Caterina63
00giovedì 3 settembre 2009 15:29
Naturalmente occorrono tutte le virtù che sono richieste dalla legge del Signore e dalla dignità soprannaturale conferita ai suoi sacerdoti. Ma tra tutte le virtù occorre sottolinearne alcune. Questo non significa che tutte le altre possano essere disattese, significa solo che talune debbono essere tratte dalla zona d'ombra, nella quali sono relegate. Se ne parla qualche volta, ma più per fare della retorica, che per ottenere impegni seri. Sono le così dette «virtù di relazione». Il nome è dovuto al fatto che innervano e sostengono i rapporti con gli altri.
Qualche volta si chiamano virtù umane, il che è erroneo, perché qualunque virtù esercitata in un battezzato è sempre attratta nell'ordine soprannaturale. Questo è certo: che la media degli uomini le stima più di altre virtù obiettivamente più importanti.
Resta in ogni caso che sono importanti e dirimenti di situazioni. Eccole: la sincerità, la lealtà, la costanza, la fedeltà, la coerenza, il coraggio, la generosità sono le virtù di relazione.
Costa l'acquisirle, ma la remunerazione che danno nel sacro ministero è talmente grande da essere difficilmente valutabili. Esse non fanno da sole un uomo, ma davanti a tutti dimostrano ad evidenza che è uno veramente «uomo» nel senso morale.
Le porte si aprono, i pregiudizi cadono, la solidarietà si stabilizza, il giusto prestigio si concreta, la faccia è presentabile a chiunque quando ci sono le virtù di relazione. La fiducia diventa facile nei fedeli, la confidenza è spontanea nei penitenti, la correttezza è legge anche tra persone di diverso sentire, quando ci sono le virtù di relazione.
Non averle, o averle deboli o scolorite, porta il giudizio delle parti avverse a qualificarci: baciapile, tartufi, imbroglioni, etc. La vita di seminario. che vi mette gomito a gomito tra condiscepoli per tutto il giorno e vi obbliga pertanto ad una vita di relazione continua, è la incomparabile arena nella quale si fanno gli esercizi giornalieri, senza posa, per anni ed anni, allo scopo di esser «uomini prima di essere preti».
L'argomento convincente lo avete in voi stessi: quale è la stima per quelli che trovate insinceri, quelli che hanno più facce, quelli che non sanno assumersi chiaramente le proprie responsabilità, quegli amici che vi abbandonano al primo vostro insuccesso, che cambiano parere e compagnie ogni momento, che sono tirchi nelle faccende materiali ed in quelle spirituali, che trapelano una viltà? Non vi dico affatto di giudicarli e di disprezzarli, se siete cristiani, ma rilevate che voi dovete essere tutto quello che vi aspettate sempre dagli altri.
Tutte queste cose non vi saranno elargite gratuitamente il giorno della vostra ordinazione, salvo intervento speciale di Dio; dovrete acquistarvele pazientemente attraverso anni di disciplina, di accettazione, di obbedienza, di fatica. Il prezzo certo è alto, la resa altissima.
Capite allora, perché il seminario non è una pensione, capite perché dovete accettare con gratitudine le riprensioni e quelle pacate messe a punto che si fanno da parte di qualunque superiore di seminario. Capite perché dovete permettere , senza resistenza, che altri vi coltivi. Siete fiori destinati all'Altare di Dio: fiori che, per essere presentati tali e degni, debbono accettare la coltivazione entro la serra. Se odierete la serra, non avrete capito niente. Se la sopporterete soltanto, esaminatevi bene: il vostro prezzo davanti al futuro che vi attende resterebbe molto basso.
La polivalenza del ministero
I ministeri proprio del sacerdote sono molti. Non basta: i molti identici ministeri debbono esercitarsi in ambienti, condizioni, stati d'animo diversi. Questa è la polivalenza. Voi seminaristi dovete allenarvi a questa polivalenza.
In genere è difficile pensare nei seminari ad una preparazione verso questo o quel ministero, questo o quell'ambiente. Ciò per una ragione molto semplice: il seminario non può sapere che cosa toccherà a questo o a quello tra i sacerdoti novelli, salvo qualche eccezione per settori ristrettissimi di studio. Se il seminario non può, è inutile addurre ragioni in contrario. Creare specializzazioni di un indirizzo nuocerebbe gravemente al clima di un'unità amica, di fraterna comprensione che debbono mantenere invece caldo e favorevole l'ambiente del seminario stesso. Infatti alcuni tentativi in questo sensó,fatti circa trent'anni innanzi, hanno fallito.
