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PARTE SECONDA: I SACRAMENTI


LA PENITENZA


239. Si deve sovente inculcare la dottrina
intorno alla Penitenza




Essendo notissime la debolezza e fragilità della natura umana, come ciascuno può facilmente sperimentare in se stesso, nessuno può disconoscere la grande necessità del sacramento della Penitenza. Che se lo zelo dei Pastori si deve misurare dall'importanza della materia da loro trattata, bisogna concludere che essi non saranno mai abbastanza zelanti nello spiegare questo argomento. Anzi, con tanto maggior diligenza si dovrà trattare di questo in confronto col Battesimo, in quanto il Battesimo si somministra una sola volta, né si può reiterare; mentre la Penitenza si può ricevere ed è necessario riceverla ogni volta che ci avvenga di ricadere nel peccato dopo il Battesimo. Perciò il concilio di Trento ha detto che il sacramento della Penitenza è cosi necessario per la salvezza di coloro che sono caduti in peccato dopo il Battesimo, come questo è necessario a quelli che non sono ancora rigenerati alla fede (Sess. 14, cap. 2). San Girolamo ha scritto quella notissima sentenza, approvata pienamente da quelli che hanno scritto di questo argomento sacro dopo di lui, che la Penitenza è la seconda tavola di salvezza (In Is 3,8). Come, infranta la nave, rimane una sola via di scampo, quella cioè di aggrapparsi a una tavola scampata al naufragio, cosi un volta perduta l'innocenza battesimale, se non si ricorre alla tavola della Penitenza, non v'è speranza di salvezza.

Queste considerazioni si rivolgono non solo ai Pastori ma a tutti i fedeli, affinché in materia cosi necessaria non pecchino di negligenza. Convinti dell'umana fragilità, il loro primo e più ardente desiderio sia di camminare nella via di Dio, col soccorso della sua grazia, senza inciampi né cadute. Ma se inciampassero, considerando subito la somma benignità di Dio, che da buon Pastore cura le ferite delle sue pecorelle e le risana (Ez 34,16), ricorreranno senza indugio a questa saluberrima medicina della Penitenza.

240. Veri significati del termine "Penitenza"


Per entrare subito in materia, spieghiamo innanzi tutto il valore e il significato del termine penitenza, per evitare che alcuno sia indotto in errore dall'ambiguità del vocabolo. Taluni intendono penitenza come soddisfazione; altri, ben lontani dalla dottrina Cattolica, la definiscono una nuova vita, ritenendo che non abbia alcuna relazione col passato. Bisogna adunque chiarire i significati di questo vocabolo.

Innanzi tutto diciamo che prova pentimento (o penitenza) chi si rammarica di una cosa, che prima gli era piaciuta, a parte la considerazione se fosse buona o cattiva. Tale è il pentimento di coloro la cui tristezza è di carattere mondano, e non secondo Dio; pentimento che arreca non la salute, ma la morte (2Co 7,10). Altra specie di pentimento è quello di coloro che si dolgono di un misfatto commesso e di cui si erano compiaciuti non per riguardo di Dio ma di se stessi (Mt 27,3). Una terza specie si ha quando non solo ci addoloriamo con intimo sentimento del peccato commesso, o ne mostriamo anche, qualche segno esterno, ma ci rammarichiamo principalmente per l'offesa di Dio (Jl 2,12).

A tutte e tre queste specie di dolore conviene propriamente il nome di penitenza; quando invece leggiamo nella Scrittura che Dio si pente, tale parola ha un valore metaforico, adattato alla maniera umana di parlare, che la Scrittura adopera come per dire che Dio ha mutato divisamente. Infatti in questo caso Dio sembra quasi agire alla maniera degli uomini, che, quando si pentono di qualche cosa, cercano con ogni studio di mutarla. In questo senso leggiamo che Dio si penti di avere creato l'uomo (Gn 6,6) e di aver eletto re Saul (1S 15,11).

Ma v'è una grande diversità tra queste tre specie di penitenza. La prima è difettosa, la seconda è l'afflizione di un animo commosso e turbato, solo la terza è nello stesso tempo una virtù e un sacramento; e di questa propriamente qui si tratta.

