È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
QUESTO FORUM E' CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO... A LUI OGNI ONORE E GLORIA NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN!
 
Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Articoli di Nico Dal Molin pub­blicati dal 1990 al 1992 su SE VUOI (Cammini di speranza)

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2009 15:10
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:01

CAMMINI DI SPERANZA PER LIBERARE LA VITA

PREFAZIONE

Il libro raccoglie gli articoli di Nico Dal Molin pub­blicati dal 1990 al 1992 su SE VUOI, la rivista per l'o­rientamento vocazionale dei giovani.

L'Autore indica un itinerario per «essere giovani, uomini, donne dal cuore "pellegrino"» sui sentieri della Speranza, per scoprire nel profondo di se stessi le sorgenti inesauribili della vita, della libertà, della fiducia e della pace del cuore.

Se tu, ragazzo, ragazza, vuoi inoltrarti per questa «via dei cuori semplici» ...non temere!

Gesù, che è la Via, la Verità e la Vita, come pellegri­no di pace e di speranza anche oggi si affianca a te: per indicarti la strada della tua vita e per riaccendere nel tuo cuore, cammin facendo, la Sua gioia.

Lucia Orizio ap



PRESENTAZIONE

Dicono che quando si usa spesso una parola, ciò significa che essa è carente nella vita di chi spesso la nomina: l'ammalato parla spesso della salute, il pove­ro di un po' di benessere, l'esule della sua terra, chi è lontano dalla famiglia rievoca con nostalgia i suoi affetti più cari...

Anche la Speranza può entrare nel novero di queste parole che sono invocate spesso, starei per dire "sus­surrate"..., perchè c'é un certo pudore e imbarazzo a chiamarla esplicitamente per nome.

Eppure la nostra vita, così inquieta e talvolta così vuota e banale, ha bisogno di trovare speranza, ha bisogno di vederla, come il marinaio cerca, in una notte di bufera, la luce del faro che lo possa guidare al porto, alla ritrovata sicurezza.

In queste pagine, credo di avere messo parte del mio cuore che cerca... Speranza. È un cammino, anzi sono molteplici cammini che si intrecciano fra di loro e che portano ad invocare speranza dentro a varie realtà di vita, ma anche a partire da queste stesse realtà per trovare quel sottile "fil rouge" che le innesta nella radice vitale della Speranza cercata e trovata.

E così, i grandi temi della vita e del cuore umano si riprongono come i fili argentati di una ragnatela, bagnata dalla rugiada del mattino, riletti in un'ottica diversa: la possibilità che ci viene donata di guardare le cose dall'alto...

Le dinamiche profonde della nostra personalità, la ricerca faticosa e spesso zoppicante della riconciliazio­ne del cuore, i sentieri della libertà, la via coraggiosa, oggi più che in passato, della fedeltà, il momento buio e sordo del dolore, la gioia di una amicizia che si fa compagna di vita per ridarci fiato e voglia di riprende­re il cammino, i momenti magici della vita e anche quelli che induriscono il cuore e ce lo fanno sembrare come una pietra; tutto ciò fa parte dell'esperienza esi­stenziale di ciascuno di noi e può essere riletto alla luce della Speranza.

Il profeta Osea, in un testo bellissimo in cui cerca la via del suo Amore smarrito, usa una espressione sim­bolica ed incisiva, che gli viene messa in bocca da Dio stesso: "Trasformerò la valle di Acor in porta di speran­za" (Osea 2,17). La valle di Acor.. occorre un piccolo esercizio di geografia biblica, e il simbolo si fa chiaro.

La valle di Acor parte dal fiume Giordano, vicino a Gerico, e si snoda nel territorio fertile della Palestina centrale. Il deserto arresta, come d'incanto, la sua invasione di sabbia torrida e arida e inizia lo spazio vitale di una terra nella quale puoi vedere il colore dorato del grano e trovare ristoro nell'abbondanza della frutta che in essa matura.

È un po' come rivivere l'impatto del popolo d'Israele che, dopo tanto tempo di deserto stepposo e sterile, si trova davanti, finalmente, la bellezza e i colori e la vita della terra promessa (cf. Giosué 15,7).

C'è un altro testo biblico che mi ha sempre colpito, e che fa da sfondo alle suggestioni di queste pagine. Pietro, nella sua prima lettera, scrive: "Siate sempre pronti a dare ragione, a quanti vi chiedono spiegazioni, della Speranza che è in voi" (Metro 3,15).

Dare ragione della Speranza per diventare " lampio­nai di Speranza", per imparare ad accenderla nel nostro cuore, a cercarla e ad attenderla come dono invocato... sospirato.

Chi legge il bellissimo e prezioso testo "Diario di un dolore", di C.S. Lewis (ed. Adelphi), in parte rievocato in un recente film di notevole spessore esistenziale, "Viaggio in Inghilterra", vi trova descritta la vicenda di un uomo abituato a riflettere e a dare ragione, ma solo con la sua cultura, ai grandi temi della vita: il senso e il non senso, l'amore e il dolore, l'esistenza di Dio e la fede. Ma la riflessione intellettuale, così preziosamente cesellata nelle conferenze e nei saggi di questo scrittore inglese del nostro secolo (è vissuto tra il 1898 e il 1963), si frantumano e poi si ricostruiscono nella inten­sa e vibrante esperienza di amore, di sofferenza e di morte che egli vive nell'incontro con la poetessa ameri­cana che diverrà sua moglie, Helen Joy Gresham.

Un viaggio tormentoso, che piano piano stempera l'angoscia e il dolore in una purificazione della mente e del cuore; un viaggio sofferto per ritrovare nuovi e più realistici "cammini di speranza".

Parafrasando Lewis, potremmo dire che la Speranza è "vedere, in qualche misura, come Dio... Egli vede per­ché ama; e quindi ama benché veda".

Una volta ancora chiedo soccorso alle parole di s. Agostino. La speranza è come lo stoppino del lampio­naio, come una fiaccola accesa...

"Se la tieni ben diritta, la fiamma sale verso il cielo; se la inclini, la fiamma sale sempre verso il cielo.

Se la rovesci, si volgerà forse la fiamma verso terra? In qualunque posizione tu la metta,

la fiamma non conosce altra via: va verso il cielo".

Nico Dal Molin



Speranza: la ricerca... l'attesa

Le chiamano le "cattedrali della speranza". Nulla 17 a che fare con luoghi di preghiera o di culto, come le parole potrebbero evocare; sono dei centri mo­dernissimi, con strutture quasi fantascientifiche; quando entri dentro senti solo il fruscìo dei tuoi passi, ti pare di essere in un ambiente asettico, dove tutti i rumori vengo­no ovattati. Di tanto in tanto vedi passare dei volti sfug­genti: chi in camice bianco, chi nella classica tenuta verde intenso del chirurgo da sala operatoria. Ti chiedi: "Sono medici?".

Forse sì, o forse dei ricercatori che lavorano nelle cen­tinaia di metri quadri a loro disposizione, con apparecchi oramai sofisticatissimi. Vai avanti, piano, quasi trattenen­do il respiro, perché hai paura di far rumore... I corridoi sono lunghi, con luci soffuse... porte, numeri di stanza; sbirci furtivamente da una porta e vedi due letti candidi e i volti pallidi e sofferenti di due persone... ammalate e corse lì, come te, come tanti altri alla ricerca di una "spe­ranza" di guarigione che in questi posti, all'avanguardia della ricerca scientifica, della tecnologia, della terapia antalgica (parola difficile che significa curare il dolore), ti hanno detto è possibile "trovare".

Non li chiamano più ospedali, né case di cura ... ma "centri di riferimento" e chi si ritrova a dover gestire la diagnosi di un male incurabile tenta... disperatamente la via della speranza che lì viene proposta.



Dalle cattedrali della speranza

L'idea di iniziare un ciclo di riflessioni sul tema della speranza, è nata là dentro, a contatto con volti e con sto­rie di persone che cercavano il bene prezioso della salute minacciata e persa, chi con una speranza quasi rassegna­ta, al limite del fatalismo, chi con una forza d'animo e di amore per la vita incredibile e incrollabile.

È nata là dentro, in lunghe ore di assistenza ad una delle persone più care della mia vita, mio fratello, a cui tutte queste riflessioni sono dedicate, perché nelle parole e nei silenzi della sua malattia ho potuto capire, ben oltre i discorsi pianificati e razionali dei libri, cosa significhi la ricerca e l'attesa della speranza.

E nata là dentro la convinzione che questa molla di vita, la speranza appunto, può aiutarci a vivere con dignità il momento della sofferenza e del dolore, può leni­re la terribile ferita del distacco totale che è la morte di una persona amata, può far gustare i momenti belli di una vita vissuta con pienezza di significato e di amore.

Può purificare il cuore rendendolo capace di cogliere ciò che davvero conta nel nostro vivere, può dare lucidità nel compiere scelte essenziali, per le quali si pensava di non avere il benché minimo coraggio per affrontarle.

E poi discerne..., separa in materia netta le amicizie vere da quelle false, le persone insostituibili da quelle che fanno da corollario spesso interessato alle nostre esisten­ze. Nel giro di alcuni mesi ho visto con i miei occhi, ma soprattutto con gli occhi del cuore, che cosa significhi mettere l'oro dell'Amore nel crogiuolo e portarlo alla sua massima purezza, fuori da ogni parola superflua e da ogni incanto o illusione a cui spesso questo sentimento essenziale di vita viene sottomesso.

E là dentro ho capito che la speranza non è solo una "mia", una "nostra" ricerca; no, sarebbe come pretende­ re di voler scalare una montagna dalla vetta inviolata solo con la forza delle nostre braccia e la spinta delle nostre gambe, quando noi «non siamo allenati a far che salterelli non più alti di un filo d'erba», come diceva il grande filo­sofo esistenzialista Soren Kierkegaard.

Bisogna cercare, ma bisogna anche imparare ad attendere; soprattutto bisogna imparare ad accettare che non sempre gli eventi della vita concordano con la nostra speranza e che allora deve essercene una di più grande, di infinita, di assoluta, nella quale trovano senso le nostre povere e piccole speranze umane.

Lo diceva già s. Agostino: «Signore, il nostro cuore è inquieto finché non trova pace in te».



Cerco speranza

Uno psicanalista americano, di origine italiana, assai famoso tra gli addetti ai lavori, Silvano Arieti, ha fatto un'interessante e lucida lettura dei decenni dal 1940 al 1970.

Senza voler assolutizzare nulla, ritengo tuttavia che ci siano degli spunti, nella sua analisi, che possono farci riflettere e fare da "plafond" al nostro cammino di spe­ranza.

Gli anni '40 sono definiti "l'era dell'ansia": è facile capire che in quel contesto di guerra, di stragi, di genoci­di che hanno lasciato un segno infamante sulla storia, di famiglie distrutte, di povertà, di distruzione, tutto era assolutamente precario: oggi poteva esserci e domani non più... Un'ansia che molti si sono poi portati dietro per tutta una vita, come angoscia esistenziale per quanto hanno visto e vissuto.

Gli anni '50 hanno capovolto la situazione: c'era tanta voglia di riprendersi quello che si era perduto, di ricomin­ciare daccapo, di rituffarsi dentro ad una vita che, avendo già negato tanto, poteva però ripresentare un modo per dimenticare; ecco "gli anni della alienazione". Un benessere rifiorente in molti paesi occidentali, l'inizio del boom economico, la possibilità di avere qualcosa di pro­prio da gustare: la casa, l'auto, un lavoro.

Buttarsi a capofitto in questa realtà per dimenticare: ecco l'alienazione.



Dove la speranza non rifiorisce

Gli anni '60 sono facilmente catalogabili: è "l'era della rabbia". Dapprima sottile, poi sempre più forte e violenta, come una bufera che si scatena e tenta di strap­pare tutto, come una valanga che, rotolando a valle, porta ogni cosa con sé.

Adesso nel parlare di '68 sembra di ripescare un cime­lio storico, eppure chi ha vissuto quegli anni (e sono i qua­rantenni di adesso) ricorda una carica di idealità e di voglia di partecipazione certamente scomparse ai nostri giorni, espresse tuttavia con una forza bruta, cieca e violenta.

Non si è mai cambiato il mondo uccidendo le persone; era l'inizio dei terribili anni di piombo, delle stragi ancora impunite o spesso ridotte alla ricerca di qualche capro espiatorio da dare in pasto all'opinione pubblica, accusan­do prima, smentendo poi! Rabbia e confusione, aggressi­vità cieca, odio teorizzato, violenza indiscriminata.

Gli anni '70: l'analisi è concorde: il livello di benessere raggiunto è notevole e va sempre più aumentando, salvo restando che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Eppure non c'è felicità... chi aveva puntato sul succes­so, sul denaro, sulla carriera, sul possedere, si trova fru­strato e avvilito. Gli analisti vedono giusto: comincia in maniera sempre più evidente "l'era della depressione". È una depressione latente, strisciante, che si insinua nella vita, che genera scoraggiamento, malessere, disagio inte­riore. Vorresti scappare e come un'ombra ti segue, come l'aria la respiri.

Si punta tutto sul culto di sé, sul mito dell'autorealizza­zione a tutti i costi, sulla propria autosufficienza, ma non serve a frenare la nostra civiltà dal consumare tonnellate di ansiolitici e antidepressivi...



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:02

E i nostri giorni?

Fin qui l'analisi di Arieti. Il resto è roba dei nostri giorni. Gli anni '80: potremmo definirli "l'era dell'homo pavidus": un uomo impaurito, sempre sotto la minaccia di una guerra fredda che si faccia calda, di una guerra chi­mica o atomica che sarebbe la fine del pianeta, di una civiltà super-industrializzata ma che si ritorce come boo­merang contro di noi: inquinamento, nuove malattie, insi­curezza e inquietudine sempre più evidenti nelle giovani generazioni, frenesia di vita, forme nevrotizzate assunte come modo di vivere... La lista potrebbe continuare e qui ciascuno potrebbe metterci qualcosa di suo.

E poi gli anni '90: sono iniziati, per alcuni aspetti con dei buoni auspici, per altri con nuove forme di aggressione e paura di una pace che, ritrovata da una parte, si frantu­ma in un'altra zona del pianeta terra. Si potrebbe azzarda­re una previsione sulla caratteristica di questi anni '90, alle soglie del 2000? Forse sì: potrebbe essere "l'era dell'ho­mo fugiens", di un uomo fuggitivo e sfuggente insieme. Ma perché scappa?