Non rimane in via di fatto che una soluzione: coltivare la polivalenza che, mantenendo viva una comprensione multipla, possa avere innestata al tempo giusto la indicazione, l'allenamento necessario, il proficuo noviziato.
È necessario io spieghi bene questo discorso.
La polivalenza la si attua creando una conoscenza verso i diversi settori della pastorale e una simpatia per le diverse esperienze apostoliche, acquistando in tal modo una multipla disponibilità nelle mani del superiore secondo le esigenze della Chiesa.
Anzitutto bisogna trasportare il discorso dal generico e dal teorico allo specifico e al pratico. Se si ipotizzano davanti solo delle «anime» alle quali dare la propria opera faticosa, si centrano solo dei fantasmi aerei. E la cosa finisce così, quando si arriva davanti ad un ministero specifico di ambiente si resta perplessi, si geme, si chiedono consigli a quelli che sanno meno e non mettono pertanto in vergogna, ci si dibatte e si debbono attendere mesi e anni, per ritrovare la quiete del proprio lavoro. Conoscenza adunque dei vari tipi di ambiente e di ministero. Voglio spiegarmi meglio venendo subito a presentare diversi campioni.
Ci sono ambienti operai. I lavoratori, tutto il mondo del lavoro ha caratteristiche sue ed esige diete spirituali non meno specifiche. Si apre per la Chiesa la necessità di pensare al mondo del lavoro in modo specifico. Il mondo specifico lo si troverà solo dopo aver acquisito personalmente una esperienza concreta di quell'ambiente. Ecco l'imperativo di conoscerlo. È ora, dopo aver opportunamente elaborato dottrine sociali per novant'anni, rendersi conto che la elaborazione meravigliosa non è ancora interamente giunta al mondo del lavoro. Di questo mondo è viva la preoccupazione e soprattutto la paura. Memorie sbiadite ormai, ma tuttavia vive e oralmente trasmesse, circa l'anticlericalismo che ha afflitto la fine del secolo precedente e l'inizio del nostro secolo ispirano un movimento di fuga e di quasi terrore. E invece si tratta della parte maggiore dei nostri fedeli. Mondo del lavoro sono tutte le persone, aziende, istituzioni, associazioni che ruotano in esso. È chiaro che fuori ne restano pochi, anche se i lavoratori etichettati tali sono, nel nostro Paese, solamente diciotto milioni.
Non mi sono affatto meravigliato che pochi tra voi abbiano risposto al mio invito di partecipare ad attività dell'ONARMO, perché il modo col quale avrete sentito parlare da molti del «mondo del lavorò» penso che non vi abbia affatto incoraggiati. Nulla quindi di negativo. Ma è assolutamente necessario per la vostra preparazione all'intero ministero che voi prendiate conoscenza del mondo del lavoro. Vi posso garantire, per la mia lunga e personale.esperienza, che, quando quel mondo l'avrete conosciuto, cambierete parere ed avrete trovato l'ambiente dove alligna la onestà, la fedeltà e generosità, più che in altri ambienti.
Ci sono degli ambienti di Azione Cattolica. Questa è garantita dal fatto del suo collegamento diretto e collaborativo con la sacra Gerarchia. Là si forgiano veramente gli uomini che oggi e domani aiuteranno e completeranno l'opera del sacerdote, senza dei quali il pastore d'anime può essere destinato ad un penoso e sterile isolamento. L'Azione Cattolica ha dovuto passare negli ultimi lustri una dolorosa crisi, può essere che gli echi di questa vi abbiano raggiunto e vi abbiano messo in uno stato di neutralità prudente. La crisi c'è stata, ma oggi si sta pienamente, anche se gradualmente, risolvendo e voi dovrete, per obbedienza alla Chiesa, lavorare molto in essa. Essa forgia i collaboratori e voi di collaboratori avrete estremo bisogno. E necessario pertanto che fin da ora vi volgiate verso di essa ed evitiate di arrivare alla Ordinazione, ossia al dovere di occuparvene, con l'animo paralizzato da riserve ed antipatie infondate.
Può essere incontriate, Dio non voglia, chi vi consigli di entrare in ghetti personali. State attenti. Agite sempre in campo aperto, sapendo che chiese e chiesette servono solo a Dio, non a scopi personali.