241. La penitenza in quanto virtù


Trattiamo prima di tutto della penitenza in quanto è una virtù, non solo perché il popolo deve essere dai suoi Pastori istruito intorno a ogni genere di virtù, ma anche perché gli atti di questa virtù offrono la materia riguardante il sacramento della Penitenza; sicché, se non si conosce prima bene che cosa sia la virtù della penitenza, si dovrà necessariamente ignorare l'efficacia di questo sacramento.

Bisogna adunque esortare dapprima i fedeli a fare ogni sforzo per raggiungere quella interiore penitenza dell'anima che noi chiamiamo virtù e senza la quale la penitenza esteriore riuscirà di ben poco giovamento. La penitenza interna è quella per la quale noi con tutto l'animo ci convertiamo a Dio e detestiamo profondamente i peccati commessi, proponendo insieme fermamente di emendare le nostre cattive abitudini e i costumi corrotti, fiduciosi di conseguire il perdono dalla misericordia di Dio. Si associa a questa penitenza, come compagna della detestazione del peccato, una dolorosa tristezza che è una vera affezione emotiva dell'animo e da molti viene chiamata passione. Perciò parecchi santi Padri definiscono la penitenza partendo da un cosi fatto tormento dell'anima. E tuttavia necessario che nel pentito la fede preceda la penitenza, perché nessuno può convertirsi a Dio senza la fede. Da ciò segue che a ragione non si può dire che la fede sia una parte della penitenza.

Che questa interiore penitenza sia una virtù, come abbiamo detto, è chiaramente dimostrato dai molti precetti che la riguardano (Mt 3,2 Mt 4,17 Mc 1,4 Mc 1,15 Lc 3,3 Ac 2,38). Poiché la legge ordina solo quegli atti che si esercitano mediante la virtù. Del resto nessuno vorrà negare che sia atto di virtù il dolersi nel tempo, nel modo e nella misura opportuna. E tutto questo ce lo insegna a dovere la virtù della penitenza. Spesso avviene infatti che gli uomini non si pentano dei peccati quanto dovrebbero; che anzi vi sono taluni, a detta di Salomone, che si rallegrano del male commesso (Pr 2,14); mentre vi sono altri che se ne affliggono cosi amaramente, da disperare di salvarsi. Tale sembra essere stato il caso di Caino che esclamo:Il mio peccato è più grande del perdono di Dio (Gn 4,13); e tale fu certamente quello di Giuda, il quale pentito, appendendosi al laccio, perdette insieme la vita e l'anima (Mt 27,3 Ac 1,18). La virtù della penitenza ci aiuta pertanto a conservare la giusta misura nel nostro dolore.

Il medesimo si deduce anche da quanto si propone come fine chi davvero si pente del peccato. Questi, infatti, prima vuoi cancellare la colpa e lavare tutte le macchie dell'anima; secondo, vuoi dare soddisfazione a Dio per i peccati commessi; il che è evidentemente un atto di giustizia. Poiché, sebbene tra Dio e gli uomini non possano esserci rapporti di vera e rigorosa giustizia, dato l'infinito abisso che li separa, pure taluno ve n'è, nel genere di quelli che si verificano tra padre e figli, tra padrone e servi; terzo, delibera di ritornare in grazia di Dio, nella cui inimicizia e disgrazia era caduto per motivo del peccato. Tutto ciò chiaramente mostra che la penitenza è una virtù.

242. I vari gradi per giungere alla penitenza


Importa anche insegnare ai fedeli attraverso quali gradini possiamo progredire in questa divina virtù.

Innanzi tutto la misericordia di Dio ci previene e converte a sé i nostri cuori. Questo domandava al Signore il profeta quando implorava: Convertici a te, o Signore, e saremo convertiti (Treni, 5,21).

Secondo: illuminati da questa luce, ci rivolgiamo a Dio sulle ali della fede, poiché, come afferma l'Apostolo, chi si accosta a Dio deve credere che Dio esiste e che è il rimuneratore di quelli che lo cercano (He 11,6). Terzo: segue il senso del timore, quando l'anima, considerando l'atrocità delle pene, si ritira dal peccato. A questo sembrano riferirsi le parole di Isaia: Come una donna incinta, prossima al parto, si lagna e grida fra le sue doglie, tali siamo noi (Is 26,17). Quarto: si aggiunge la speranza di impetrare la misericordia di Dio, sollevati dalla quale, risolviamo di emendare la vita e i costumi. Quinto: finalmente la carità infiamma i nostri cuori, e da essa scaturisce quel filiale timore che degnamente conviene a figli probi e assennati. Per essa, non temendo più che l'offesa della maestà di Dio, abbandoniamo del tutto l'abitudine del peccato.