Scappa perché gli è insopportabile stare a contatto con se stesso, ha paura del silenzio, della sua solitudine, ha paura di guardarsi dentro e di scoprire la propria inac­cettabile vulnerabilità.

Scappa dagli altri, perché ha paura di una intimità che divenendo troppo profonda e coinvolgente lo costringa a svelare e a svelarsi nei suoi veri sentimenti e a chiamarli per nome; e questo proprio non lo sa fare perché di fronte ai propri sentimenti spesso si sente come un... analfabeta.

Scappa da un impegno di responsabilità fedele e dura­tura, preferisce rifugiarsi in quello che viene definito il "contemporaneismo", il vivere il momento, il qui e l'ades­so, per non angustiarsi con il futuro, per non crearsi degli inutili e imbarazzanti legami con il passato.

Ricordate il film "L'attimo fuggente"? Imparare a suc­chiare il "midollo della vita", ma attenzione a non stran­golarsi con l'osso!

Scappa, scappa... da tutto ciò che è dolore, sofferen­za, morte.

Scappa ma non sa dove andare, gira attorno a se stes­so fino a cadere sfinito, perché gli manca lo spiraglio verso l'alto, la capacità di un assoluto che trascenda la sua vita e gli faccia rivolgere occhi e cuore verso il cielo, per ricominciare a guardare in alto, per appagare la sua sete repressa di infinito.



La speranza si fa attesa

Ci sono tanti mercanti di speranza ai nostri giorni. La vendono con parole spesso suadenti e adulatorie, la mer­cificano negli spots pubblicitari sempre più invadenti e ossessionanti; forniscono ricette a buon mercato per usci­re dalle spirali della paura, dell'ansia, della tristezza; ti propongono il miraggio di una scienza che potrà risolvere tutti i mali... Illusioni, lusinghe, chimere!

La speranza non è sempre così a buon mercato: basta guardarsi attorno, guardare i volti della gente e ancor più entrare nel vissuto di tante persone per trovare certamen­te la voglia di avere in sé un po' di speranza, meglio di essere uomini e donne di speranza; ma nello stesso tempo c'è anche tanto smarrimento e tanta confusione, perché se uno pretendeva di costruirsela, si trova con le mani... bucate.

La speranza domanda che si impari anche ad "atten­derla".

Ciò vuol dire, in concreto, non lasciare che al nostro cuore passino inosservati alcuni eventi di vita che, per altri, potrebbero essere insignificanti e che invece alla nostra sensibilità suggeriscono ed evocano la capacità di meravigliarsi, di provare stupore e di uscire da un tran tran quotidiano fatto di indifferenza che talvolta sconfina nel cinismo.

La speranza del cuore domanda, allora, la capacità di vivere nel tempo, adeguandoci al passo di Dio e assieme a Lui di assaporare la novità e la freschezza dell'...attimo fuggente.



Alle radici della Speranza

Ci siamo già detti come sia importante, per sco­prire la speranza, imparare a distinguere i falsi miraggi, le illusioni e le utopìe di tanti pseudomaestri di vita, da ciò che qualche anno fa il grande poeta e saggista Davide Maria Turoldo, in occasione di una grave malattia irreversibile aveva definito "lo scandalo della speranza".

Questo ci chiede di fare uno sforzo di chiarificazione e di discernimento per andare a vedere le vere radici della speranza, per saggiare la loro vitalità e la loro forza di tenuta nel terreno del cuore.

Ma attenzione ad un grosso tranello che trasforma in piena assurdità sia la ricerca sia l'attesa della speranza nella vita. Qual è questo tranello? Vorremmo capirlo, come già altre volte abbiamo fatto, con un genere lettera­rio particolare, che è quello tipico degli aneddoti orientali, mai fine a se stessi, ma sempre orientati a trasmettere una profonda verità esistenziale.

«II maestro seguitava a sfregare un mattone sul pavimento della stanza in cui il suo discepolo sedeva in profonda meditazione e prendendo degli appunti.

Dapprima il discepolo ne fu contento, pren­dendola come una prova per dimostrare la sua capacità di concentrazione. Ma pian piano quel rumore, provocato dal maestro con il mattone, divenne insopportabile: allora quasi con rabbia il discepolo gli disse: "Ma cosa stai facendo? Non vedi che io sto meditando e scrivendo il frutto della mia illuminazione interiore?".

Il maestro, imperturbabile, ribatté: "Su che cosa stai meditando e prendendo appunti?".

E il discepolo: "Sto meditando e scrivendo le mie intuizioni sulla speranza".

"Ah, bene - disse il maestro -; io invece sto levi­gando questo mattone per farne uno specchio... ". Il discepolo lo guardò incredulo e proruppe: "Sei pazzo! Come puoi ricavare uno specchio da un mattone?".

Il maestro una volta ancora non si scompose, ma disse solamente: "Non più pazzo di te! Come puoi ricavare uno che cerca speranza da un ego­centrico?"».



Un tarlo che rode...

Come sempre, queste parabole orientali fanno centro nel colpire qualche aspetto del cuore o della vita che va assolutamente ridimensionato.

La speranza non è mai frutto né di pura curiosità intellettuale né di velleitari volontarismi che sono sola­mente una emanazione di un "io" gonfiato a dismisu­ra, una specie di io-mongolfiera solamente centrato attor­no a se stesso e alle proprie conquiste.

La moda dilagante di un certo selfismo (parola tecnica meglio comprensibile come culto di se stessi), non può conciliarsi con la ricerca e l'attesa della speranza, perché mira a quella totale autorealizzazione di se stessi, che non è in sé da condannare, ma che se perseguita come unico fine della propria vita, annulla la ricerca della speranza. È un aggrapparsi al raggiungimento di effimere certezze e sicurezze materiali: successo, denaro, prestigio nel jet-set sociale; ad un look di facciata che cerca sostanzialmente approvazione; ad una gratificazione immediata e "concre­tista" nel tutto e subito di cui gran parte della nostra cul­tura risente, soprattutto sotto la spinta di queste forze non sempre allineate con un vero aiuto alla crescita delle persone.

E questo tipo di autorealizzazione è un "tarlo" che rode nel cuore di tanti di noi.



Come sperare?

Sarebbe davvero sciocco, come quel discepolo di cui si parlava sopra, che noi tentassimo anche una sola defini­zione della speranza. Ciò che invece ci è possibile fare è percorrere qualche sentiero che ci aiuti ad intravvedere uno spiraglio di cielo, un inizio di terra promessa chiama­ta "speranza".

Imparare a sperare credo significhi avere occhi nuovi con cui guardare alla nostra situazione; non si tratta tanto di mettere quei famosi... occhiali dalle lenti rosa, per vedere la realtà in maniera diversa; questa sarebbe una vera e propria distorsione percettiva e porta seri guai a livello di un sano equilibrio psicologico.

Non si tratta neppure di cadere in quello che viene spesso chiamato il "mito di Pollyanna", la brava ragazzina dell'omonimo romanzo di E. Porter, portata sugli schermi e resa famosa da un film della Walt Disney Production. Pollyanna sapeva cavare una venatura di bene e di ottimi­smo in tutte le cose e questo ridava il sorriso a tante per­sone arrabbiate con la vita.

Intenzione encomiabile sia nel romanzo che nel film, ma non sempre possibile nella vita reale dove non è vero quanto dice uno dei "grandi" esponenti della psicologia moderna, Cari Rogers, e cioè che "tutti i fatti ci sono amici"... Ce ne sarà sempre qualcuno di più ostico e duro che non riusciamo a mandare giù, e ognuno, credo, ne fa esperienza sulla propria pelle, non vi pare?

Si tratta allora d'imparare a guardare in avanti o meglio d'imparare a "guardare in alto" senza continua­re a guardare con struggente nostalgia ciò che abbiamo lasciato nel nostro passato, ma anche senza attaccarci troppo agli idoli del nostro presente.

Imparare a operare dei "distacchi" con quest'occhio rivolto al futuro, è certamente una possibilità di cammina­re sui sentieri della speranza. In fondo, nell'esperienza biblica, sia Abramo, sia Giacobbe, sia Mosè stesso hanno cominciato a vedere il realizzarsi di una promessa di spe­ranza a loro fatta, proprio a partire dai propri personali e spesso dolorosi... distacchi.



La rivalutazione del "desiderio"

Fa parte di una nostra educazione, ricevuta spesso entro un àmbito anche religioso, il fatto di avere reso tabù tutti i desideri della nostra vita.

È stata certamente un'estensione indebita e una cattiva interpretazione dei due ultimi "comandamenti" proposti dall'Antico Testamento: «non desiderare la donna d'altri; non desiderare la roba d'altri...».

Il desiderio non è in se stesso cattivo. Esso è la molla che ci permette di formulare delle attese, delle aspet­tative, di rendere consapevole anche a noi stessi una gerarchia di possibilità che vorremmo vedere attuate nella nostra vita.

Se io chiedessi a bruciapelo a ciascuno di voi che state leggendo queste righe: «Prova a formulare in maniera istantanea, senza pensarci troppo, tre desideri che vorre­sti vedere realizzati nella tua vita...», (provate magari a farlo, sì, proprio adesso), questi desideri vi darebbero il polso di una situazione personale proiettata in avanti, che ha delle sue prospettive su come vorrebbe vivere o realiz­zare qualcosa di significativo per se stessi e/o per gli altri. È un cuore aperto a... qualcosa o qualcuno che ci fa sognare ad occhi aperti, che magari al momento è irrea­lizzabile, ma esprime tutta la propria carica vitale e di ricerca.



Un cuore aperto alla fiducia

Un cuore aperto vuol dire fiducia nuova nella vita, proprio là dove spesso abita solo il nostro pessimismo sottile ma esteso.

Ricordo di aver trovato scritto, da qualche parte, che i furbi e i pessimisti collocano ovunque uscite di sicurezza, campanelli di allarme, botole più o meno nascoste, per­ché sospettano di tutto e tutto viene avvelenato dal loro cronico sospetto. Ma questa impostazione è una genera­lizzazione disfattista di qualche pur reale incidente di per­corso personale e ci porta a vedere con le ...lenti affumi­cate, a vedere tutto nero.

Un altro maestro della psicologia evolutiva del nostro tempo, Erik Erikson, mette la fiducia al primo posto per un sano e armonico sviluppo della personalità del bambino. Il bambino possiede antenne lunghe, e già prima di essere in grado di capire con la ragione se una realtà o una persona meriti la sua fiducia, percepisce in maniera inequivocabile il calore dell'amore e dell'acco­glienza che il suo ambiente gli offre, e soprattutto coglie la temperatura della "fiducia" che lo circonda. Ansia, paura, freddezza sono spesso ferite profonde assai poco rimarginabili se sperimentate in queste primissime fasi della vita.

Ricordo che un mio insegnante portava spesso questo paragone: se noi pungiamo con uno spillo un embrione potremmo causare un danno irreparabile: se con lo stes­so spillo noi pungiamo una persona adulta, beh, sentirà la puntura, ma non dovrebbe avere pericolose conseguen­ze, purché non si siano punte parti delicate e vitali.

Così è per la fiducia: se viene a mancare già nei primi anni di vita, saremo facili profeti nel dire che quella per­sona vivrà con poca o nessuna speranza anche le succes­sive fasi della sua evoluzione.

Davvero la fiducia può trasformare una persona e darle una speranza che la rianima: essa è la premessa indispensabile per ogni dialogo in cui ci si voglia vera­mente svelare.

In Bernanos, il grande romanziere francese, essa si traduce nelle ultime parole del suo "curato di campagna" «Tutto è grazia».

E s. Paolo, nel suo bellissimo inno all'Amore nel capi­tolo 13 della prima Lettera alla comunità di Corinto, dice: «L'Amore tutto sopporta, tutto crede, tutto spera, tutto vince».

Non possiamo dubitare che questo Amore "paolino" sia targato... speranza!



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:03

La Speranza: un cammino, una lotta, un rischio...

Ormai può essere divenuta quasi un'abitudine, ma tant'è: i miei studenti spesso si passano parola, perché sanno che inizio ogni corso, beh, non proprio tut­ti i corsi, ma parecchi, con un'idea che può sembrare un pallino fisso e in realtà forse lo è.

Parlo a loro di come nella vita non ci si possa mai "a­dagiare" sulle cose conquistate, di come non si possa mai dare per scontato l'aver superato per sempre e in manie­ra totale una situazione problematica e conflittuale, per­ché nella vita potrebbe tornare a far capolino e reimpe­gnare le nostre forze per non lasciarci comprimere da es­sa e vincere...

È un ritornello costante che quando le cose contano domandano la fatica di un cammino, spesso arduo e diffi­cile, come certi sentieri di montagna lungo i quali sali an­simante e con il cuore impazzito, ma che alla fine ti por­tano di fronte ad un paesaggio inaspettato, meraviglioso, carico di una poesia e di una magia arcane.

Le cose che contano... la Speranza è una di queste, è molto preziosa e vale la fatica del metterci in cammino, di essere giovani, uomini, donne dal cuore "pellegrino"; è la prospettiva di un grande pensatore e filosofo francese, Gabriel Marcel, che pensava alla nostra vita nella dinami­ca affascinante dell`Homo Viator", una espressione lati­na che dice esattamente il senso di essere insieme sulla strada, di camminare e di cercare insieme.



Per non stancarci di camminare

Avete mai sentito parlare della storia di... "Senzafret­ta"? Concedetemi due minuti e poi dite a voi stessi che cosa ne pensate.

Si racconta che un re possedeva un diamante assai prezioso. Un bel giorno (anzi, un brutto gior­no), il diamante sparì dallo scrigno dove egli pen­sava fosse al sicuro e ben custodito. Allora il re bandì un editto, mettendo a disposizione un gran­de premio in monete d'oro per colui che fosse sta­to in grado di ritrovare il preziosissimo diamante.

Si presentò per primo un tale detto "Occhio di Falco", proprio per l'acutezza e la scaltrezza del­la sua vista. Era in questa qualità che Occhio di Falco confidava per ritrovare il diamante sparito. Partì, cercò, guardò, scrutò a lungo per paesi e villaggi, in cantine e soffitte ma, cerca e ricerca, niente... non riuscì a trovare nulla e se ne ritornò scornato e deluso alla corte del re.



Missione fallita!