Ci sono gli ambienti di carità e di assistenza. Per essi saranno più facili e conoscenza e accostamento e iniziali esperimenti. Infatti tutto il mondo di oggi, anche se in parte notevole fa i propri comodi, esalta la solidarietà (così dicono, per paura di impegolarsi con la «carità» evangelica), ed i suoi veri o presunti eroi. Non si accorge affatto di qualche nuova santa Teresina, nascosta tra l'erba dei conventi (ce ne sono), ma fa correre tre o quattro nomi che sembrano soli passeggiare per le vie della dedizione ai propri simili. Ciò porta, per lo meno, che vi sarà facile, più facile, dichiararvi maggiormente disponibili ai servizi ed opere di carità. Ma vi debbo mettere sulla chiara avvertenza che in più d'un caso tale foga è semplicemente sostitutiva di altri doveri, è evasiva da una disciplina ecclesiastica, è giustificata per rivolte o prese di posizioni o giudizi contro la legittima Autorità eccelsiastica, è subdola ricerca di pubblicazioni e di rinomanza. Di quanti peccati è colpevole la voglia di essere citato!
Voi dovete amare l'ambiente dei poveri perché Cristo lo ha amato e perché - escluso la pubblicità, che vi consiglio di fuggire nella maggior parte dei casi - non vi darà soddisfazioni d'orgoglio e piaceri evasivi, ma la reale possibilità di agire solo e completamente per amore di Dio. Quando le mode solidarizzanti saranno passate, come passano tutte le mode, è necessario che voi continuiate ad amare i poveri. Perché li ama il Signore! Questo è l'argomento che vale e vi sostiene.
E se non ho da spendere molte parole per rivolgere la attenzione verso il mondo sofferente, dato che il vento spira per ora da quella parte, ritengo di dovervi raccomandare lo spirito e il motivo al tutto soprannaturali, dai quali dovrete essere mossi in soccorso dei fratelli. Dato che le mode non insegnano questo. Come sempre!
Ci sono le tante forme con le quali gli uomini si mettono insieme (pare proprio abbiano paura di essere soli e sentire dentro il perenne richiamo di Dio!): iniziative, fondazioni, clubs, ritrovi, indefinite complicazioni burocratiche nella pubblica amministrazione... È una colluvie a non finire, che ha precise sorgenti (da non trattarsi qui), ma che per noi, ministri del Signore, ha un aspetto solo: dobbiamo salvare anche quelli! Non posso esattamente specificare, ma si tratta di una ebollizione che assilla il nostro tempo di evoluzione, quartieri, consultori, comitati scolastici, etc... Che fare? Si deve avere la faccia pulita da qualunque imputazione per poter, senza esitare, guardare tutti negli occhi. Questo apre delle porte. Abituatevici, come se chiunque incontriate sia in grado di leggervi nell'anima pensieri e intenzioni.
Assolvere ogni dovere, per poter tappare la bocca a chiunque. È un argomento che anche gli avversari capiscono. Essere così umili da esporvi anche a rischi calcolati, a doveri dall'esito incerto, pronti al sacrificio, anche se nessuno sul momento lo scopre.
Perdonare sempre, perché sul perdono cammina la grazia di Dio. Ricordo sempre quanto, molti anni innanzi, mi fu raccontato da un buon sacerdote. Era stato perseguitato per anni da un maggiorente della sua parrocchia, lui aveva sempre perdonato e taciuto. Quando il tristo personaggio arrivò vicino alla morte, chiamò quel prete per ricevere i Sacramenti, dai quali prima era ben lontano. Il prete accorse e, tutto concluso, disse al moribondo ancora in sensi: « come mai avete chiamato me?». Risposta: «perché, avendone tutti i motivi per farlo, non avete mai detto una sola parola contro di me».
Caterina63
00giovedì 3 settembre 2009 15:32
4. Domani dovrete lavorare per Dio; non vi si addice oggi la pígrizia
Il sacerdozio non è solo sacrificale, ma anche essenzialmente ministeriale. Ciò indica che non esaurisce il suo dovere solo nel culto pubblico, ma deve essere di natura sua apostolico. Significa: lavoro. Il sacerdote dovrà uscire di Chiesa e di sacrestia, percorrere le vie del mondo, senza mai assorbirne la malizia, portarsi ovunque ci sono uomini per invitarli, istruirli nella Fede, santificarli dopo averli convinti. Si tratta di un lavoro multiforme, attento ai segni dei tempi per cambiare ed adattare i suoi strumenti, condotto spesso nella contraddizione, nella sofferenza, tra la ingratitudine di molti.