Questi sono i gradi attraverso i quali si giunge alla più sublime virtù della penitenza, che agli occhi nostri deve apparire tutta celeste e divina. Infatti la sacra Scrittura le promette il regno dei cieli, come si legge in san Matteo: Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino (Mt 3,2 Mt 4,17); e in Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i peccati commessi e custodirà tutti i miei precetti, operando secondo il diritto e la giustizia, vivrà (Ez 18,21); e ancora: Non voglio la morte dell'empio, ma che si converta dalla sua via e viva (Ez 33,11). Le quali parole devono evidentemente riferirsi alla vita eterna e beata.

243. La Penitenza come sacramento


Circa la penitenza esteriore si deve insegnare che essa costituisce propriamente il sacramento e consiste in talune azioni esterne e sensibili, che esprimono quello che avviene nell'interno dell'anima. Innanzi tutto si deve spiegare ai fedeli perché Gesù Cristo ha messo la Penitenza nel novero dei sacramenti. Ciò è perché non avessimo più a dubitare della remissione dei peccati, da lui promessa con le parole citate: Se l'empio farà penitenza, ecc. Poiché se giustamente ciascuno deve temere del proprio giudizio sulle sue azioni, di necessità saremmo stati condotti a dubitare del nostro pentimento interiore. Ma il Signore, volendo rimediare a questa nostra ansietà, ha istituito il sacramento della Penitenza, per il quale, in virtù dell'assoluzione del sacerdote, noi fossimo certi della remissione dei nostri peccati, e la coscienza si calmasse in grazia della fede che dobbiamo avere nella virtù dei sacramenti. La parola del sacerdote che legittimamente assolve dai peccati avrà per noi lo stesso valore di quella che Gesù Cristo disse al paralitico: Confida figliuolo, che i tuoi peccati ti sono rimessi (Mt 9,2).
Inoltre poiché nessuno può conseguire la salvezza se non per Cristo e per i meriti della sua passione, era conveniente e assai utile per noi che venisse istituito questo sacramento per la cui efficacia il sangue di Cristo, scorrendo su di noi, lava i peccati commessi dopo il Battesimo, e ci obbliga cosi a riconoscere che soltanto al nostro divino Salvatore dobbiamo il beneficio della riconciliazione.

Che la Penitenza sia un vero sacramento i Parroci lo dimostreranno facilmente cosi: come è un sacramento il Battesimo, perché cancella tutti i peccati e specialmente quello originale, cosi lo è pure in senso pieno la Penitenza che toglie tutti i peccati commessi, o col desiderio, o con l'opera dopo il Battesimo. Di più (e questo è l'argomento principale), siccome gli atti esterni del penitente e del sacerdote indicano quel che avviene nell'interno dell'anima, chi vorrà negare che la Penitenza abbia vera e propria natura di sacramento? Il sacramento infatti è il segno di una cosa sacra: ora, il peccatore pentito esprime chiaramente con le parole e con gli atti di avere distaccato l'animo dal peccato. D'altra parte, dalle parole e dagli atti del sacerdote, facilmente rileviamo la misericordia di Dio che perdona quei peccati. Del resto, una prova chiara l'abbiamo nelle parole del Salvatore: Darò a te le chiavi del regno dei cieli; qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli (Mt 16,19). L'assoluzione pronunciata dal sacerdote esprime la remissione dei peccati che essa produce nell'anima.

Ma non basta insegnare ai fedeli che la Penitenza è un sacramento: occorre aggiungere che è uno di quelli che si possono ripetere. Infatti quando Pietro domando al Signore se doveva perdonare fino a sette volte un peccato, si ebbe per risposta: Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette (Mt 18,22). Pertanto, qualora si abbia a trattare con uomini che sembrino diffidare della somma bontà e clemenza di Dio, dovrà il loro animo esser rafforzato e sollevato alla speranza della grazia divina. Ciò sarà facile, illustrando questo ed altri passi numerosi della sacra Scrittura, e, insieme, allegando quei motivi e quelle argomentazioni, che si trovano nel trattato Sui caduti in peccato, di san Giovanni Crisostomo e in quello Sulla Penitenza, di sant'Agostino.