Allora si pose alla ricerca del diamante un tale che tutti chiamavano "Senza Paura"; il nome se lo era meritato per il coraggio e l'audacia più vol­te dimostrata in imprese assai rischiose. Ed egli confidava molto in questa sua dote. Avrebbe af­frontato ogni rischio pur di ritrovare il diamante. Cercò... cercò molto, per terra e per mare; af­frontò situazioni al limite delle possibilità umane ma anche lui, un bel giorno se ne tornò alla corte reale, ammettendo a denti stretti: «Missione falli­ta, maestà!».

A questo punto si presentò a corte, chiedendo di partecipare alla ricerca del diamante, un tipo strano, una specie di bizzarro giramondo; lo chia­mavano tutti "Senzafretta". Nessuno, in quel regno avrebbe scommesso un soldo sul fatto che proprio lui sarebbe potuto riu­scire in un'impresa dove altri, molto più esperti e scaltri, erano miseramente falliti.

"Senzafretta" partì e per un bel po' di tempo nessuno seppe più nulla di lui; era come sparito nel nulla. Ma dopo alcuni mesi, nei quali oramai era stato dato per disperso, eccolo ripresentarsi a corte con il suo passo tranquillo, lento eppure de­ciso. Fra la curiosità di tutti frugò lentamente nel­la sua borsa di cuoio sdrucito e, tra la meraviglia e gli "ohhhh" di stupore generale, ecco ricompari­re tra le sue mani, proprio davanti a tutti, il favo­loso diamante tanto cercato, splendido nei suoi ri­flessi di luce e colore.

Che ne dite di questa "parabola"? Personalmente la trovo molto ricca di significato, e non tanto per il mondo dei bambini, quanto per quello dei giovani e degli adulti.

La trovo significativa per un motivo molto semplice: la vita è sì un cammino, ma va vissuto senza quella terribile frenesia che è la matrice delle nostre ansie, delle nostre impotenze, delle frustrazioni e dei fallimenti a cui andia­mo incontro.



Una nemica della speranza

La frenesia ci ha fatto perdere il senso di un cammina­re regolare e tranquillo, ci porta a correre di qua e di là con il rischio di non combinare granché, ci fa essere pos­seduti dal tempo e incapaci di... dominarlo noi stessi.

Frenesia: non si può cercare la speranza se in noi c'è questo modo di vivere; è purtroppo una forza eguale e contraria che annulla ogni nostro sforzo di cammino e di ricerca.

Eppure sembra che tutti ne siamo schiavi; sembra che se camminiamo solamente, e non corriamo, tutti gli altri ci sorpassino inesorabilmente e noi siamo destinati a re­stare ultimi. Ma la vita è come una maratona: vince chi sa dosare meglio le proprie forze, altrimenti si corre veloci per i primi 30 Km e poi... si scoppia!

I grandi maratoneti sanno costruire le loro vittorie, la conquista di un traguardo tanto sognato, sul senso del rit­mo, non su quello della frenesia della corsa.



Cerco speranza... ma in un mondo "diverso"

Qualche giorno fa, proprio in un colloquio con una ra­gazza che fa parte di un Gruppo di spiritualità vocazionale, lei affermava con uno stupendo candore: «Sai, io desidero la Speranza con tutte le mie forze, ma so che per arrivarci devo "lottare", perché ci sia un mondo diverso...».

È stato anche il mito del '68, quello di costruire una società diversa, ma quella lotta era stata davvero molto mal capita. Era poi diventata non una lotta contro tutto quello che ti impedisce di costruire qualcosa di "diverso" partendo da te stesso, ma una lotta armata contro tutto e contro tutti, "gambizzando" (cioè sparando alle gambe della gente) e poi... alzando la mira, sparando per uccide­re. UN MONDO DIVERSO NON SI COSTRUISCE CON LA VIOLENZA, uccidendo gli altri.

Quella ragazza mi diceva anche: «Io non sogno un mondo come quello presentato dai films o dalle telenove­las interminabili, dove trovi un ambiente che è falso e non è costruito a misura umana; non m'interessa quel mondo di celluloide... Vorrei un mondo diverso dove ci sia più solidarietà per aiutarsi e non un chiudere gli occhi per ignorarsi». (Ricordate il sacerdote e il levita nella para­bola del Buon Samaritano?).

«Vorrei trovare la Speranza perché, se io o qualcun al­tro abbiamo bisogno di aiuto, ci sia qualcuno disposto ad "ascoltarti" e a camminare per un tratto di strada con te».

Sono delle utopìe? Delle illusioni? No, se insieme ac­cettiamo il rischio di una lotta, una lotta particolare, come la chiama Frère Roger Schutz di Taizé: la "lotta dei pacifici".



Lotta alle nostre paure

È una lotta contro le paure che ci frenano e ci paraliz­zano, e alla fine ci tolgono la speranza.

La paura di non riuscire, di sbagliare, di un giudizio de­gli altri che può metterci in crisi.

La paura di non farcela ad essere davvero se stessi, di non poter esprimere con qualcuno o qualcuna la carica di affettività che ci portiamo dentro.

La paura di sentirci inutili, incapaci; la paura di trovar­ci improvvisamente soli e quella di non riuscire a sceglie­re, a fare il salto al di là di quel benedetto steccato che spesso imprigiona le nostre vite.

Quante paure dentro di noi bloccano energie e poten­zialità meravigliose! È essenziale imparare a conoscerle, per guardarle in faccia, per non lasciarle diventare dei fantasmi aleggianti in maniera misteriosa e carica di sug­gestione nella nostra vita e nel nostro cuore.

Solo così puoi trovare il coraggio di guardare in faccia quello che ti spaventa, solo così puoi togliergli quella for­za emotiva che ti opprime, solo così puoi cominciare a li­berarti da qualche paura o a convivere con quelle da cui non sempre si riesce a liberarsi.

Sento che le parole di quella ragazza risuonano martel­lanti dentro di me, mi confondono e insieme mi provoca­no. Eppure la strada è questa: la speranza, la felicità, la serenità, l'Amore, insomma un mondo "diverso", incro­ciano la strada delle mie e delle tue paure e domandano la capacità di lottare e di credere che in questa lotta non si è soli e non si è... perdenti.

C'è un personaggio nella Bibbia che ci incoraggia a questo: è Giacobbe; benché solo, lottò con uno scono­sciuto che era l'Angelo di Dio, per ottenere la sua benedi­zione. E la sua tenacia, il suo coraggio vengono premiati. Quel luogo, chiamato Penuel, lo si può vedere anche ai nostri giorni e quel nome significa "a faccia a faccia con Dio".

La lotta contro le nostre paure, la lotta per la speranza ci porta... a faccia a faccia con Colui che solo può liberarci dalle paure e solo può dare saldezza alla nostra povera e vacillante Speranza (cfr. Genesi 32,25-33).



Un rischio... tre speranze

Non sto incitando nessuno ad una... "vita spericolata", però è vero che se non impariamo a prenderci anche qualche rischio restiamo sempre al palo di partenza. Non entreremo mai nella categoria dell'homo uiator; non sa­remo mai capaci di liberarci dal condizionamento cultura­le della frenesia, e soprattutto, quando ci sarà una possi­bile realtà che domanda lotta e coraggio per affrontarla, ci tireremo indietro preferendo la nostra comoda "nidifi­cazione" nelle cose che non disturbano, la nostra quiete o meglio la nostra pigrizia.

Non dobbiamo fare gli "stunt-men" (le controfigure de­gli attori che nei films di azione si assumono le parti più pericolose e forse anche più spettacolari), e non credo neppure che dobbiamo arrivare allo slogan "il rischio è il mio mestiere"; niente di tutto questo esibizionismo. Sem­plicemente il coraggio di non tirarci indietro quando tocca a noi dare una risposta, quando siamo chiamati in causa in prima persona e ci verrebbe voglia di accampare tutti gli alibi possibili per abbandonare la posizione e per delegare a qualcun altro il nostro posto. Questo vale nelle piccole come nelle grandi scelte della vita.

Va bene il rischio, ma da quando la speranza si è... tri­plicata? Seguimi ancora per un attimo.

C'è una speranza "microscopica" ed è legata alle "tue" piccole cose della vita di ogni giorno, quelle realtà che puoi scegliere o subire, fare con passione o con disinte­resse; sono quelle piccole zone franche di Amore e di Bontà che ci sono dentro di noi e che basterebbe solo sgomberare da tanto materiale accatastato lì, ma ormai i­nutile e vecchio.

C'è poi una Speranza "macroscopica": ne abbiamo parlato prima, ed è quella che ci aiuta a cercare di pensa­re e di costruire quel mondo "diverso" che non è solo u­topìa di qualcuno.

Sono realtà vere e possibili e non "fittizie", come dice­va uno psicologo famoso, di nome Alfred Adler. Chi con­sidera fittizie la costruzione della pace, la ricerca di una maggiore giustizia, di una condivisione, dell'Amore osti­natamente voluto, è terribilmente condannato dal suo pessimismo ad un immobilismo cieco e soprattutto... non ha un cuore giovane.

E infine c'è una Speranza "telescopica": è come guar­dare con occhi affascinati dentro ad un telescopio, scruta­re il cielo in una notte di stelle e cogliere la luce di una Pulsar, di una stella luminosissima.

Questa è la mia e la tua Speranza per la quale vorrem­mo camminare insieme, lottare e rischiare insieme: la speranza di guardare lontano, in alto, di guardare ai pun­ti-luce dell'Universo e dell'Assoluto.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:03

Dimmi come vivi e ti dirò chi sei

Per capire meglio come si pone a noi il problema della Speranza e perché spesso, nei suoi confron­ti, ci scopriamo esitanti, dubbiosi, carichi di incertezze e perplessità, vorrei quasi "interrogare" con voi quello che io ritengo uno fra i più grandi scrittori religiosi del nostro tempo, ma insieme anche scienziato dedito alla geologia e alla paleontologia: Pierre Teilhard De Chardin. E un ge­suita francese, vissuto tra il 1881 e il 1955, capito trop­po tardi nelle sue ardite concezioni spirituali, connesse a delle lucide introspezioni psicologiche ed esperienziali sul­la vita umana.

Dal 1926 al 1946 lavorò in Cina, dove era stato prati­camente esiliato, a Tiensin e a Pechino.

Vorrei chiedere a Teilhard, come se lui fosse qui, in u­na specie di dibattito immaginario che supera le leggi del tempo, se davvero gli atteggiamenti fondamentali della vi­ta di ognuno possano dirci qualcosa del suo modo di es­sere profondo. Credo che la sua risposta potrebbe essere più o meno questa.



A colloquio con Teilhard

«Vedete, amici, noi potremmo immaginare un gruppo di escursionisti, che partono alla conquista di una vetta difficile. È un paragone che può calzare per persone gio­vani, magari amanti dell'avventura o di qualche cammina­ta in montagna.

Proviamo però a passare in rassegna il nostro gruppo qualche ora dopo la partenza. A questo punto è molto probabile che la comitiva, che era partita insieme e con slancio, sia divisa ora in tre tronconi.

Alcuni rimpiangono di avere lasciato il Campo o l'al­bergo; lì si stava comodi, si poteva prendere il sole e ri­posarsi. La fatica e forse il pericolo della escursione sem­brano sproporzionate all'interesse della conquista di quel­la vetta a cui avevano mirato.

Altri non sono per nulla dispiaciuti di essersi messi in cammino; il sole risplende in un cielo terso e carico di az­zurro, il panorama è meraviglioso, l'aria che si respira è piena di ossigeno e dilata i polmoni, abituati come siamo all'ossido di carbonio delle nostre città... Ma a questo punto perché salire ancora, perché continuare a fare fati­ca quando tutto è così bello; ci si può godere la monta­gna dove si è, in mezzo ad un prato chiazzato di stelle al­pine o in pieno bosco odoroso di muschio e licheni. Così, appagati, si sdraiano sull'erba, aspettando che arrivi l'ora del picnic insieme.

È rimasto, infine, un gruppetto di veri amanti della montagna; i loro occhi non si staccano dalla vetta per la quale si sono messi in cammino e che hanno giurato a se stessi di conquistare, costi quello che costi... Pur vedendo gli altri fermarsi o ritornare indietro, loro stringono i denti e riprendono la salita...».



Non c'è speranza per... “i nati stanchi”

Fin qui è quanto ha voluto dirci, con il suo esempio, Teilhard De Chardin.

Proviamo noi ora a scavare un po' di più per capire il messaggio e decodificarlo nella nostra vita.

Il primo troncone lo potremmo definire dei "nati stan­chi"... Sono quelli (e ahimé sono tanti), che non amano fare fatica, che cercano tutti i possibili comforts, che si la­mentano in continuazione di questo che non va, di quello che non li capisce, di come la vita si presenti difficile e dura... In loro c'è sempre una velata apatìa che li porta alla rassegnazione e al valutare gran parte della vita, se non l'esistenza stessa nella sua interezza, con un atteggia­mento di profondo pessimismo.

Hanno occhi scoraggiati e sfiduciati, il loro passo è stanco, il loro modo di vivere è sentito come uno scacco continuo.

Per questi individui, il solo "pensare" alla Speranza è una ...illusione e la loro vita diventa un camminare stra­scicato, perché si tirano dietro una pesante palla di piom­bo legata al piede: il loro pessimismo!

In fondo, il loro slogan potrebbe suonare così: « È me­glio essere MENO che essere PIO; anzi, il meglio di tutto sarebbe non essere per nulla».

Solo piacere... niente speranza

La seconda "trance" dei nostri escursionisti, forse la fet­ta più consistente, è formata da una categoria di tipi che possiamo definire, tranquillamente, dei "bontemponi".

Sono allegri, gioviali e in fondo a loro non interessa far fatica ma piuttosto divertirsi. Là dove si trova questa op­portunità ci si ferma, un po' come dei farfalloni che una volta trovato il buon nettare di un fiore si fermano a suc­chiarlo, gratificati, fino in fondo.

Sono i figli della nostra cultura dell'immediato, quelli che amano cogliere ...l'attimo fuggente e fermarsi a quel­lo che "qui e adesso", senza difficoltà, viene passato co­me il piacere della vita.

Per loro il motto potrebbe essere: "Riempiamoci del momento presente". Una riedizione per nulla originale del vecchio "carpe diem", esaltato dal poeta latino Ora­zio, che non sempre ci ha visti, o ci vede attualmente, be­nevoli e compiaciuti nei suoi confronti, sui banchi di scuo­la durante qualche traduzione di ...latino.

Sono quelli che sul futuro e per il futuro non scommet­tono nulla, non rischiano nulla. Sono quelli per cui la Speranza resta una gran bella parola, ma che li lascia in­differenti e assopiti nel loro benessere presente.