Non è soltanto questione di «fatica»; sarà questione di umiltà per capire a tempo, di forza d'animo per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Solo in parte domanderà dispendio di energie fisiche; sarà più greve la sua richiesta di energie morali. Potrà avere immense consolazioni, ma queste potranno anche mancare, pertanto il computo deve tener conto della usura.
Accettate voi di essere dei preti comodi? Inutili? Penso di no e allora allenatevi. Le cose che ora non vi piacciono, rispetto alle quali la passione troppo umana reclamerebbe ozio e indipendenza sono quelle che ora vi allenano. Enumeratele bene e ringraziate Dio di averne.
Date ancora un breve sguardo al vostro lavoro di domani. Il mondo che vi attende è fortemente segnato dalle conseguenze del secolo scorso, voi porterete le conseguenze ben peggiori di questo nostro secolo. Di giorno in giorno appare più chiaro che la modernità, tradotta in termini ministeriali, significa maggiore disponibilità e pertanto maggiore sacrificio. Fate i vostri conti per tempo.
Nessuno può credere che il domani chieda ai sacerdoti le spavalderie del demagogo, le aberrazioni del libertino, le gesticolazioni del mimo. Il domani vi chiederà più virtù e più sacrificio; se questo non avrete, non temete, raccoglierete più ampia messe di dileggi e di canzonature. Come già talvolta accade di vedere.
La stampa galeotta ha sedotto molti, può giungere anche a voi; difendetevene, giacché non tutti vi difendono, e mirate giusto. Le cose comode generalmente ingannano. Il succo di molti scritti, porti anche da ecclesiastici, è questo: fatevi degli alibi, per il resto quietate. Se scrivessi per far polemica e non per amore verso di voi, qui di alibi in uso per scaricare responsabilità e fatiche ne potrei enunciare un lungo elenco.
5. Acquistare le abitudini per tempo
Si tratta di un argomento di estrema importanza per voi. Cominciamo da alcune chiare idee.
- Si chiama «abitudine» la «facilità a compiere un atto, acquisita attraverso la ripetizione dell'atto stesso». Ripetendo gli atti necessari alla maleducazione, con le mani e con le braccia e coi denti e con la deglutizione, noi abbiamo acquisito la «abitudine di mangiare» in modo tale che mentre mangiamo possiamo fare altre cose, parlare, cantare, leggere...
Per capire la importanza della abitudine bisogna chiarire il concetto della «facilità» che essa, con la ripetizione dell'atto, induce. È in questa facilità la importanza della abitudine. Infatti -la «abitudine» man mano che rafforza la facilità, gradatamente dispensa dalla attenzione, dallo sforzo, dalla diligenza. Risultato: ad un certo punto l'abitudine ci dona di compiere un atto, qualunque esso sia, senza richieder impegno di attenzione o dispendio di energia. La abitudine fa sì che l'atto costi poco o nulla.
- A questo punto si capisce che è la abitudine a permetterci, nonché facilitarci, tutto nella vita. Noi parliamo, camminiamo, compiamo moltissimi atti del nostro impegno e del nostro dovere, senza essere impegnati in un intervento attivo o in un erogazione di energia. Pensate quale complicata operazione di ossa o di muscoli, quale commensurazione di sforzo muscolare adatto al raggio visivo, sia la semplice operazione di sederci sopra di una sedia. Se non esistessero tutte le inerenti abitudini, noi forse impiegheremmo un giorno per sederci una volta sola. In grazia della «abitudine» noi ci sediamo con la massima indifferenza.
- In conclusione: la grandissima parte delle azioni della nostra vita sono compiute dalla abitudine. Dobbiamo essere riconoscenti a Dio che ce l'ha data. E non è a credere che ci'soccorrano solo abitudini materiali, muscolari, visive, uditive, etc.; noi abbiamo anche l'aiuto di abitudini spirituali, il cui numero è difficile enumerare.
- Anche se uno non conosce la teoria delle abitudini (e quale bambino la conosce?) acquista ugualmente, spinto dall'istinto, dalla necessità, dal piacere e dalla conoscenza albeggiante, le abitudini necessarie alla vita vegetativa, sensitiva, di relazione. Pertanto anche il più disattento e distratto degli uomini vive e campa sulle abitudini bene o male acquisite.
Perché le «abitudini» si acquisiscano «buone», vigila ed opera la «educazione». Essa si inserisce a questo punto e non solo a questo punto, ma a questo punto siamo in grado di riconoscerne la insostituibilità.