244. Materia della Penitenza


Ma poiché il popolo deve conoscere meglio di ogni altra cosa, la materia di questo sacramento, si dovrà insegnare che esso differisce dagli altri sopratutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di naturale, o di artificiale, della Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente: cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com'è stato dichiarato dal concilio di Trento (Sess. 14, Della Penit. e. 3 e can. 4).

Codesti atti vengono detti parti della Penitenza, in quanto si esigono per divina istituzione, nel penitente, per ottenere l'integrità del sacramento e una piena e perfetta remissione dei peccati. Son detti: quasi materia non perché non abbiano ragione di vera materia, ma perché non sono di quel genere di materia che esteriormente si adopera, come l'acqua nel Battesimo e il crisma nella Confermazione. Né, a intender bene, hanno affermato cosa diversa coloro, che hanno detto essere i peccati la materia propria di questo sacramento: perché, come diciamo che le legna sono materia del fuoco, perché dal fuoco sono consumate, cosi a buon diritto possiamo dire che i peccati sono materia della Penitenza, perché dalla Penitenza vengono cancellati.

245. Forma della Penitenza


Né dovranno i Pastori tralasciar di spiegare la forma del sacramento, perché questa conoscenza ecciterà gli animi dei fedeli a riceverne con gran devozione la grazia che gli è propria. La forma è la seguente: " Io ti assolvo ", come si ricava non solo da quelle parole: Quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo (Mt 18,18), ma anche dall'insegnamento di Gesù Cristo tramandatoci dagli Apostoli. E poiché i sacramenti significano quel che operano, le parole " Io ti assolvo ", mostrano che la remissione dei peccati avviene mediante l'amministrazione di questo sacramento. E chiaro dunque che questa è la forma perfetta della Penitenza, in quanto i peccati sono quasi lacci che tengono avvinte le anime, e da cui si liberano col sacramento della Penitenza. Si noti anzi che il sacerdote pronunzia con eguale verità la forma anche su di un penitente che, mosso da contrizione perfetta, accompagnata dal desiderio di confessarsi, abbia già ottenuto da Dio il perdono dei peccati.

Si aggiungono a queste parole varie preghiere, non necessarie alla forma del sacramento, ma dirette ad allontanare tutto ciò che potrebbe impedirne la virtù e l'efficacia per difetto di chi lo riceve.

Grazie infinite rendano dunque i peccatori a Dio che ha conferito ai suoi sacerdoti una cosi ampia potestà nella Chiesa. Oggi i sacerdoti non hanno soltanto il potere di dichiarare il penitente assolto dai peccati, come quelli del vecchio Testamento che si limitavano a testificare che il lebbroso era guarito dal suo male (L. 13), ma lo assolvono veramente, come ministri di Dio il quale opera lui stesso principalmente, essendo autore e padre della grazia e della giustizia.

I fedeli osserveranno con cura anche i riti propri di questo sacramento. Cosi avranno più altamente scolpito nell'animo ciò che hanno conseguito in questo sacramento: la riconciliazione, cioè, di loro, servi, con un Padrone clementissimo; o piuttosto, di figlioli, con un ottimo Padre; e comprenderanno meglio quel che convenga fare a coloro che vogliono (e tutti devono volerlo) mostrarsi grati e memori di tanto beneficio. Colui che si pente dei peccati, si getta con animo umile e dimesso ai piedi del sacerdote, per riconoscere, mentre compie quest'atto di umiltà, che si devono estirpare le radici della superbia, da cui hanno principio e origine tutti quei peccati che piange e detesta. Nel sacerdote, che siede come suo legittimo giudice, riconosce la persona e la potestà di Gesù Cristo, poiché il sacerdote nell'amministrare la Penitenza, come pure gli altri sacramenti, tiene il luogo di Cristo. Dopo di che il penitente enumera tutti i suoi peccati, riconoscendo di meritare le pene più grandi ed acerbe, e ne domanda supplichevole il perdono. In san Dionigi si trovano le più chiare testimonianze sull'antichità di tutte queste pratiche.