Il coraggio dei "cuori ardenti"

Ci è rimasto l'ultimo gruppo, che non esiterei a defini­re il gruppo dei "coraggiosi", uomini e donne, giovani dal cuore ardente e tenace, per cui il vivere è una ricerca e u­na scoperta di valori preziosi; per essi la Speranza è un bene che vale lo sforzo di una dura salita, è una vetta che appaga pienamente la fatica fatta per raggiungerla.

Anzi, oserei dire che per essi la Speranza è la ricerca di un qualcosa di più, non in senso perfezionistico, ma nel riuscire a cogliere il loro punto di arrivo come il nuovo punto di partenza per la prossima vetta e quindi per una ulteriore scoperta. Non sono avventurieri, ma giovani in­namorati di "essere di più e meglio", sapendo che l'Esse­re che cercano è inesauribile nelle sue proposte e nelle sue risposte; che la Speranza che trovano è come un fo­colare di luce, di calore a cui è bello e anche possibile av­vicinarsi sempre maggiormente.

Qualcuno li deride, qualche altro li ritiene illusi o inge­nui, altri ancora li credono delle "teste matte" che non sanno capire il senso concreto della vita.

Si accomodino pure questi signori dal riso incredulo, come Sara, la moglie di Abramo, di fronte ai tre ospiti che le annunciavano la sua futura maternità, pur nella vecchiaia. Si accomodino... perché piano piano sarà il lo­ro riso a smorzarsi sulla bocca, quando vedranno che in quelli e da quelli che loro ritenevano ingenui, si prepara a sorgere la "terra di domani".



Se vuoi speranza, sii ...risoluto

Abbiamo visto che ci sono tanti modi per impostare la vita, tanti quanti sono le persone sulla faccia di questa ter­ra; ma è anche vero che noi possiamo trovare qualche "fil rouge", denominatori nel decodificare uno stile di vita e nel capire se esso porta o meno alla Speranza.

Certamente, non sono cercatori di Speranza quelli che hanno uno stile di vita "accartocciato su se stessi", dei ricci isolati per cui conta "ciò che a loro piace" più di ciò che ha un senso o un valore in se stesso.

Non sono cercatori di Speranza quella grande massa di "gregari passiveggianti" della nostra società e cultura, facilmente suggestionabili da quanto viene loro proposto dai mass-media, facilmente aggregabili a ciò che pensa la... maggior parte della gente, facilmente assimilabili ai comportamenti di moda, non importa se passeggeri e spesso anche contraddittori.

La loro regola di vita non è l'amore di qualcosa o qual­cuno, ma il timore, la terribile paura di "essere scomunica­ti" dagli altri, di non poter più fare parte del gruppo a cui si sono agganciati in maniera acritica e un po' insulsa...

Quanti di questi manichini fotocopiati l'uno sull'altro girano per le nostre strade!

Non sono cercatori di Speranza coloro che hanno fat­to del legalismo ad oltranza la loro unica ed inderogabile norma di vita. Si appoggiano ad una "legge" che diventa un totem sacro da adorare e venerare; sono anche quelli che in maniera nostalgica rimpiangono sempre il passato e dicono sconsolati: «Ai miei tempi non era così... ». E forse possono anche avere ragione, ma non è certo da coloro che soffrono di questa "sindrome del torcicollo" o che si appoggiano ad una rigidità legalistica e formale che ci si può aspettare il... colpo d'ala verso la Speranza.

Sono invece cercatori di Speranza coloro che hanno una qualità che il grande filosofo viennese Martin Buber, quasi contemporaneo di Teilhard De Chardin perché vis­suto tra il 1879 e il 1965, definisce come la virtù della "risolutezza". È una risolutezza e una fedeltà creativa di vita che non ha nulla da spartire con l'orgoglio che deri­va dal successo. In realtà significa evitare il nostro eterno zizzagare qui e là, l'andirivieni di tante esperienze della nostra esistenza che non hanno né capo né coda.

Sia chiaro, non è una cosa facile: si tratta di riprendere e "ricompattare" un cuore sfilacciato e disperso in tanti frammenti, una specie di puzzle che domanda la fatica della ricomposizione. Ma la Speranza si può cercare e trovare solo così: ri-concentrandosi e re-indirizzandosi verso la meta che essa rappresenta, anche quando abbia­mo imboccato strade sbagliate e vicoli ciechi.

C'è una forza divina che giace nelle profondità recon­dite del cuore umano ed è in grado di agire su di esso e trasformarlo, come è in grado di ri-fondere insieme tutti quegli elementi che tendono a separarsi.



La speranza si fa "responsabilità"

La parola "responsabilità" è di quelle che possono to­nificare una intera esistenza; sì, perché essa non può co­niugarsi separata dalla "libertà del cuore".

Aveva ragione il grande psicoanalista Victor Frankl, autore della Logoterapia, la terapia del "significato della vita", ad affermare con una battuta che celava tanta veri­tà sotto un velo di ironia: «Come si è costruita la statua della Libertà sulla costa dell'Oceano Atlantico, bisogne­rebbe costruire la statua della Responsabilità sulla costa dell'Oceano Pacifico...». La libertà ti aiuta ad andare al di là della possibile e talvolta inevitabile stanchezza che ti as­sale, rende duro il camminare e fa sentire forte la tenta­zione di arrendersi, di fermarsi, di tornare indietro.

È andare al di là dell'angoscia che ti prende quando le tue paure si fanno sentire più forti e ti sembra di non riu­scire a dominarle; e ti paralizza la mente, il cuore e ogni

slancio di iniziativa. È un andare al di là di un cuore angu­sto e stretto, mediocre, che dice: "Va bene così", quando non ha pensato che a se stesso.

È una Libertà che si fa Responsabilità.

Ce lo ricorda Erich Fromm, nel suo prezioso libro "L'arte di amare": responsabilità deriva dal verbo latino 44respondeo", vale a dire RISPONDERE.

È una risposta ad un appello di vita che chiede, ora sussurrando ora gridando... spiragli di Speranza.

È una risposta che "sa dare ragione della Speranza che è in noi", per citare una bellissima espressione presa al vo­lo dalla Prima Lettera dell'Apostolo Pietro (3,15). Non si dona, né si comunica quello che non si ha, anche se è sempre possibile cercare insieme agli altri di impreziosi­re il bagaglio di Speranza che, pur piccolo, può crescere e riempire di senso la nostra vita.

È una Responsabilità che - proprio perché chiede alla Speranza di farsi compagna di viaggio del cuore umano, soprattutto di tanti cuori giovani - può superare o addirit­tura far cadere il muro di tutte quelle "tristezze inutili" che appesantiscono la nostra vita, e la possono finalmente strappare alle fitte maglie di una rete chiamata imbaraz­zo, fatalismo e impotenza.

Cercare insieme la Speranza è, in fondo, un modo di aiutare se stessi... aiutando gli altri.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:04

Pietre d'inciampo sulla via della Speranza

Molte volte ci assale la voglia di essere dei grandi uomini o delle grandi donne che san­no presentarsi sempre al meglio della forma, capaci di su­perare ogni forma di difficoltà che si para davanti, che non si lasciano intimorire da eventuali imprevisti della vita, che sanno correre sugli ostacoli, come un grande atleta al­le Olimpiadi, senza né sfiorarli né esserne sfiorati; vorrem­mo non essere toccati da momenti di fragilità, incompren­sione, tristezza, ansia e paure varie che entrano nel pro­fondo del nostro cuore; vorremmo, talvolta, poter... cam­minare anche noi sulle acque della sofferenza umana.

Alla domanda "come posso essere un grande uomo o una grande donna", bisognerebbe imparare a rispondere con franchezza e semplicità: "Ma perché vuoi essere grande?". Essere un uomo, essere una donna... è già una impresa abbastanza grande, senza che ci si lasci prendere da inutili e illusorie fantasie infantili di onnipotenza.



Ogni cammino ha le sue pietre

Quando affronti qualche vecchia strada di borgata o di paese, quando ti inerpichi su per un sentiero di monta­gna, non puoi pretendere di trovarlo liscio o tappezzato da una soffice erbetta all'inglese.

Il cammino della vita, poi, è cosparso di pietre che spesso sono appuntite e sporgenti, raramente lisce e ro­tonde; se per caso cadi è difficile evitare qualche abrasio­ne e una buona botta.

Cosa bisognerebbe fare allora? Andare a spasso con un martello da spaccapietre per frantumarle tutte, ridu­cendole in polvere, o sotterrarle perché non siano più mi­nacciose nel loro sporgersi, o gettarle con tutta la nostra forza giù nel greto del fiume o (perdonate la battuta bana­le), avere come compagno di viaggio un ... Gabibbo che le pietre se le mangia?

Chi cammina lungo il sentiero della vita deve preventi­vare che ogni passo può essere insidiato da una pietra rozza e appuntita nella quale si può inciampare, farsi ma­le, ferirsi, sanguinare...

Non puoi evitare certi sentieri sassosi, cercando sem­pre lunghi giri viziosi per cammini su colline verdi, om­breggiate e dolcemente ondulate.



Quando inciampi e cadi

Quali sono le pietre che ci fanno inciampare e cadere? Ce ne sono di semplici, presenti nel cammino quoti­diano, ce ne sono di impreviste, spigolose e abrasive su cui il passaggio non è per nulla agevole.

Le prime potrebbero essere identificate nelle tensioni di ogni giorno: il lavoro che è andato storto, una relazio­ne significativa che si è incrinata, magari per una banali­tà, un progetto andato in fumo, una notizia che mette tri­stezza in cuore, un senso di stanchezza e di apatia che ti prende e ti paralizza, una persona affettivamente signifi­cativa che non ti ha capito, una reazione aggressiva spro­porzionata, e chissà quante altre "pietre" ognuno di noi potrebbe aggiungere a questa lista del quotidiano.

Ci sono poi delle pietre più aspre e sporgenti che... spengono il cuore, che tolgono la voglia di sperare e di dare con messaggi di speranza (ricordate i due di Emmaus, come se ne andavano col passo triste e rassegnato?). Queste sono le pietre di inciampo che divengono davvero una minaccia alla nostra capacità di sperare, che sotto­pongono la nostra voglia di vita ad un tenace assedio, che ci rodono dentro, come un tarlo, in un'angoscia che logora e intristisce.



Quando anche la speranza... inciampa

Troppe volte noi siamo malamente proiettati nel pas­sato o nel futuro; se sono i condizionamenti del passato a dominare la nostra vita, essi giungono ad ingombrare il "qui e adesso" che interpella la mia vita e la mia risposta responsabile e attuale.

Sono magari i continui ripensamenti su quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, per pigrizia, per ri­mandi di scelte importanti, per paura di correre un rischio, per timore di non essere all'altezza e di non farcela.

Sono anche gli sbagli che continuano a pesarci dentro come grossi macigni e che, pur risalendo a tanto tempo fa, continuano ad occupare il nostro cuore in eterni e au­tomaceranti sensi di colpa.

La sensazione è quella di portarsi appresso una sorta di peccato indelebile che ci rende colpevolizzati in eterno e rassegnati a non poterci liberare da esso.

Ci sono persone, anche tanti giovani, che continuano a torturarsi per aver lasciato perdere un'occasione, per non essersi aggrappati a quella persona per loro significa­tiva affettivamente, per sentirsi... non guardati, non ap­prezzati, non degni di attenzione e affetto.

Non pensano che tutti questi castelli in aria se li co­struiscono loro, dentro di sé, in una specie di "tristezza inutile", che porta a lasciare scorrere la propria vita... senza viverla per quello che essa offre.



La delusione del futuro

C'è anche una sottile ma diffusa delusione che viene dal futuro e porta a "sprecare" il presente. Si possono passare i propri giorni in un continuo inseguimento di quell'immagine ideale di noi stessi che vorremmo essere ma che, realisticamente, mai potremo diventare.

Così non si gusta mai nulla di quanto si è realizzato fi­no a questo momento della nostra esistenza.

Altri, invece, sospirano sempre un qualcosa di "diver­so" che loro stessi non sono in grado di definire, che il tempo futuro potrebbe portare, ma che è assolutamente impalpabile come l'aria... "Vanità delle vanità", direbbe il saggio Qoèlet!

La vita diventa "sogno" della grande avventura o del principe azzurro o della principessa rosa, un sogno che si svuota inesorabilmente in una triste costatazione: "Tutto qui quello che avevo sognato?".

Ma il problema vero è che tu avevi costruito le pre­messe della tua delusione su di una illusione che, in quanto tale, non poteva non infrangersi a contatto con la propria realtà di vita.

Attenzione però: questi sono atteggiamenti umanissi­mi; non si vuole né colpevolizzarli né ipocritamente getta­re gridolini di stupore.

Il desiderio può "vedere più lontano", ma poi la nostra umanità si trova consegnata ad un modo di essere molto più limitato, che potrebbe anche non piacere.

Ma io sono "questa" umanità, con quello che è e con quello che non è, con quanto vorrebbe essere e con quanto non può essere, almeno per il momento presente. Ipotecare il futuro poi, non è mai una scelta giusta.

Anche quello che non ho fa parte della mia realtà: è una presenza-assenza, è ciò che maggiormente desidero, è ciò che vorrei raggiungere, è ciò che mi spinge a cercare.

Questo è quanto io sono: non sarò perfetto ma nean­che da buttare via (spesso auto-cestinandosi); non sarò né onnipotente, né infinito, ma sono "ciò che io sono" e questa è già una cosa grande.

Se poi con un po' di realismo ci guardiamo intorno, ci si accorge che ci sono troppe situazioni di infelicità, di difficoltà, di privazione per continuare a vedere solo le proprie piccole limitazioni, e la vita dovrebbe davvero di­ventare una grande "sinfonia alla gioia".



L'agitazione sradica la speranza

A quei discepoli che gli chiedevano incessantemente "parole" di Speranza, il saggio disse: «La Speranza non si esprime in parole, si esprime nell'azione». Ma poi, quan­do li vide immergersi a capofitto nell'attività, sorrise scuo­tendo la testa e bisbigliò: «Questa non è azione, questa è ...agitazione».

E indubbio che il nostro ritmo di vita abbia oramai as­sunto delle "accelerazioni" impensabili solo fino a qualche decennio fa. I movimenti sono sempre più veloci e ci per­mettono di fare molte cose in spazi di tempo piuttosto brevi. Le informazioni ci arrivano in tempo reale su una pagina di Televideo, attraverso un fax o un notiziario del­la radio e della TV.