Con l'intervento della «educazione» (che deve cominciare subito), poi, dell'intelletto e della volontà del soggetto, si acquistano le abitudini buone e le abitudini cattive. Le prime renderanno facile la bontà e moralità della vita; le seconde renderanno scorrevolissimi il disordine e la immoralità. Ecco perché la «educazione» deve durare assai.
- Ma siamo ad un punto veramente cruciale, che logicamente consegue da quanto detto fin qui. Chi acquista abitudini consone al tipo di vita, di impiego, di missione, di livello che ha scelto compirà il suo dovere con una notevole facilità, soccorrendogli la abitudine stessa. Questo sia che miri a cose buone, sia che miri a cose cattive. In altri termini qualunque ragazzo o giovane che è attento ad acquistare per tempo le abitudini omogenee al suo ideale avrà in gran parte acquisito la facilità della propria vita.
- Applichiamo dunque. Voi volete essere sacerdoti e, penso, nessuno tra voi si rassegna ad essere un pessimo prete. Tutti volete servire Dio decorosamente. Avrete, per questo, bisogno di facilitazioni continue nel vostro operato e queste, al di sotto della grazia di Dio, vi saranno fornite dalle abitudini omogenee acquistate in seminario. Oggi decidete per allora. Siete nella situazione di scalatori, che debbono preparare minuziosamente se stessi, gli strumenti, i sussidi eventuali, i rifornimenti, mentre stanno al campo base ed attendono il tempo stabilito per l'ordine di partenza. Voi siete ora al campo base e la vostra scalata verso il Cielo la preparate ora. Guai allo scalatore, il quale aspetti, per acquistare la somma di abitudini muscolari, sensorie, di riflessi, di volontà per affrontare un sesto grado, quando :.la prima volta si trova a sormontare un sesto grado.
Basterebbe aver detto questo: siete intelligenti. Mi sia concesso qualche riferimento pratico.
- Vi necessiterà un contegno da ecclesiastico, né untuoso, né introverso, sereno e controllato, secondo il tipo del vostro temperamento. Guai se gli «altri» vi dovessero giudicare un laico vestito da prete (come quelli che si vedono nei films e sono generalmente sgraziati). Le abitudini del contegno, della modestia ecclesiastica, della edificazione si acquistano ora.
Dovrete celebrare gli uffizi divini. Non sarà solo questione di rubriche, che da sole fanno soltanto rappresentazione, ma di animo, di convinzione, di fede, di dominio su se stessi. Le abitudini inerenti acquistatele ora.
Dovrete trattare con gente intrattabile, senza mettervi al livello della maleducazione e della volgarità. È ora il momento di pensarci. Dovrete essere pronti a rinunce anche penose, ad atti di pazienza non.comune, dovrete entrare nei contatti sociali con semplicità, ma sempre irradiando uno spirito sacerdotale. Pensateci oggi; domani sarebbe troppo tardi. Si potrebbe esemplificare all'infinito. Mi basta di aver chiarito il principio.
Non dimenticate che la «abitudine» e il «subcosciente» faranno in gran parte il vostro domani, benedetto o disgraziato. E, quanto al subcosciente, del quale non intendo parlare qui, ritenete che le abitudini ve le acquista anche a vostra insaputa. Ragion per cui in tutto dovete esercitare la virtù della prudenza. Ne parleremo un'altra volta.
Caterina63
00giovedì 3 settembre 2009 15:35
I motivi particolari di gioia di un seminarista
Ritengo che, non per ragione di dignità, ma per un motivo didattico, la prima verità gaudiosa da tener presente sia la seguente: con la grazia del Signore ogni dolore può essere trasformato in gioia, senza nulla togliere al merito della nostra sofferenza. Come?
l. Cominciando a ringraziare Dio che ce lo ha mandato o che lo ha permesso. È incredibile quello che può trasformare della nostra vita l'abitudine di esser grati a Dio per quello che non ci piace. E non perché in realtà questo stato d'animo serva a diminuire notevolmente la sofferenza umana nostra, ma perché è questa la via direttissima per essere uniti a Cristo sofferente e la via direttissima per giovare a tutti i nostri fratelli. Ci sono momenti nei quali, con umiltà, si possono chiedere a Dio le più grandi grazie, la salvezza di altri, la manifestazione della Sua gloria.