246. Effetti della Penitenza


Ma nulla gioverà tanto ai fedeli e desterà in essi il vivo desiderio di appressarsi alla Penitenza, quanto la frequente spiegazione della sua utilità fatta dal Parroco; vedranno allora quanto giustamente si possa dire della Penitenza che se sono amare le sue radici, dolcissimi ne sono i frutti.

Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in grande amicizia. Ne segue, massime negli uomini pii che la ricevono con santa devozione, una ineffabile pace e tranquillità di coscienza accompagnate da viva gioia spirituale. Infatti non c'è colpa per quanto grave ed empia, che non si cancelli grazie alla Penitenza; e non una sola volta, ma molte e molte volte. Al quale proposito cosi parla il Signore per bocca di Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, osserverà i miei precetti e praticherà il giudizio e la giustizia, vivrà e non morrà, né io mi ricorderò delle iniquità da lui commesse (Ez 18,21). E san Giovanni: Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto, e ce li perdonerà (1Jn 1,9). E poco più oltre: Se taluno avrà peccato - si noti che non eccettua nessun genere di peccato -, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto, il quale è propiziazione per i nostri peccati; né solamente per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo (I Jn 2,1,2).

E se leggiamo nella Scrittura che alcuni non hanno ricevuto misericordia da Dio, pur avendola caldamente implorata (2M 2M 9,13 He 12,17), ciò avvenne perché essi non erano pentiti di vero cuore dei loro misfatti. Perciò quando occorrono nella Scrittura o nei Padri frasi che sembrano affermare che per alcuni peccati non c'è remissione (1S 2,25 Mt 12,31 He 6,4 He 10,26), bisogna intenderle nel senso che il loro perdono è oltremodo difficile. Come infatti una malattia viene detta insanabile quando il malato respinge l'uso della medicina, cosi c'è una specie di peccati che non si rimette né si perdona, perché rifugge dalla grazia di Dio che è il rimedio suo proprio. In questo senso sant'Agostino ha scritto: Quando un uomo, giunto alla conoscenza di Dio per la grazia di Gesù Cristo, viola la carità fraterna e invidiosamente si agita contro la grazia stessa, la macchia di tale peccato è tanta che il peccatore non riesce a umiliarsi per domandarne perdono, sebbene i rimorsi lo obblighino a riconoscere e confessare il suo fallo (Libr. I sul serm. del Sign. nel monte 22,73 e 74).

Ma per ritornare alla Penitenza, la sua efficacia nel rimettere i peccati le è in tal modo propria che senza di essa è impossibile non solo ottenere, ma neppure sperarne il perdono, essendo scritto: Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo (Lc 13,3). E vero che queste parole si applicano solo ai peccati gravi o mortali; ma anche i peccati più leggeri o veniali esigono la loro congrua penitenza. Dice infatti sant'Agostino: Quella specie di penitenza che si fa ogni giorno nella Chiesa per i peccati veniali, sarebbe certo vana se detti peccati si potessero rimettere senza di essa.

247. Le parti costitutive della Penitenza


Ma poiché in materia pratica non basta dare nozioni e spiegazioni generali, i Parroci cureranno di spiegare a parte quanto i fedeli devono sapere sulle doti di una vera e salutare penitenza. Ora, questo sacramento, oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri sacramenti, contiene, come abbiamo già detto, tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore è la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione (In Graz. p. 2, cap. 33, q. 5, dist. 1, e. 40). Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto.

Come il corpo umano è formato di molte membra, mani, piedi, occhi e simili, di cui nessuna potrebbe mancare senza imperfezione dell'insieme, che diciamo perfetto solo quando le possiede tutte, cosi la Penitenza risulta delle tre suddette parti in modo tale che, sebbene la contrizione e la confessione che giustificano il peccatore, siano le sole richieste assolutamente per costituirla, nella sua assenza essa rimane tuttavia imperfetta e difettosa, quando non include la soddisfazione. Queste tre parti sono dunque inseparabili e cosi ben collegate tra loro, che la contrizione racchiude il proposito e la volontà di confessarsi e di soddisfare; la contrizione e la soddisfazione implicano la confessione; e la soddisfazione è la conseguenza delle altre due.