Ognuno di noi, quando guarda la sua agenda al matti­no, la vede zeppa di impegni, di cose da fare, e si meravi­glia se per caso c'è qualche buco di orario vuoto: non sa­prebbe come riempirlo.

La nostra vita sta diventando da frenetica a nevrotica, e la nevrosi come la frenesia sono sempre nemiche della speranza.

Il motivo è semplice: la speranza ha bisogno di un rit­mo pacato per crescere, una pacatezza in cui potersi con­centrare, in cui imparare ad ascoltare, in cui riprendere dimestichezza con il pensare.

Significa ri-trovare il tempo, la voglia e la pazienza di pensare "in proprio"; non è un tempo perso perché permette alle nostre batterie svuotate di ricaricarsi e di af­frontare con serietà, ma anche con maggiore serenità il nostro impegno quotidiano.

Ai giovani piace, di solito, la proposta di un tempo per il "deserto", però occorre aiutarli a non sprecare questo momento prezioso che viene loro consegnato e che non sono abituati a gestire, proprio perché la nostra vita è sempre in balia di una frenetica agitazione che ti ...svuota.

E quando il cuore è vuoto non può né sperare né do­nare speranza.

Certo, non si tratta neppure di fermarsi per fare trop­pi... calcoli.

Già nel Medioevo si usava chiamare queste persone troppo "calcolatrici" gli individui dal cuore "contratto", cioè gente dal cuore angusto, mediocre e stretto, piutto­sto facile da incontrare anche ai nostri giorni.

Un cuore così riflette interminabilmente prima di deci­dersi e, di solito, non approda ad alcuna decisione.

Dice il saggio: «Quelli che riflettono troppo prima di fare un passo, trascorreranno tutta la vita... su un pie­de solo».



Per cominciare a camminare sulle pietre

Non esiste soluzione immediata e semplice per fare i "canguri", che saltano felici sopra le pietre senza inciam­parvi. Se è vero però che l'esperienza propria e quella degli altri sono ottime maestre di vita, possiamo cercare di rintracciare qualche avvio segnaletico per non cadere sulle pietre della vita e farci sempre del male.

Una prima, essenziale regola di vita potrebbe essere questa: imparare ad accettare che sul nostro cammino esistano pietre di inciampo.

OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:05

Bella scoperta! - dirà subito qualcuno.

Eppure, ci sono delle realtà in cui non c'è nulla più che io possa fare; a quel punto non si tratta di arrendersi, ma di accettare che il corso delle cose, come quello di un fiu­me, ha il suo svolgimento e che è importante accettarlo con calma, senza inutili isterismi, direi quasi con dolcezza. Questa, sia ben chiaro, non è passività né rassegnazione fatalistica.

Accettare significa ammettere, senza arrabbiarsi, che gli altri sono fatti in maniera diversa da come io li vorrei, che ci sono sensibilità diverse e che non sempre io le posso piegare a quello che vorrei o che mi piacerebbe.

È imparare a "ripararsi" senza restare in balìa delle saet­te e della pioggia torrenziale di un temporale.

È concentrarsi sull'avvenimento che viene e, invece di andare in tilt e perdere la testa, lasciare che ogni cosa, o­gni persona, una per una, quasi "affettuosamente" esista.

Non serve a nulla trattare male le pietre che sono sul nostro cammino, arrabbiarsi perché esse sono lì e pren­derle a calci (oltretutto è assai rischioso per l'incolumità personale). Il trasferire grosse cariche emozionali aggres­sive su ciò che succede non serve a modificarle per nulla, anzi, fa soffrire noi stessi per primi. Il primo bersaglio di tale rabbia e aggressività diventiamo proprio noi stessi. Essere delicati con le pietre? Ma non è assurdo?

Non tanto, perché non saranno certo le nostre vampa­te d'ira a levigare le pietre. Con esse, credo sia più im­portante essere dolci e affettuosi; mi pare davvero che sia l'unico sistema perché non ci feriscano malamente.

Però, sia chiaro, non pensate che chi sta scrivendo que­ste cose riesca anche a farle... magari! Eppure sono pro­fondamente convinto di quanto detto sopra, proprio per­ché per anni ho seguito la via opposta senza approdare a nessun risultato; tanto vale allora cambiare, non vi pare? Ci sono delle pietre che non possiamo togliere dal sen­tiero della vita, non possiamo caricarcele sulle spalle per poi farle rotolare a valle; queste pietre penso sia impor­tante lasciarle indietro sul nostro cammino, da amiche, sapendo che lì ci sono e che in un successivo passaggio si può provare a non caderci sopra...

Se volessimo essere ancora più concreti, c'è ancora qualcosa da dirci: per esempio, ricordarsi che non si può vivere una vita impostata sul "SE"...

«Se avessi fatto così... se fossi stato... se ...». Quando questi "se" si fanno troppo frequenti, quasi automatica­mente si apre la via alla tristezza, al rimpianto, al rimorso.

È anche importante ritornare a "desiderare": non possiamo colpevolizzare il desiderio, perché esso porta in sé il seme di un progetto, di una crescita, di un cambia­mento, di uno stupore nuovo... di una Speranza.

E infine non serve a nulla banalizzare né teorizzare troppo le nostre piccole o grandi croci. Spesso vorrem­mo capirne il perché, ma non sempre questo è possibile.

Il dolore, la sofferenza, sono realtà concrete che tocca­no in prima persona... Elaborare la propria sofferenza non è una cosa facile, anche se può essere più accessibile quando trovi una persona "amica", ma veramente tale, con cui la puoi condividere.

Per integrare in noi la sofferenza c'è un'altra via, che ci porta diritta diritta sui sentieri della speranza: «Una donna, quasi schiantata dal dolore per la morte del figlio, si recò un giorno dal maestro, in cerca di conforto. Egli la ascoltò pazientemente, mentre ella riversava su di lui la sua triste storia. Poi dolcemente le disse: "Io non posso a­sciugare le tue lacrime, mia cara. Posso solo insegnarti a renderle sante: offrile nella tua preghiera; ti saranno ridonate in nuovi segni di consolazione e di speranza"».



La Speranza nasce da un cuore in pace

A o spunto per questo tema, che tocca in profondi­tà le fibre più recondite della nostra esistenza, mi è venuto dall'ascoltare quell'incomparabile testimone del Vangelo della carità che è Jean Vanier. Forse, il suo no­me potrà dire molto a qualcuno, mentre potrebbe dire poco o niente ad altri...

Jean Vanier è un ex capitano di marina, canadese, il quale ha dedicato gran parte della sua vita a seguire e a sensibilizzare l'opinione pubblica sul grande tema della carità verso gli ultimi, soprattutto per quelle forme gravi di handicap psico-fisico e mentale che troppo spesso so­no trascurate vergognosamente dalla nostra società del perbenismo e dell'efficienza, o che vengono tenute na­scoste per non turbare il nostro quieto vivere. Ma questo lo capiamo anche noi che non è Vangelo!



L'oscurità del cuore

Tante volte mi sono chiesto cosa davvero significhi vi­vere con un cuore riconciliato, con un cuore... in pace. È la domanda che mi affascina e insieme mi spaventa, co­me tutte le grandi domande che coinvolgono la nostra vi­ta stessa, come tutte le grandi "sfide" dell'esistenza.

Mi guardo intorno e vedo tante, troppe persone che in questo nostro mondo orientato verso il successo, il benes­sere, lo stare bene in maniera individualistica senza esse­re... scocciati dagli altri, in questo mondo che ci siamo co­struiti con le nostre mani, molta gente vive con il cuore oppresso dall'ansia, che spesso è vera e propria angoscia, dalla solitudine affettiva, che è mancanza di amicizia e in­timità; si vive la penosa esperienza di relazioni infrante (quante coppie separate, arrabbiate, frustrate...). Su tutto questo potrebbe aleggiare quella che in maniera angoscio­sa J.P. Sartre, filosofo francese esistenzialista, chiama la "nausea". Con queste condizioni di vita e di cuore si met­tono tutti i presupposti per la noia, il senso del vuoto e della inutilità, per l'enorme diffusione della depressione.

Non voglio assolutamente essere "profeta di sventura", fare la Cassandra apocalittica... ma per parlare e capire il senso della speranza che nasce da un cuore riconciliato e in pace con se stesso dobbiamo guardare negli occhi la grande povertà morale e spirituale che si nasconde dietro il "look" di ricchezza, successo, prestigio e potere della no­stra epoca.

È quello che, in un suo romanzo, B. E. Ellis chiama con uno slogan neppure tanto paradossale ..."meno di zero". Noi non vogliamo andare "sotto zero" con la temperatura del nostro cuore.

Sappiamo che spesso l'abbandono, il tradimento, il rifiu­to, la perdita di una persona o di una realtà amata sono fe­rite aperte e profonde, difficili da cicatrizzare. Sono ferite che portiamo con noi nel cammino della vita.

Come dice Henri Nouwen, psicologo americano, «ri­velano l'oscurità che non abbandona mai completa­mente il cuore umano».



Vivere i momenti di tenebra

Provate a concentrarvi per un momento su voi stessi e sulle vostre esperienze di relazione.

Se incontrate una persona scoraggiata, delusa e de­pressa, alla fine di questo incontro in cui avrete fatto di tutto per cercare di tirarla un po' su di morale, vi trovere­te a vostra volta con un velo di depressione e malinconia che offusca la vostra vita.

La sua chiusura alla relazione, alla fiducia nella vita, ad una visione più realistica dei fatti, lentamente porta cia­scuno di noi alla chiusura. Quella "prigione di tristezza" riapre le nostre ferite, il suo rifiuto di comunione provoca anche in noi angoscia e blocco paralizzante.

Oppure provate a ripensare ad un incontro con una persona violenta e aggressiva: la sua violenza e aggressi­vità possono scatenare, in maniera spesso incomprensibi­le e inconscia, la nostra violenza e aggressività e farci constatare che noi stessi, in certe situazioni, possiamo "fare del male" a qualcuno che è più debole di noi.

Personalmente ho visto tante volte come "ciò che è debole" richiami in ciascuno di noi il bello, ma possa an­che evocare quanto vi è di più tenebroso e nascosto...

Eppure è necessario prendere coscienza di queste real­tà "tenebrose", di questi sentimenti che non vorremmo, perché è l'unico modo per camminare verso la pace e la libertà del cuore, per risvegliarci alla vita, per suscitare in noi tenerezza e dolcezza, apertura, accoglienza e pazienza.

In fondo noi siamo "responsabili" gli uni degli altri, e se Dio ha creato fra noi questi legami sarà Lui che ci aiuterà a purificarli e ad approfondirli.

Questo comporta anche un altro grande vantaggio per la pace del cuore: non gioco più a fare l'adulto "grande e potente", invulnerabile, che cerca successo, ammirazione e... il primo posto sempre e dovunque.

Non cerco più di apparire per quello che non sono; accetto di essere il "bambino" che sono, perché questo è anche il primo passo per accettare di essere "amato" da Dio come figlio suo.



Per trovare la pace del cuore

Davvero non ho ricette particolari da suggerire, ma piuttosto delle modalità per impostare il cammino della nostra vita e, possibilmente, anche delle nostre relazioni.

La via della pace del cuore passa attraverso la vita di ogni giorno, la nostra "QUOTIDIANITA ", attraverso il ri­conoscimento di questa alleanza che c'è tra noi, attraver­so un amore che accetta tutto, spera e sopporta tutto (1Cor 13).

Ricordiamolo, perché anche fatti recenti ce lo hanno dimostrato: la lotta genera lotta, la paura genera paura; ma la pace e l'amore generano pace e amore anche in un mondo disarticolato e spesso "strano" come il nostro.

Allora ecco emergere un'altra pista per la pace del cuore: diventare uomini e donne di PERDONO, essere quella "parabola di riconciliazione" su cui si fonda tanta parte della spiritualità di Roger Schutz e della Comunità da lui fondata a Taizé, così amata e cercata dai giovani.

Noi tutti costruiamo attorno alla nostra fragilità e vul­nerabilità tutto un sistema di difese e di aggressività. Que­ste ci portano a perdere talvolta la misura delle relazioni, a storpiarle con una battuta o un atteggiamento che pro­voca, ferisce, amareggia chi ne viene colpito.

Non possiamo accettare che quella relazione "ferita" ri­stagni in quella situazione; lascerà nell'inquietudine noi e chi da noi è stato colpito e ferito.

Come talvolta potremmo essere noi i destinatari di qualcosa che ci fa male e ci fa soffrire, perché la troviamo ingiusta, dura e indelicata...

Anche in questo caso non possiamo lasciare la situa­zione ristagnare fino a diventare acqua putrida che inqui­na la nostra vita, le nostre relazioni, il nostro cuore.

È l'inizio di un processo in cui cominciamo a identifi­carci con la nostra zona di tenebra, perdiamo fiducia nelle nostre capacità di amare e di comunicare amore e vita. Abbiamo bisogno di essere perdonati e di imparare a per­donare.

Questo ci darà consapevolezza che qualcuno vede in noi una zona luminosa e ciò diverrà spazio di speranza, di nascita o rinascita di energia vitale.

Il lupo che è in noi può essere addomesticato e trasfor­mato in agnello dal perdonare e dall'essere perdonati...

C'è pure una terza via verso la riconciliazione del cuo­re: la potrei definire la via dell'UNITA INTERIORE. Vi­viamo in un'epoca di frammentarietà, di rotture, di ade­sioni parziali e selettive, come ci viene bene descritto an­che nel Documento dei vescovi italiani "Evangelizzazione e testimonianza della Carità".

Solo quando si comincia a riconoscere le proprie ferite e il proprio errore, si diviene capaci di accettarsi con veri­tà. Non è rassegnazione o passività priva di speranza, tut­t'altro! È riconoscere che abbiamo bisogno di fare un po' di ordine dentro di noi, che abbiamo bisogno dell'aiuto degli altri, del loro sostegno, della loro accettazione bene­vola e magari anche tollerante, del loro perdono, per po­ter ridonare a nostra volta tutto questo come frutto di un cuore "riordinato".

È nell'accettazione di sé che si può cominciare a cam­minare verso l'unità interiore. Allora potremo diventare strumenti di Dio che solo può guarire i nostri cuori, molto meglio di ogni psicoanalista...

La luce di verità che scaturisce da una unità interiore riconquistata, ci fa diventare a nostra volta uomini e don­ne che guariscono... i cuori.

L'amore si fa contagioso e potremo manifestarci come dei "lampionai della speranza", come quei vecchi lampio­nai di un tempo che sul far della sera accendevano i lam­pioni delle strade con il loro piccolo e quasi inesauribile stoppino.

