritualmente le migliaia di anime che incon­trerà nella sua missione sacerdotale, soprattutto religiose e claustrali, anime di intensa vita interiore che egli con semplicità lanciava a mète altissime.