Tutto ciò richiede un allenamento che dovete iniziare ora. Esso sarà la vostra salvezza, perché, imprimendo una inclinazione quasi connaturata ad amare piuttosto quello che non piace che quello che piace, avrete in mano il talento della forza per muovervi verso la perfezione.
2. I sacerdoti che fanno tutti i giorni decorosamente la loro meditazione od orazione mentale e, per merito di questa, si mettono in grado di compiere meglio gli altri sacerdotali doveri, hanno in mano il talento per arrivare a tanto. Non se lo lascino sfuggire e godano della tranquilla fiducia di poter resistere ad ogni crisi e tentazione, stringendo bene nella mano quello stesso talento.
Tutto questo discorso può valere per qualunque fedele; ne ho conosciuti molti che questo discorso intendevano e santamente sfruttavano. Ma per voi ha una forza ed un valore speciale: voi sarete sempre (per forza dei sacri misteri che celebrerete, della orazione tipica sacerdotale) più vicini a Dio! Qui sta la formula per operare il meglio in ordine alla perseveranza nel proprio sacerdozio.
3. Cercate di capire le particolarità della vostra orazione. Prepara il vostro domani. La orazione del sacerdote prende forza dal suo «carattere» impresso dall'Ordine sacro. Per questo egli è «deputato» alle «cose sacre». Se prenderà coscienza di questo particolare valore, tanto più lo accrescerà e ne trarrà efficacia.
Questo accade soprattutto nella recita delle «Ore». In esse, in modo speciale se ex Officio, non è lui che prega, ma in lui prega la Chiesa intera, perché si tratta di un atto ufficiale.
Se la sua Fede lo soccorrerà, potrà sentire la sua preghiera delle Ore, le alternanze dei suoi versetti, la sua eco, come il coro della Gerusalemme celeste e della Comunione dei Santi. Non è questa una fantasia, è una realtà nella quale ci si può serenamente e dolcemente adagiare. Nella storia dei Santi si sa che qualcuno di loro, recitando o cantando il divino uffizio, si trovò in compagnia della Vergine e degli Angeli. Vide e fu fortunato; ma tutti possono, se sanno elevare la propria anima fino a quel livello, credere di entrare ad accompagnare in qualche modo il cantico della eternità.
Chi è deputato alle cose superne dal sacramento dell'Ordine è deputato a fruire una speciale presenza nelle realtà eterne. Nell'Ufficio della Dedicazione delle chiese, il vecchio Breviario faceva cantare per secoli tutta la Chiesa: «Sed illa sedes Coelitum / semper resultat laudibus / illi canentes jungimur / àlmae Sionis aemuli». E tutto questo lo porterà, con gioia e senza rimpianti di esperienze terrene, ben lontano da ogni mondanità e da ogni espressione della medesima.
Chi vive così la sua orazione rende a poco a poco inoperanti tutte le pericolose attrazioni mondane. Inquadra la propria vita ad un livello nel quale il Sole splende sempre.
4. Avrete la divina presenza della Eucarestia. Tale presenza darà frutti in voi quanto più la vostra Fede in essa sarà non solo attuale e viva, ma da voi continuamente tenuta accesa con i piccoli espedienti della pietà, adatti a noi piccoli esseri e che la vita del seminario vi deve insegnare. Le frequenti visite, anche brevissime, al Santissimo Sacramento a poco a poco vi daranno, quasi fisicamente, il senso di una santa fortezza resistente a tutti gli attacchi e contraddizioni della vita. Non permettete che l'abitudine sciatta vi renda atoni alla presenza di Colui che vi è sempre vicino e che nel santo sacrificio stringerete nelle vostre mani. Avete ben più che un talismano a favore!
5. Avrete la grazia dello stato. È una realtà gigantesca, che domanda a noi di essere sempre consci e di trarne fiducia. Essa vi renderà capaci di quella polivalenza nell'apostolato, che vi sarà domandata dalla obbedienza e dall'ufficio assegnato. Vi può rendere capaci di quello che non avrete mai stimato possibile alle vostri doti, vi renderà non spavaldi, ma arditi ad ogni impresa difficile.
6. Purché vi teniate ad un livello di Fede vissuta, avrete con voi il Cielo. Esperimenterete che Madre amabile e provvida sarà per voi la Santissima Vergine, vi saranno vicini gli Angeli, i Santi. Soprattutto la Santissima Vergine: vi terrà per mano. Sentirete lo stile dolcissimo e pronto della Sua materna protezione. Accanto, anzi sopra questo mondo visibile, se ne dischiuderà per voi un altro,, dandovi il senso di una forza, di una dignità e di una indipendenza invidiabili. Non è questione di fantasia, e non è necessario per questo che si arrivi alla vita mistica; Dio è Signore e vi chiede solo Fede attuale e coerenza con la Fede nel contegno.