Altre vie potrebbero essere indicate per orientarci alla pace del cuore. Vorrei piuttosto affidare il resto delle pa­role ad una immagine simbolica, ad un detto della "sa­pienza cinese:

«...Quando la scarpa si adatta perfettamente al piede, ad essa non ci si pensa più.

Quando la cintura è su misura attorno alla vita, ad essa non ci si pensa più.

Quando il cuore è nel giusto, ai "pro" e ai "con­tro" della vita non ci si pensa più» (Chuang Tzu).

Il cuore che è... nel giusto è anche un cuore in pace, pronto a far scaturire dal profondo del suo essere un do­no di speranza.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:06

Un'amicizia per camminare sui sentieri della Speranza

Nella Bibbia c'è un piccolo libro, che viene subi­to dopo il Cantico dei Cantici e prima delle La­mentazioni, e che si può considerare una perla preziosa per capire e vivere una relazione di amicizia sincera, tota­le e disinteressata, anche ai nostri giorni.

È un racconto che riguarda prevalentemente alcune donne, trapuntato da verbi quasi tutti al... femminile. E ciò, in una cultura prevalentemente maschilista come quella ebraica, non può non creare un certo stupore: è il libro di Rut.



Chi è Rut?

Il suo nome significa letteralmente "l'amica", e si pre­senta come uno splendido esempio di donna legata all'A­micizia e all'Amore.

Dopo la morte del marito, Rut non esita neppure un i­stante a lasciare la sua terra, Moab, per seguire la suoce­ra Noemi, in un ritorno ricco solo di incognite e di nessu­na speranza concreta nella terra di Israele. Nonostante le insistenze di Noemi perché lei, ancora giovane, si rifaccia una sua vita, una sua famiglia, Rut, l'amica, non la lascia e vuole condividere fino in fondo il suo destino.

È una storia dai risvolti umani commoventi, con un momento di "suspence" nel mezzo, quando la sorte di queste due donne sembra essere segnata solo dalla soffe­renza, per poi aprirsi in uno spiraglio sempre più ampio di speranza e sfociare nell'amore nuovo e incondizionato di Booz.

Vengono alla mente le parole del salmo 126,5: «Chi semina nel pianto, raccoglie nella gioia»...

L'amicizia di Rut per Noemi, ricambiata in maniera to­tale e ricca di tenerezza, produce dapprima frutti di spe­ranza e poi genera Amore: un amore capace... di vincere l'impossibile, almeno se si guarda a questa vicenda con occhi puramente umani.



Cos'è l'AMICIZIA?

Cercare di rispondere a questa domanda può diventa­re davvero impresa ardua e difficile: intorno a questo te­ma sono state scritte delle pagine stupende, ricche di deli­catezza e umanità profonda, spesso forgiate nella soffe­renza; ma insieme ad esse sono state scritte e dette an­che tante banalità, che non hanno contribuito certo a far capire e a far vivere il dono dell'Amicizia.

Sì, il dono...

Sono profondamente convinto che l'incontro con una persona amica sia uno dei doni più preziosi della nostra esistenza, senza voler parafrasare con questo il celebre detto del libro biblico del Siracide 6,15: "Per un amico fedele non c'è prezzo".

È ancora del Siracide (6,14) la famosa espressione: "L'amico fedele è una protezione potente; chi lo trova, trova un tesoro".

Tuttavia porto in me anche un'altra convinzione, che poi altro non è che la conseguenza del considerare l'ami­cizia una realtà preziosa: nella vita i veri amici non sono e non possono essere tanti, anzi credo siano pochissimi, al punto da poterli contare sul palmo di una mano.

A meno che non si intenda per amicizia quella specie di goliardico cameratismo che tutti noi abbiamo vissuto o viviamo in qualche fase della nostra vita, soprattutto ado­lescenziale e giovanile, per cui lo "stare insieme" con u­na certa esuberanza e simpatia diventa già una modalità per considerare tutto questo amicizia.

Qui, evidentemente stiamo cercando di andare oltre al momento dello stare bene insieme, senza con ciò volerlo sminuire.

Ma allora ritorna la domanda: cos'è l'Amicizia?

La prima risposta che mi verrebbe da dare è questa: hai trovato un amico quando, davanti a lui o a lei, ti senti veramente libero di mostrare te stesso come sei, senza finzioni, senza paludamenti teatrali, senza maschere, sen­za corazze più o meno pesanti.

Il vero amico ti mette a tuo agio, ti fa sentire un "fee­ling" particolare che probabilmente è anche indescrivibi­le, per il quale avverti che tutta la tua esistenza, i tuoi sen­timenti più profondi, i tuoi desideri, le tue preoccupazio­ni, angosce e paure, le tue attese più nascoste possono "galleggiare" senza dover esercitare nessuna repressione; in una parola, tutte queste realtà che sono il nostro "cuo­re", vengono evocate, rispettate e accettate.

E non ditemi che in una cultura che è così spesso con­dizionata dal dover "apparire" in un certo modo, che ti squadra e ti valuta solo per il look esterno che proponi, non ditemi che tutto questo non è una cosa grande!

La persona "veramente" amica ti è vicina in ogni mo­mento della tua vita: è facile avere amici (ma sono poi ta­li?), quando le cose vanno bene e tutto fila a gonfie vele; il vero amico si misura nei momenti in cui la vita incontra la sofferenza e allora provi un senso di profonda solitudine.

Ricorderò sempre le parole di una persona molto cara, che nel momento della sua malattia continuava a ripete­re: «Ecco, vedi, adesso posso proprio capire quelli che mi sono amici». Aveva ragione, perché piano piano erano passate al setaccio le amicizie vere, quelle che non aveva­no paura di "perdere del tempo" per stargli vicino in quell'ora di prova e quelle che, dopo una prima visita di cortesia, avevano voltato l'angolo ed erano scomparse per sempre.

La vera "presenza amica" è quella che ti offre una spalla per appoggiarti e magari ...per piangere; è quella che ti aspetta paziente perché tu possa uscire da un mo­mento di scoraggiamento e di stanchezza e non ti impo­ne i suoi ritmi; è quella che in maniera discreta ti dice po­che parole, forse, ma ti raggiunge con il calore di tanto affetto che riscalda il cuore e lo aiuta a guardare con maggior forza e fiducia alla realtà che lo aspetta.

Qualche "flash" di amicizia

Innumerevoli sono le modalità in cui l'amicizia è stata analizzata, presentata, letta e riletta.

La prima che mi viene alla mente è la bellissima storia di Tolstoj, che ho citato nel libro "Itinerario all'Amore" (Ed. Paoline), del falco dello zar che viene ucciso dallo zar stesso, mentre cercava in tutti i modi di salvare il suo pa­drone dal bere l'acqua di una sorgente avvelenata. Il rac­conto di Tolstoj contiene una verità meravigliosa rinchiu­sa nello scrigno prezioso dell'Amicizia, una verità detta anche da Gesù stesso: «Nessuno ha un amore più gran­de di questo: dare la VITA per i suoi amici» (Gv 15,13).

Penso anche alla bellissima risposta del "piccolo prin­cipe" di Antoine de Saint-Exupéry, quando incontra la volpe ed essa furbescamente gli chiede: "Anche tu cerchi delle galline?".

" No - rispose il piccolo principe -. Cerco degli amici...".

In un mondo stracarico di banalità, questa semplicissi­ma frase del "piccolo principe" dice uno dei desideri più profondi del cuore umano, che rimane spesso frustrato in un senso di profonda solitudine.

Ma vediamo ancora due altri esempi per "mirare" me­glio la richiesta e l'offerta dell'Amicizia.

C'è una bellissima pagina, carica di un sentimento straziante, scritta da s. Agostino di Ippona nelle "Confes­sioni" IV, 4.5: è l'espressione dell'angoscia di Agostino di fronte alla morte del suo amico più caro nell'adolescenza: «Eccoti strappato a questa vita dopo un anno appena che mi eri amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora... L'angoscia avviluppò di tene­bre il mio cuore. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte...».

E poi Agostino, rivolgendosi al Signore afferma: «Ep­pure, se non potessimo piangere contro le tue orec­chie, non rimarrebbe nulla della nostra Speranza».

Come non ricordare, infine, le pagine meravigliose di un libro che mi sentirei di consigliare a tutti coloro che vogliono capire meglio l'Amicizia, l'Amore, la Fede, il senso di un cammino spirituale: è il diario di Raissa Mari­tain, che porta un titolo emblematico: " I grandi amici".

In esso, con la delicatezza e l'acutezza che le sono pro­prie, Raissa descrive gli incontri con gli amici che hanno segnato in maniera definitiva il cammino della vita sua e di Jacques, il grande filosofo francese che era anche suo marito.

Sono nomi importanti, ma visti nei risvolti degli incontri semplici della vita di tutti i giorni o nell'ansia di una ricerca che inconsciamente portava a Dio: Henri Bergson, Léon Bloy, Ernest Psichari, Charles Péguy, Paul Claudel...

Che fortuna incontrare sulla propria strada simili per­sonaggi!...

Ma ai cuori "amanti della Verità" Dio riserva queste fortune, come il trovare e il cogliere un quadrifoglio in un verde prato d'erba.



Quando l'Amicizia si fa speranza

È proprio nella conclusione di una sua lettera a Raissa Maritain, scritta il 25 agosto 1905, che possiamo apprez­zare come la grande sofferenza di Léon Bloy venisse dav­vero mitigata dalla comprensione e dall'amicizia di questa sua nuova e insperata amica.

Così scrive: «Ecco, carissima e benedetta Raissa, tut­to quello che può scrivervi un uomo veramente infelice, ma pieno della più sublime speranza per se stesso e per tutti coloro che egli porta nel cuore.

La Speranza... l'Amicizia... è un poi come riprendere il paragone evangelico della vite e dei tralci.

Ma per essere più concreto vorrei proporre quattro immagini che diano anche lo "specifico" di come nell'a­micizia possa rinascere o crescere la speranza.

L'Amicizia è una "solidarietà degli occhi": l'occhio vede, osserva, percepisce, ma non è detto che le sue per­cezioni siano sempre corrette.

Per questo, nell'amicizia, ciò che viene visto e percepi­to può subire una correzione, una valutazione, una modi­fica per cogliere la realtà nella verità.



E questo è segno di nuova speranza.

L'Amicizia è "solidarietà degli orecchi": con l'udito noi ascoltiamo, ma la presenza amica ha l'udito fine e sensibile; è come l'infermiera che di notte sa cogliere, nel­la corsia di un ospedale, il gemito di aiuto sussurrato da un malato, per usare una bellissima immagine del card. Martini.

Tante realtà della vita non sono gridate, sono appena appena sussurrate e solo la presenza amica le sa cogliere e trasformare in suoni di speranza.

L'Amicizia è "solidarietà della mano": la mano, inte­sa come l'espressione del fare, del portare a compimento qualcosa di significativo, del dare corpo e forma a qualco­sa di pensato, studiato, capito.

La presenza amica può aiutare, incoraggiare, smussa­re, ri-plasmare quello che è l'indirizzo pratico di vita di ciascuno di noi; può essere davvero la mano amica che ti tiene stretto e ti fa superare momenti di smarrimento, di angoscia, di paura.

E questi sono segni stupendi di speranza.

E infine l'Amicizia è la "solidarietà del cuore": la ca­pacità di entrare in sintonia con le fibre più profonde del nostro essere, per risuonare all'unisono in una armonia di sentimenti, di compassione, di condivisione. Un cuore stanco e solo, che a contatto con un altro cuore ospitale ed amico, "riaccende" in se stesso la speranza.

L'amicizia passa tranquillamente tra il rumore e la fret­ta delle nostre vite e porta nel cuore la pace.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:07

Cerchi la Speranza? Troverai Libertà

Non sembri strano il collegamento che cerchere­mo di approfondire in questo cammino alla ri­cerca della Speranza: il binomio Speranza e Libertà non solo non è alternativo o contraddittorio, ma entrambe si presentano come realtà inscindibili.

Perché?

Una Speranza senza Libertà sarebbe una pura e sem­plice illusione, cadrebbe nel mondo dell'utopia irraggiun­gibile, proprio perché frenata da condizionamenti che l'avviluppano come una rete di gladiatori e non le per­mettono più di muoversi.

Una Libertà senza Speranza sarebbe mediocrità; ci porta dentro alla mentalità del "piccolo cabotaggio": è un modo di veleggiare che ti fa stare sempre vicino alla co­sta, ai porticcioli, per la paura di affrontare il mare aperto e quindi limita il raggio di azione, quando anche non to­glie la possibilità tipica della Speranza di cercare quel "di più" che rappresenta l'ossigeno del cuore umano, e in particolare di un cuore giovane.

La Speranza senza libertà porta alla frustrazione pro­fonda di una esistenza, perché puro desiderio irrealizza­bile.

La Libertà senza Speranza è uno spontaneismo cieco che potrebbe andare... ma non sa dove andare.

Allora declinando insieme Libertà e Speranza abbiamo a portata di mano l'enorme possibilità di "essere noi stes­si": parola magica, ma così difficile da vivere e realizzare.

Diceva la saggezza del filosofo danese Kierkegaard: «La grandezza di una vita non consiste nell'essere questo o quello, ma nell'essere se stessi; e questo ciascuno lo può, se lo vuole...».



Ma quale Libertà?

Ricordate i carcerati di un tempo che viaggiavano con l'inconfondibile casacca a strisce e con una palla di piom­bo al piede? Forse li abbiamo presenti da qualche visione di film d'avventura.

Eppure anche noi abbiamo la nostra palla di piombo legata al piede, che sarebbe importante abbandonare quanto prima per poter camminare più liberi e spediti.

Usando una stupenda immagine di uno psicologo bra­siliano, Joao Mohàna, noi siamo come delle aquile che a­vrebbero la possibilità di volare molto in alto, ma si ridu­cono a razzolare a malapena per terra perché le loro ali sono incrostate di ...piombo!

Aquile dalle ali di piombo: ecco il nostro problema, ec­co la difficoltà a vivere la Libertà e quindi a cercare e tro­vare la Speranza.

Ma questa è solo un'immagine, potreste obiettare.

E vero, però potremmo dare nomi diversi e molto con­creti a queste "ali di piombo".

Potrebbero essere, ad esempio, le nostre paure, le grandi o piccole paure che imbrigliano spesso scelte di vi­ta. È difficile mettersi qui a fare una catalogazione delle paure: ognuno ha le proprie, ognuno sa dove non vuole rischiare di abbandonare le proprie sicurezze protettive perché, al di là dello steccato di protezione, si rischia.