La ragione della necessità di queste tre parti è che noi offendiamo Dio in tre maniere: in pensieri, parole ed opere. Perciò è giusto e ragionevole che noi, sottomettendoci alle chiavi della Chiesa, ci sforziamo di placare l'ira di Dio e di ottenere da lui il perdono dei peccati con quegli stessi mezzi adoperati per offendere il suo santissimo nome. Vi è un'altra ragione. La Penitenza è una specie di compenso dei peccati, che procede dalla volontà del peccatore; ed è stabilita dalla volontà di Dio, contro cui si è peccato. Bisogna quindi da un lato che il penitente voglia dare questo compenso, e questo costituisce la contrizione; dall'altro, che egli si sottometta al giudizio del sacerdote il quale tiene il luogo di Dio, affinché si possa fissare una pena proporzionata alle colpe; ed ecco la necessità della confessione e della soddisfazione.

Ma poiché si devono insegnare ai fedeli la natura e la proprietà di ciascuna di queste parti, bisogna cominciare dalla contrizione e spiegarla con tanta maggior cura in quanto noi dobbiamo concepirla nel nostro cuore non appena i peccati commessi ci ritornano alla memoria, quando ne commettiamo dei nuovi.

248. La contrizione: sua natura


Ecco come definiscono la contrizione i Padri del concilio di Trento: La contrizione è un dolore dell'animo e una detestazione del peccato commesso con il proposito di non più peccare per l'avvenire (Sess. 14, e. 4). Parlando più oltre della contrizione, aggiungono: Questo atto prepara alla remissione dei peccati, purché sia accompagnato dalla fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà di fare quanto è necessario per ben ricevere il sacramento della Penitenza. Questa definizione fa ben comprendere ai fedeli che l'essenza della contrizione non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar vita, o nell'iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e sopratutto nel detestare ed espiare le colpe della vita passata. Questo è chiaramente provato dai gemiti dei Santi, che cosi spesso troviamo nei Libri sacri: Io sono stanco di piangere - dice Davide -, ogni notte spargo di lacrime il mio giaciglio. Il Signore ha sentito la voce del mio pianto (Ps 6,7-9). E in Isaia: Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni miei, con l'amarezza dell'anima mia (Is 38,15). Queste parole, ed altre simili, sono l'espressione evidente di un odio profondo dei peccati commessi e di una detestazione della vita passata.

Dopo avere ben fissato che la contrizione è un dolore, bisogna avvertire i fedeli di non immaginarsi che esso debba esser esterno e sensibile. La contrizione è un atto della volontà; e sant'Agostino attesta che il dolore accompagna la penitenza, ma non è la penitenza stessa (Serm. CCCLI,1). I Padri Tridentini hanno espresso col termine dolore la detestazione e l'odio del peccato commesso, sia perché la Scrittura lo usa cosi (Fino a quando - dice Davide al Signore - terro in ansia l'anima mia e il mio cuore in preda al dolore notte e giorno?) (Ps 12,2); sia perché il dolore nasce dalla contrizione in quella parte inferiore dell'anima che è sede delle passioni. Non a torto, pertanto, è stata definita la contrizione come un dolore, perché produce appunto il dolore, ed i penitenti, per esprimere meglio il loro dolore, usavano mutare le vesti, come si ricava dalle parole del Signore: Guai a te, Corozain, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i miracoli compiuti presso di voi, già da gran tempo avrebbero fatto penitenza in cenere e cilizio (Mt 11,21 Lc 10,13).

La detestazione del peccato di cui parliamo ha ricevuto giustamente il nome di contrizione per esprimere l'efficacia del dolore da essa provocato, per similitudine tratta dalle sostanze corporee: come queste si frantumano con un sasso o con altra materia più dura, cosi i cuori induriti dall'orgoglio sono spezzati dalla forza della penitenza. Nessun altro dolore, che nasca per la morte del padre, della madre, dei figli, o per qualsiasi altra calamità, vien detto contrizione; ma soltanto quello che proviamo per aver perduto la grazia di Dio e l'innocenza.