7. Avrete sempre la tranquillità del frutto della vostra azione sacerdotale, certi che la «Parola di Dio non ritornerà a voi vuota» (Is. 55, 11).
Sarà necessario che non pretendiate di vedere voi i frutti: è sufficiente che li veda Dio e ve ne custodisca il merito per la vita eterna: «altri semina ed altri miete» (Gv. 4, 37).
8. Avrete intorno la famiglia delle anime. Questa è ben più grande, costante e duratura che la famiglia del sangue. Conosce un affetto che è puro perché nascerà dall'apostolato, dal sacrificio, insomma dalla erogazione dei beni di Dio.
Certo, questa famiglia non deve nascere da simpatie insulse, da plagi, da sentimenti troppo umani; non dovrà essere curata in funzione di una vostra corte o di un appannaggio di vanità (guardatevene bene!), ma sorgerà naturalmente nel misterioso lavorio che la grazia del Signore farà attraverso la vostra opera. Le vostre sofferenze, le contraddizioni subite ne scalderanno l'effetto. Il discorso su questa «grande famiglia» è serio e grave.
Dovrete curare i difetti del vostro temperamento, perché possono diventare le cause di un isolamento penoso; dovrete non chiudervi in una torre d'avorio; dovrete avere ampiezza di perdono, di pazienza e di servizio; dovrete dare al vostro sacerdozio un volto umano e soprannaturale insieme. Dovrete essere attenti a nulla sacrificare agli idoli della moda corrente, per piacere, per avere pubblicità e risalto. Questi costituiscono tentazioni perniciose e talvolta fatali. Lasciate nei piccoli la sincera impressione di sollecitudine affettuosa e vedrete, almeno in molti di loro, brillare la luce degli occhi che esprimono riconoscenza quando saranno grandi. Gli spettatori della vostra cura per i poveri, i diseredati, gli ammalati, i vecchi avranno prima ammirazione, poi salutare riflessione e finalmente affetto per voi.
Per decenni e decenni ho fatto caso a questo o a quello che succedeva all'Ospedale Galliera quando c'era degente qualche buon prete, qualche degno parroco. Nessuno aveva tanti visitatori come loro, nessuno aveva tanta gente che si interessasse all'andamento della malattia e della cura. Ricordo che qualche volta si sono dovuti prendere provvedimenti per arginare questo flusso invadente. Ma era una testimonianza.
Siate pazienti, generosi, di retta e purissima intenzione: non vi mancheranno amici seri.
La vita del buon prete prende addirittura una dimensione diversa dalla vita degli altri uomini. Non saranno sempre rose e fiori di questo mondo, ma quando la terra si facesse per voi arida ci sarebbe sempre per voi, ed anche in modi inauditi, la rugiada del Cielo. Questo vale tanto più perché potreste avere momenti di desolazione e depressione legati a qualunque esperienza di vita non sacerdotale; allora potrete capire quanto siano preziosi per voi il Cielo, del quale ho parlato, e la terra con il calore della riconoscenza da voi suscitata. La grande famiglia della terra potrà qualche volta apparirvi anche un po' assente, perché esistono stati d'animo che, chiedendo troppo, pensano di avere nulla; non temete. Non chiudete mai le porte a nessun confratello, anche se colpevole verso di voi; il perdono e la carità disinteressata ve lo potrà restituire nei momenti per voi amari.
Vi possono essere momenti in cui dovrete camminare da soli, per difendere la verità, la giustizia, la sacra disciplina. Non abbiate paura: in quei momenti, se manterrete il livello della vostra Fede, Dio stesso camminerà avanti a voi, accanto a voi. E la grande famiglia, se il vostro sacerdozio l'avrà creata, nulla cercando per sé, si farà sempre sentire.
Mi sono chiesto molte volte nella mia vita perché tanta gente abbia una tale acrimonia verso i preti. Ho sempre dovuto darmi questa risposta: nessuno, in qualunque situazione, riesce ad amalgamare tanta gente intorno a sé quanto un buon prete. L'ho visto negli ospedali, nelle scuole, soprattutto negli ambienti di lavoro, nelle caserme; questo «imbattibile», sempre che sia con la testa e con il cuore a posto, vince in concorrenza, quanto più non lavora per sé e lavora per amore di Dio.