In "lo senza maschere" (Quaderni di SE VUOI) abbia­mo chiamato questo fatto, presente nella nostra vita, la "sindrome di Giona", usando l'immagine lucida e assai preziosa del grande saggista americano E. Becker, recen­temente scomparso. Potrebbero essere quei condiziona­menti fisici che così spesso ci dànno fastidio, perché "non sono alto come quello lì" o "non mi sento bella e attraen­te come quella mia... amica (non sappiamo se poi lo sia davvero), che proprio con la sua bellezza fa strage di cuo­ri in mezzo ai miei amici".

Ai nostri giorni c'è il "boom" della chirurgia plastica, a cui si ricorre con sempre maggiore frequenza e con un notevole dispendio economico, talvolta per correggere dei difetti fisici reali e che creano davvero un condizionamen­to, ma assai più spesso per delle manìe o fisime personali che vogliono vedere dei piccoli difetti (e non è detto che siano sempre tali), come delle enormi "appendici cata­strofiche" del nostro corpo che si vorrebbero togliere, ri­modellare o rifare e via dicendo.

Credetemi, non è roba da attrici in cerca di successo o da aspiranti "miss teen-ager" o da piccoli Rambo invaghiti di palestra e culturismo.

La non accettazione del proprio fisico è una delle leggi psicologiche che spesso, come la punta di un iceberg, di­ce come ci sia un'altra e ben più profonda non accettazio­ne di noi stessi, per quello che siamo, per quello che riu­sciamo o non riusciamo a fare; e questo coinvolge tante persone, dall'adolescente all'adulto. Il culto e non l'amore del corpo, portano a vedere il proprio mondo con la tipi­ca distorsione percettiva con la quale guardiamo ad ogni realtà che ci riguarda.

E la lista delle "ali di piombo" può anche continuare a lungo: potrebbero essere le pressioni sociali ed educative che pensiamo di avere ricevuto e che ci portano a rifiuta­re il nostro ambiente di crescita; potrebbero essere la no­stra storia personale, con i suoi incidenti di percorso, che non riusciamo proprio a digerire e che magari pensiamo di aver vissuto solo noi. Potrebbero essere la nostra fami­glia, perché diventa facile oggigiorno colpevolizzare i ge­nitori per quello che hanno fatto o non fatto. È vero, po­trebbero anche aver sbagliato qualche modalità educativa, ma quando ci è stato trasmesso affetto vero, profondo, talvolta segnato da sacrifici e sofferenze, perché recrimi­nare? Solo se fosse venuto a mancare questo affetto a­vremmo il diritto sacrosanto di sentire che la vita ci ha tolto qualcosa di essenziale; tutto il resto potrebbe diven­tare recriminazione infantile.

E poi ci sono i nostri schemi mentali pregiudiziali nel guardare agli altri e alla realtà, le nostre maschere che ci autoimponiamo per "sembrare" quello che non si è e via dicendo.

Basterebbe un po' di silenzio attorno a noi e dentro di noi per poter scoprire questo mondo "zavorrato" che ci impedisce di volare in alto, liberi, e di cercare Speranza.



Rientra in te stesso

Nell'incontro di Giovanni Paolo II a Vicenza con i gio­vani, in un discorso tutto improvvisato, ma solo perché non scritto sulle carte ufficiali, perché in lui doveva essere qualcosa di molto profondo, il Papa invitava tutti i giovani a fare un cammino che non è facile ma che è essenziale; diceva con forza: «Rientra in te stesso; abbi il coraggio di guardarti dentro».

Sono davvero convinto che con quelle parole ogni cuore giovane è invitato ad un cammino che accenda nel suo cuore una "Speranza" libera e liberata.

Tutto quello che vale la pena di conoscere di noi è dentro noi stessi. Non siamo il nostro lavoro, la nostra cultura, le nostre relazioni, i nostri stati d'animo e tanto meno quello che gli altri pensano di noi.

Non vi è alcun modo all'esterno per sapere chi siamo, se non delle pretenziose tendenze alla mistificazione, alla falsificazione dei nostri connotati più intimi.

Per capire chi siamo dobbiamo accettare di andare al­l'interno, di rientrare in noi stessi, anche se lo sforzo può essere grande e talvolta il prezzo da pagare può sembrare alto. Ma vi assicuro: "Vale la pena... vale la pena, perché i valori in ballo sono troppo importanti per non fare questa fatica".

Quante volte siamo disturbati da quello che la gente pensa di noi, e quante volte la nostra vita è una continua rincorsa di quella "approvazione-accettazione" che desideriamo avere dagli altri.

E questa pazza rincorsa ci porta ad estraniarci, ad alienarci senza più cercare quello che davvero è utile, importante, essenziale al nostro essere, al nostro cuore.

Si badi bene: non sto parlando di un lavoro di masochistica introspezione o di uno sterile autocentramento; non è questo.

Vorrei indicare a voi e a me stesso quel sentiero stupendo che s. Agostino ha espresso così bene dicendo: «Gli uomini vanno a guardare con stupore le grandezze dei monti, la forza dei flutti del mare, le larghe correnti dei fiumi che scendono scrosciando a valle, la distesa a perdita d'occhio dell'oceano e il giro lento, pacato e fermo inarrestabile delle stelle... ma abbandonano se stessi».

È questa fuga da se stessi che oggi più che mai dovreb­be farci paura.



Speranza e Libertà: la voglia di crescere

Ci siamo detti fin qui che non siamo persone alla ricer­ca di una magica invulnerabilità da condizionamenti e paure, anche se parecchie di queste realtà possiamo cer­care di scrollarcele di dosso.

Abbiamo visto che la felicità non è poggiata sulla ac­cettazione degli altri o su di una personale autorealizza­zione che però passa come uno ...schiacciasassi sul cuore e la vita delle persone che ci stanno accanto.

Forse potremmo condensare tutto questo in uno slo­gan di vita: "Non dobbiamo perdere la voglia di cammi­nare". Anche quando il fiato si fa ansimante, quando la testa è confusa, quando sei caduto e fai fatica a rialzarti, quando la voglia di fermarsi nella situazione in cui ci si trova è grande, dobbiamo considerarla una delle grandi tentazioni della nostra vita.

Delle pagine indimenticabili di storia e qualche docu­mentario visto magari alla TV, hanno consegnato ai no­stri occhi e al nostro cuore le immagini dei nostri soldati, specie degli Alpini, impegnati allo stremo nella terrifican­te ritirata dalla Russia durante la seconda guerra mondia­le: un'avventura folle, un ritorno drammatico.

Magari qualcuno ha sentito raccontare questa vicenda a viva voce da uno dei suoi cari...

Chi è riuscito a tornare, lo deve certamente ad un provvidenziale disegno di Dio per la sua vita, forse ad una certa dose di buona sorte ma anche al coraggio, speso fi­no all'ultima energia, di continuare a camminare, di non fermarsi, perché sarebbe stato preda totale di quella terri­bile spirale di ghiaccio, freddo e neve che tanti altri amici e compagni aveva già stretto nella morsa fatale. Camminare... Crescere... ma come?

Per camminare, per crescere è importante sapere da dove partiamo, per non imboccare vicoli ciechi intrapresi in maniera troppo frettolosa. Saperci "localizzare".

Questo è il primo passo per poter affrontare la realtà in maniera costruttiva, senza presunzione ma anche sen­za inutili nostalgie e piagnistei.

Crescere in libertà e speranza vuol dire accettare di "adattarci" alle novità, ai cambiamenti della vita, magari con un certo sforzo, d'accordo, ma anche qui senza rim­piangere il vecchio come nostalgicamente fanno tante persone anziane o anche giovani dal cuore invecchiato precocemente e ...stanco.

Crescere significa anche impegnare le proprie energie non a difenderci, ma a mostrare il nostro vero volto, sen­za paura.

Questo ci mette nella condizione di sperimentare come sia vera la frase pronunciata da s. Paolo, negli Atti degli A­postoli, quando saluta gli amici della comunità di Mileto: «C'è più gioia nel dare che nel ricevere,,.

Del resto sono anche profondamente convinto che que­sta "logica del dono" è la base di ogni "decollo" umano e - perché no? - anche spirituale, nella vita.

Una donna eccezionale dei nostri giorni, Madeleine Delbrél, usava ripetere: «Dove non c'è Amore, mettete l'Amore e raccoglierete l'Amore». Nulla di più vero!

Torna anche alla memoria una definizione che Niet­zsche dava del ...demonio; secondo lui il "diavolo è lo Spi­rito di Pesantezza"; paradossalmente noi potremmo affer­mare che l'Angelo di Luce della nostra vita è la Speranza e che, presi per mano da essa, possiamo incamminarci "leggeri" verso LA TERRA PROMESSA DELLA LIBER­TA DEL CUORE.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:08

La Speranza mette radici nella Fedeltà

Scrivo queste note nell'ultimo giorno dell'anno; fa CP3 un effetto un po' strano ... perché in queste ore la gente è più che mai affaccendata nei preparativi del "veglione di fine anno" e si dispone a festeggiare il Nuovo Anno.

Eppure penso che questa è la serata giusta per un tema come quello che ci siamo proposti: la Speranza è legata profondamente alla Fedeltà.

Pensate per un momento all'anno che è trascorso: quanti fotogrammi come nel montaggio di un film, ci pos­sono scorrere davanti... Sono scene allegre e cariche di festosità, oppure momenti tristi, magari intrisi di malinco­nia e velati anche da un po' di angoscia e oppressione; la nostra bocca avrebbe motivi per aprirsi in uno schietto sorriso di compiacimento e insieme potrebbe stemperare questo sorriso in occhi che si velano di tristezza.



La Fedeltà ci interroga

Un anno è passato, eppure in esso noi troviamo tanti motivi per ripensare alla Fedeltà: anzi, sono degli interro­gativi che prendono voce e forse anche i contorni di qual­che figura o situazione.

Come ho vissuto la fedeltà a me stesso, alle scelte che ho cercato di rendere importanti per la mia vita; ad un'immagine, un'identità non vissuta come pura apparenza, ma come espressione di un desiderio genuino di essere me stesso, come ricerca di una trasparenza che mai potrà essere assoluta, ma che può rappresentare sempre una linea di orizzonte ideale a cui tendere?

Come ho vissuto la fedeltà alle mie relazioni signifi­cative? Anche da esse è partito un appello importante per non lasciarle sfilacciare, per non farle annacquare nella pura occasionalità del momento, per renderle sem­pre più profonde e durature.

Come ho vissuto la fedeltà a Dio? Qui i tasti della macchina da scrivere cominciano ad incepparsi... Ci sono tanti motivi di rammarico nel vedere come questa fedeltà poteva essere più sincera e coerente, ma ci sono altret­tanti motivi per rovesciare questa domanda: «Come ho vissuto io la Fedeltà di Dio nei miei confronti quest'an­no, ed anche per tutta la mia vita, lunga o corta che sia stata fino a questo momento?».

Su questa Fedeltà di Dio nei nostri confronti non pos­siamo fare un balzo da canguro ed andare in avanti; fer­miamoci un attimo con la mente e il cuore.



Fedeltà di Dio e fedeltà a Dio

Dio è fedele!

Quante volte abbiamo sentito rimbalzare nella nostra vita, e chissà anche da quanti pulpiti, questa asserzione; eppure ...eppure io credo che talvolta ne abbiamo un po' dubitato; è normale, è umano...

Ci sono dei fatti nella vita, e questo può essere credibi­le anche per i più giovani e non solo per il mondo degli adulti, che non hanno una spiegazione logica se analizzati con la nostra limitata e spesso miope ottica umana.

Penso a situazioni di violenza, a realtà di malattia, sof­ferenza e morte che vengono ad abbattersi sulle nostre famiglie e su quelle di amici carissimi; penso a bambini innocenti che spesso pagano le crudeltà e le atrocità del mondo degli adulti; penso alla non-pace, alla non-giusti­zia, alla non-solidarietà, al non-amore... che potrebbero chiudere in passivo il bilancio di un anno; e, per contra­sto, penso agli auguri che spesso sanno di effimero per­ché scambiati in un momento di ebbrezza o di puro for­malismo, come potranno risuonare questa sera: "Buon Anno... che sia un anno di tanta serenità... vedrai che le cose andranno benissimo, il tuo oroscopo lo dice...".

Non voglio vanificare l'augurio di un anno buono e sereno, tutt'altro. Vorrei che questo Augurio acquistasse il sapore della verità, uscisse dalle parole vuote e formali che spesso ci diciamo perché "tocca fare così".

E perché questi auguri siano veri bisogna tornare a "puntare" sulla Fedeltà di Dio; non c'è altra strada. Anche se Lui permette che ci siano delle cose incom­prensibili? Sì, anche se permette questo.

Anche se Lui permette che i desideri di bene talvolta vengano oscurati da fatti di male? Sì, anche se questo sembra accadere ai nostri occhi. Anche se Lui sembra lontano, nascosto, impenetrabile ai "sussurri e alle grida" di una parte di umanità dolente? Sì, perché Lui non si è allontanato da noi, anzi continua a camminare sulle stra­de della nostra vita, senza che magari noi ce ne accorgia­mo. In fondo, i semi di bene e di speranza sparsi per il mondo, altro non sono che il Suo "eterno sorriso" per­ché l'uomo, cioè ciascuno di noi, non abbia ad intristire.

Se abbiamo la pazienza di fermarci a ripensare a tutta la storia di Dio con l'uomo, come ci viene descritta dalla Sacra Scrittura, ebbene lì abbiamo la prova più limpida e chiara che quando il Signore fa una promessa non viene meno: è FEDELE, come nessuno potrebbe esserlo.

Abramo è a un passo dalla disperazione quando sta per sacrificare Isacco, il segno della sua discendenza; e Dio lo ferma da questo sacrificio. Mosè vede solo nero davanti a sé nell'impresa "impossibile" di liberare Israele dallo strapotere del Faraone; eppure questo avviene. Geremia vede lutti e deportazioni, ma poi scrive un "libro della Consolazione" che è un documento infiam­mato di speranza nel Dio fedele. Isaia vede il suo popolo "camminare" nelle tenebre, eppure ha il coraggio di annunciare la venuta di un "Emmanuele", sì, del Dio-con­noi in cui Maria, la Vergine di Nazareth, è chiamata a credere, perché sarà lei a donarlo al mondo.