Ci sono anche altri vocaboli atti ad esprimere questa detestazione. Talora essa viene chiamata contrizione di cuore, perché la Scrittura scambia sovente il cuore con la volontà: come infatti il cuore è il principio dei movimenti del corpo, cosi la volontà regola e governa tutte le potenze dell'anima. Talora i Padri la chiamano compunzione del cuore; e appunto cosi hanno intitolato i libri da loro scritti sulla contrizione. Come si aprono col ferro chirurgico i tumori per farne uscire la materia purulenta, cosi con lo scalpello della contrizione si lacerano i cuori, affinché ne esca il veleno mortifero del peccato. Anche Gioele chiama la contrizione una lacerazione del cuore, scrivendo: Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nel pianto, nei gemiti. E lacerate i vostri cuori (Gioel. 2,12).

249. La contrizione: sue qualità


Il dolore d'aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore. E facile dimostrarlo con le ragioni seguenti.

Poiché la perfetta contrizione è un atto di carità che procede dal timore filiale, ne segue che la misura della contrizione dev'essere la carità. E siccome la carità con cui amiamo Dio è la più grande, ne segue che la contrizione deve portare con sé un veementissimo dolore di animo. Se dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, dobbiamo anche detestare sopra ogni cosa ciò che da lui ci allontana.

E qui giova notare che la Scrittura adopera i medesimi termini per esprimere l'estensione della carità e della contrizione. Dice infatti della carità: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (Dt 6,5 Mt 22,37 Mc 12,30 Lc 10,27); e della seconda il Signore dice per bocca del profeta: Convertitevi con tutto il vostro cuore (Jl 2,12).

In secondo luogo, come Dio è il primo dei beni da amare, cosi il peccato è il primo e il maggiore dei mali da odiare. Quindi, la stessa ragione che ci obbliga a riconoscere che Dio deve essere sommamente amato, ci obbliga anche a portare sommo odio al peccato. Ora, che l'amore di Dio si debba anteporre ad ogni altra cosa, sicché non sia lecito peccare neppure per conservare la vita, lo mostrano apertamente queste parole del Signore: Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me (Mt 10,37); Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà (Mt 16,25 Mc 8,35). Notiamo ancora che alla carità, secondo san Bernardo, non si può prescrivere né limite né misura, perché la misura di amare Dio è di amarlo senza misura (Della dilezione di Dio, I). Perciò non si deve porre limite alcuno alla detestazione del peccato.

Oltre che massima, la contrizione dev'esser vivissima e cosi perfetta da escludere ogni negligenza e pigrizia. Sta scritto nel Deuteronomio: Quando cercherai il Signore Dio tuo lo troverai, purché lo cerchi con tutto il cuore e tutto il dolore dell'anima tua (Dt 4,29). E in Geremia: Voi mi cercherete e mi troverete purché mi cerchiate con tutto il vostro cuore, perché allora io mi faro trovare da voi, dice il Signore (Jr 29,13).

Ma quand'anche la contrizione non fosse cosi perfetta, può esser sempre vera ed efficace. Poiché avviene spesso che le cose sensibili ci commuovono più delle spirituali, sicché taluni sentono per la morte dei figli, maggior dolore che per la turpitudine del peccato. Il medesimo si dica quando l'acerbità del dolore non suscita le lacrime, le quali però nella Penitenza sono da desiderare e lodare assai, come ben dice sant'Agostino: Non hai viscere di carità cristiana tu, che piangi un corpo abbandonato dall'anima, e non piangi un'anima abbandonata da Dio (Serm. XLI,6). A questo si possono riferire le parole del Signore citate sopra: Guai a te, Corazain, guai a te, Betsaida; che se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i miracoli compiuti presso di voi, da gran tempo avrebbero fatto penitenza in cenere e cilizio (Mt 11,21). A conferma di questa verità basti ricordare gli esempi famosi dei Niniviti (Giona, 3,5), di Davide (Ps 6,7), della Maddalena (Lc 7,37), del Principe degli apostoli (Mt 26,75), i quali tutti implorarono con lacrime abbondanti la misericordia di Dio e ottennero il perdono dei peccati.

Sarà utile ammonire i fedeli ed esortarli nella maniera più efficace a esprimere un particolare atto di contrizione per ogni peccato mortale, poiché dice Ezechia: Io ti darò conto di tutti gli anni miei nell'amarezza dell'anima mia (Is 38,15).

Dar conto di tutti gli anni significa ricercare uno ad uno tutti i peccati, per deplorarli dal fondo del cuore. Leggiamo ancora in Ezechiele: Se l'empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, vivrà (Ez 18,21).