La storia della «grande famiglia» è una storia lunga, assai lunga, ma è anche la storia della vostra vita. Essa resiste, anche se può avere eclissi. Cambia completamente la prospettiva: insieme nell'amore di Dio, è una storia che con volontà potete sctivere ora. È non tutta, ma una grande contropartita del dono di una castità perfetta, di una inalterata obbedienza e di un distacco del cuore dalle cose umane.
Nessuno come il sacerdote ha davanti un simile cammino. È per questo che ho potuto parlare di gioia, anche se questa non è, come ho scritto, l'unica sorgente della letizia sacerdotale. Altre ve ne sono e sono tante, a seconda della virtù acquisita, che la fantasia non basta ad enumerarle.
9. Ho assistito al tramonto, anzi al crepuscolo di tanti preti. La mia conclusione è questa: talis vita finis ita.
Quelli che possono dire di avere speso la vita solo per Dio e per i fratelli portano con sé una inesprimibile letizia, perché allora vale solo quello ed è quello che si porta con sé. È triste aver finito una vita senza orizzonti superni: è solo gioia avere accumulato, per una vita, merito al servizio di Dio.
Questo ho scritto perché sappiate già quale sarà il vostro avvenire, sappiate che è nelle mani vostre, sappiate che dipenderà dalla disciplina austera e senza tristezze, che oggi vi saprete imporre!
Caterina63
00martedì 8 settembre 2009 09:09
Lettera del Cardinale Siri alla Diocesi
[Dalla «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975, pp. 22-36]
Viviamo nell'epoca delle «parole».
Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole. Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati. Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa. Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo». Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito. Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.
1. Essere indipendenti dalla logica teologica
Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi. Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»? Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione. Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due. La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contradditorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia. La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio. Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane. Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico! Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa.
Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato. Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia. Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X. nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultman, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo. Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica. Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto. Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze! Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere. Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono. Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre c con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».
2. Il «sociologismo»
Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia. Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo. La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza. Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perche il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno. Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale o di rosso sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano. Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi! Ma si sa dove vanno i tempi? Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili? Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?
3. La nuova storiografia
Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui! Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo. La parte maggiore della produzione — ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni — pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni: — la società ecclesiastica è la prima causa dei guai, che hanno colpito i popoli; — la Chiesa — detta per l’occasione postcostantiniana — avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità; — le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione; — tutta la storia ecclesiastica fino al 1972 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione — tutti lo vedono — costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero; — le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti; — il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate. Si potrebbe continuare.
Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla! Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse. È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!
4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti.
È questo un caposaldo d’obbligo del progressismo. Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno. Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo. Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti. — La filologia, la archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia. Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata. — Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia. — La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero. Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio. Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò.
La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero! Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».
5. Le allegre «teologie»
Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila. Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci. Queste sono vere «teologie», anzitutto? È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio. In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni. — Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente. — Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, deriivando da un principio messo dal cristianissimo e devoto Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori. Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere — con altre cose — una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce.
Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti. Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante. C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962. E questo è grave. Infatti. La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro. Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi princìpi del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite. Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo. Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia». La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria! La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire a! numero seguente.
6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista».
Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina. Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più. Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, si da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica. Guardiamo bene in faccia questa faccenda. — Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade net nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti. — Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste. La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialita è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia! Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi. La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.
7. Il rifiuto della apologetica Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente. Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova. Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più. Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo — come gli altri — ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica» ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva. Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere. Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti. Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?
8. La riabilitazione degli eretici
Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo. Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate. Ma, è normale tutto questo? I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri». Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto. Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina.
Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici. Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane. Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori! Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause. Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.
9. L’antigiuridicismo
Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista. Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge e l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza. La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone per bene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze. Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici. Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Si, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale. Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base». Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza. Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni». La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza. Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza? E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive? Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi. La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»! Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!
10. La crociata antitrionfalistica
Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista. È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani. La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio. Vediamo questo fascio. L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo. La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare. Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre! Se si porta rispetto a! Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta. Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa. Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti. Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia. Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.
11. La indisciplina endemica
Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo. Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente. In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione! In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano. A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli. Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Ciclo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie. Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo. Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pan passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!
12. La bassa quota
Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale. Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco. Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo. Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo. Animare gruppi «detti magari di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tanquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti. Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito. Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso. Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio’ Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe. Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.
Conclusione
Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche, che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori. Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.