In questo stesso senso sant'Agostino ha detto:Il peccatore esamini la qualità del suo peccato secondo il luogo, il tempo, la specie e la persona (Della vera e falsa pen. 14).

Ma i fedeli non disperino mai della bontà e clemenza infinita di Dio, il quale, bramoso com'è della nostra salute, non tarda mai ad accordarci il perdono. Egli abbraccia con paterna carità il peccatore, appena questi, rientrato in se stesso, si ravvede, e, detestando in genere tutti i suoi peccati, si rivolge al Signore, purché intenda di ricordarli e detestarli ciascuno in particolare a tempo opportuno. Dio stesso ci comanda di sperare, dicendo per bocca del suo Profeta: Non nuocerà all'empio la sua empietà, dal giorno in cui egli si sarà convertito (Ez 33,12).

250. Quanto è richiesto per una vera contrizione


Da quanto abbiamo detto è facile dedurre le condizioni necessarie per una vera contrizione, condizioni che devono essere spiegate ai fedeli con la maggiore diligenza, affinché tutti sappiano con quali mezzi possano acquistarla, e abbiano una norma sicura per discernere fino a qual punto siano lontani dalla perfezione di essa.

La prima condizione è l'odio e la detestazione di tutti i peccati commessi. Se ne detestassimo soltanto alcuni, la contrizione non sarebbe salutare, ma falsa e simulata, poiché scrive san Giacomo: Chi osserva tutta la legge e in una sola cosa manca, trasgredisce tutta la legge (Gc 2,10).

La seconda è che la contrizione comprenda il proposito di confessarci e di fare la penitenza: cose di cui parleremo a suo luogo.

La terza è che il penitente faccia il proposito fermo e sincero di riformare la sua vita, come insegna chiaramente il Profeta: Se l'empio farà penitenza di tutti i peccati che ha commessi, custodirà tutti i miei precetti e osserverà il giudizio e la giustizia, vivrà; né mi ricorderò più dei peccati che avrà commesso. E più oltre: Quando l'empio si allontanerà dalla empietà che ha commesso e osserverà il giudizio e la giustizia, darà la vita all'anima sua. E più oltre ancora: Convertitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità; cosi queste non vi torneranno a rovina. Gettate lungi da voi tutte le prevaricazioni in cui siete caduti, e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo (Ez 18,21 Ez 18,31). La medesima cosa ha ordinato il Signore stesso nel dire all'adultera: Va' e non peccare più (Jn 8,11); e al paralitico risanato nella piscina: Ecco, sei risanato: non peccare più (Jn 5,14).

Del resto la natura e la ragione mostrano chiaramente che vi sono due cose assolutamente necessarie, per rendere la contrizione vera e sincera: il pentimento dei peccati commessi, e il proposito di non commetterli più per l'avvenire. Chiunque si vuole riconciliare con un amico che ha offeso, deve insieme deplorare l'ingiuria fatta, e guardarsi bene, per l'avvenire, dall'offendere di nuovo l'amicizia. Queste due cose devono necessariamente essere accompagnate dall'obbedienza, poiché è giusto che l'uomo obbedisca alla legge naturale, divina e umana alle quali è soggetto. Pertanto, se un penitente ha rubato con violenza o con frode qualche cosa al suo prossimo, è obbligato alla restituzione; se ha offeso la sua dignità e la sua vita con le parole o con i fatti, deve soddisfarlo con la prestazione di qualche servizio o di qualche beneficio. E noto a tutti, in proposito, il detto di sant'Agostino: Non è rimesso il peccato, se non si restituisce il maltolto (Epist. CL3,6,20).

Né si consideri come poco importante tra le altre condizioni volute dalla contrizione, il perdonare interamente le offese ricevute, come espressamente ci ammonisce il Signore e Salvatore nostro: Se perdonerete agli uomini le loro mancanze, il vostro Padre celeste vi perdonerà i vostri peccati; ma se non perdonerete agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre colpe (Mt 6,14-15).

Questo è quanto i fedeli devono osservare rispetto alla contrizione. Tutte le altre considerazioni che i Pastori potranno facilmente raccogliere in proposito, posson riuscire a render la contrizione più perfetta nel suo genere, ma non devono essere considerate come assolutamente necessarie, potendosi avere anche senza di esse una Penitenza vera e salutare.

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