Quante storie di promesse e di fedeltà ripetutamente "mantenute", nonostante il cuore duro e incredulo degli uomini; lo stesso cuore duro e incredulo che Gesù fa fati­ca a rendere morbido e credente nei suoi discepoli. La Fedeltà di Dio è tale perché "sopravvive" al tempo; porta in sé il tocco dell'esistenza.

La vita di Gesù è tutta vissuta in una promessa di Fedeltà "mantenuta". Una fedeltà fino alla morte, e quale morte!



Cos'è oggi una vita "fedele"?

Parlare di Fedeltà, ai nostri giorni, sembra portarci in un mondo un po' fumoso, astratto, generico, utopistico o patetico per noi che ci consideriamo gli "eterni realisti della vita": pensiamo a qualcosa di gonfiato dall'enfasi retorica e poetica o da una sottile insincerità che poi non può essere tradotta in pratica o che viene smentita dai fatti; oppure diviene una di quelle "realtà fittizie" che noi ci costruiamo per vivere un po' meglio, come direbbe lo psicologo Alfred Adler, anche se poi alla fin fine queste realtà non esistono.

Abbiamo bisogno di tornare a credere a ciò che i nostri occhi spesso non sanno vedere e capire: la fedeltà esiste! Esiste nell'amore di una coppia, quando tutto intorno dice loro: «Perché vi preoccupate di un amore fedele; perché non state insieme solo finché vi piace?».

Esiste nella dedizione totale di una madre che passa giorni e notti, per mesi interi, al capezzale del figlio, per­ché sa che solo il suo amore fedele lo può risvegliare dal sonno profondo, dal coma in cui è immerso.

Esiste nella coerenza di chi continua a credere e a combattere, fino a rischiare la propria vita, per la causa di una giustizia sempre più calpestata da chi ha potere e da chi pensa che la legge del più forte valga comunque e dappertutto; ma poi tanti fatti della nostra storia mostra­no come la logica dell'imposizione e della violenza sia destinata miseramente a crollare insieme alle statue e ai muri eretti per "sorreggerla" e per mostrare all'uomo un segno di imperitura forza...

Esiste anche nel nostro piccolo quando, pur di fronte al momento dello scoraggiamento, della prova, della voglia di mollare tutto, senti una voce dentro che ti dice: «Non mollare; vedrai che passa... vedrai che ce la fai!».

Ed è proprio in quei momenti che la Fedeltà di Dio si fa presente con l'aiuto di una mano insperata, di una per­sona amica che sa capire il tuo stato d'animo, la tua delu­sione e amarezza e che, nonostante tutto, ti dice:

«Coraggio, andiamo avanti insieme; finché posso ti aiu­terò su questo tratto di strada difficile; ce la faremo, non mollare!».



E la fedeltà si trasfigura in speranza

La fedeltà alle proprie scelte permette di ritrovare dentro di sé forze ed energie insperate e offre degli spi­ragli di luce che sembravano assolutamente impensabili.

Per questo la fedeltà può dare radici profonde alla spe­ranza, proprio perché permette di continuare a credere che il buio si trasforma in aurora, che nella notte piena si vedono meglio le stelle, che vicino ad una strada sbarrata trovi un sentiero che poi si rivela una scorciatoia per la meta alla quale tenevi tanto.

Non sono fisime o utopie, queste! Chi solo ha un po' di esperienza di vita e ha avuto il coraggio di credere alla fedeltà a se stesso e alle proprie scelte anche nei momen­ti difficili, lo può confermare.

Cento che la fedeltà non deve tramutarsi in angustia o ristrettezza di idee, o in rocciosa rigidità; questa sarebbe una forma di pericolosa cocciutaggine che nulla ha a che fare con la libertà della fedeltà: quella stessa libertà che ti permette di essere coerente, fermo e deciso nella decisio­ne ogni volta che essa minaccia di crollare.

La Fedeltà che dà Speranza è una "forza vitale" che vince il tempo, che sa crescere e creare; che ti aiuta a rimanere fermo sulla parola data, a lottare e a ritrovarne un beneficio inaspettato: la "convinzione", una sempre maggiore convinzione...

E c'è anche da aggiungere che essa non è solo frutto di un grande e forte carattere: ho visto persone "fragili", sensibili, emotivamente vulnerabili superare situazioni di difficoltà, di svantaggio, di tensione non in forza di un potere di resistenza dovuto al loro carattere o al loro tem­peramento da "duri"... tutt'altro; ma in forza del loro cre­dere fermamente che nella vita si vale tanto quanto sai rispondere agli appelli della realtà, con timore e insieme con coerenza, con una certa apprensione e insieme con responsabilità, con il cuore ferito ma insieme "gioioso" per il loro SÌ FEDELE.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:08

La Speranza matura nel silenzio

Alcuni anni fa, ebbi modo di compiere un'escur­sione in montagna del tutto particolare: si trat­tava di raggiungere con un gruppo di ragazzi un bivacco posto in una zona piuttosto impervia - e fortunatamente anche solitaria - delle Dolomiti (eh sì, perché ormai in quei posti tu ci arrivi con fatica, a piedi, dopo aver per­corso sentieri piuttosto ripidi e duri e poi in cima ti trovi con una marea di gente arrivata lì, tranquillamente, con una funivia costruita nel giro di qualche mese...).

Siccome la possibilità di pernottare al bivacco era limi­tata ad un certo numero di posti, era stato giocoforza dover dividere il gruppo in due "tronconi" per passare, prima con l'uno e poi con l'altro, la notte all'interno del bivacco.

Nell'interscambio tra i due gruppi ebbi la possibilità di restare sul posto qualche ora, da solo... E stata un'espe­rienza che non potrò mai dimenticare: credo infatti di non avere mai avuto l'opportunità di sentirmi avvolto da un silenzio più... silenzio di così.

Era un'assenza totale, assoluta, quasi impressionante di ogni pur minimo rumore; solo di tanto in tanto il gracchia­re di una cornacchia lasciava un'eco un po' sinistra tra le rocce e qualche piccolo sasso rotolava ora qua ora là, forse sospinto dal vento.

Credo sia stata la prima volta che, seriamente, ho potuto "ascoltare... il silenzio".



La paura e la gioia del silenzio

Quando si tocca l'argomento silenzio, ci sono le rea­zioni più disparate: c'è chi dice che non è possibile trova­re un attimo di pausa nel rumore assordante e frenetico del quotidiano e che quindi questo è un discorso impro­ponibile; c'è chi afferma che non riesce a stare in silenzio da solo, perché gli prende un'angoscia terribile...

C'è chi si rifugia in un mare di "decibel musicali" per non dover restare neppure un attimo in silenzio.

C'è chi dice di amare il silenzio, ma appena ne ha la possibilità deve cercare qualcuno o qualcuna con cui fare quattro chiacchiere. C'è chi lo teorizza e chi lo banalizza.

Il grande filosofo francese Blaise Pascal afferma nei suoi "PENSIERI":

«Ogni infelicità degli uomini deriva da una cosa sola: non saper restare in silenzio in una camera».

Un aneddoto orientale racconta:

«I discepoli di un guru stavano discutendo animata­mente sulla causa della sofferenza umana. Alcuni soste­nevano che derivasse dall'egoismo. Altri dall'illusione. Altri ancora dalla incapacità di distinguere il reale dal­l'irreale. Quando consultarono il maestro, egli disse semplicemente: "Tutta la sofferenza di una persona deriva dall'incapacità di sedere in silenzio, da sola... "» (Anthony De Mello).

Credo che in entrambe queste espressioni ci sia un profondo significato di verità, anche se questi "pensieri" vanno certamente interpretati: la nostra vita è fatta per la relazione e quindi per la comunicazione. Quando questa non si verifica, corriamo il rischio di sentirci soli, frustrati e depressi. La parola ci permette di uscire da noi stessi, ci dà modo di stabilire delle sintonie profonde e vere, ma non è tutto...

L'altra fondamentale forma di comunicazione è il silenzio, che resta un mistero altrettanto grande come quello della parola: anche l'animale che vuole aggredire una preda o che vuole sfuggire ad un pericolo, sa stare in silenzio... Anche un sasso, come ogni essere inanimato, "sta in silenzio", ma ciò di cui noi stiamo cercando di cogliere il significato è un'altra cosa, ben diversa, ben più profonda.

Silenzio è ciò che si verifica quando ciascuno di noi, dopo aver parlato, "rientra in se stesso" e tace. Solo in questo ritorno nel profondo del proprio cuore non abbia­mo più paura del silenzio; solo quando esso diventa non l'alternativa alla parola, ma la sua sorgente, sentiamo tutto il gusto, la gioia di poter tacere, di poter "ascoltare il silenzio".



Le parole del silenzio

Ho preso a prestito questo slogan da una bellissima antologia sul "Silenzio", proposta da Massimo Baldini per le Edizioni Paoline. Baldini, guarda caso, è professore di filosofia del linguaggio presso l'università di Perugia, quindi è uno che se ne intende di... parole; eppure ci invita a riflettere sul fatto di come anche il silenzio parli!

Proviamo per un attimo a riflettere sui nostri silenzi: possono essere dettati da un momento di riflessione, op­pure da una pausa in una conversazione che ci annoia e ci distrae e ci porta a seguire il filo della nostra fantasia. Potrebbe essere il momento in cui cerchiamo di elaborare un messaggio da lanciare agli altri e la forma migliore e più convincente per dirlo; o può essere ancora un segno di mutismo arrabbiato, carico di ostilità e di tensione, che coagula nel silenzio tutta la forza rabbiosa delle parole di Dante nella Divina Commedia: "Non ti curar di lor, ma guarda e passa...".

Come pure il silenzio può essere il segno del "nulla" che aleggia dentro di noi, di un vuoto di pensiero, di rifles­sione e di emozioni che si esprimerebbe solo in chiacchie­re futili e inutili (e questa talvolta è una realtà che ci tocca molto da vicino).

Un grande scrittore contemporaneo, Michele Federico Sciacca, afferma: «Senza silenzio non vi sarebbe linguag­gio di sorta, né poetico, né pittorico, né musicale: cesse­rebbero il pensiero e la parola cui essa è essenziale. E l'uomo vocerebbe, urlerebbe, ecc., ma non parlerebbe.



Cerco l'oasi del silenzio

Per cercare di dare fondamento e consistenza a questa profonda convinzione che avverto in me stesso - vale a dire di come dal silenzio possa sgorgare, come sorgente di acqua cristallina, la SPERANZA vera, quella che sa pla­smare completamente una vita -, vorrei fare riferimento ad una stupenda esperienza dei nostri giorni.

Le chiamano "Fraternità monastiche di Gerusalemme", e coloro che in esse vivono si autodefiniscono "monaci nelle città". Questa esperienza del tutto particolare ed ori­ginale è nata in Francia, nel cuore di Parigi, su invito di un grande vescovo pastore, il cardinale Marty, e su iniziativa di padre Pierre-Marie Delfieux, al quale si sono aggiunti, nell'ottobre del 1974, i primi compagni di viaggio.

Creare nel cuore di una grande città... il deserto! Sembra un'utopia ed è invece una stupenda realtà di vita cristiana.

Le nostre megalopoli moderne, inquinate dai gas noci­vi, dai decibel assordanti dei rumori, dagli idoli di vita a cui immolare il nostro tempo e le nostre energie in maniera frenetica ed ossessiva, possono diventare ancora il luogo dove incontrare se stessi con sincerità e dolcezza; dove imparare la vera "conoscenza", che non è la semplice notizia di qualcosa che succede, ma diviene il chiedersi "perché" questo succede e "come" possiamo vivere que­sta situazione affinché la realtà non abbia sempre a scor­rerci accanto o sopra come acqua che passa e va, ma alla quale siamo assolutamente impermeabili.



La speranza fiorisce nel silenzio

C'è un deserto che ci aiuta a contemplare Dio nelle cose belle della vita, per avere la forza di andare incontro ad altri "deserti" aridi e stepposi, fatti di solitudine ed inquietudine, di ricerca, di indifferenza ed anonimato...

Ascoltiamo un altro esempio:

"Dove posso trovare Dio?", chiese un giovane alla sua guida spirituale.

"È proprio davanti a te", fu la risposta pacata ma ferma.

"Ma allora perché non lo vedo?", ribatté quel gio­vane... "Perché l'ubriaco non vede la sua casa". Più tardi il maestro aggiunse: "Scopri che cosa ti rende ubriaco; per vedere, devi imparare ad esse­re sobrio".

Forse tutti noi siamo "ubriachi" di parole, saturi di messaggi promozionali e di elaborazioni concettuali; per­ché non imparare a recuperare la sobrietà tipica del silenzio?

Un'oasi di silenzio in cui nasce la speranza di una soli­darietà con l'uomo d'oggi, con i suoi desideri e le sue paure; uno spazio che sia accoglienza e condivisione, luogo e momento di "gratuità" in cui si voglia davvero "essere", più che agire e parlare.

È un silenzio delle labbra che evita la superficialità.

È un silenzio del cuore che stempera giudizi o nostal­gie di ricordi ingombranti e invadenti.

È un silenzio di tutto l'essere per riportare la nostra vita nella calma, sapendo che «il bene non fa rumore e che il rumore non fa il bene». E questa è SPERANZA.



Il silenzio si impara

Una realtà come quella del silenzio, sorgente della nostra speranza, non sorge in noi come un fungo, all'im­provviso, e non arriva come un fulmine dal cielo: doman­da lo sforzo di impararla con pazienza e fatica.

È importante tornare a guardare dentro di sé, vivere una maggiore capacità di "concentrazione" e non essere continuamente in... fuga da noi stessi.

Ma questo aspetto, forse legato anche ad aspetti tem­peramentali, non basta.

Tutto ciò potrebbe prestarsi alla altalenante esperienza di stati d'animo diversi, per cui quando siamo tristi ed immalinconiti, allora ci fermiamo a pensare... anche trop­po a noi stessi; e quando invece siamo euforici, allora il tempo del silenzio può anche aspettare un altro giorno. «È importante imparare a difendersi contro l'ininter­rotto fiume di chiacchiere che ci assilla da ogni parte, difendersi come chi ha il petto oppresso e cerca di assi­curarsi il respiro», diceva il grande teologo Romano Guardini.

Se non riusciamo a fare questo, qualcosa si inaridisce in noi e la sorgente della Speranza pian piano si seccherà. Ma se il rumore esteriore è un fatto che non ci deve soverchiare, c'è anche un rumore interiore, un caos inter­no al nostro cuore, fatto di pensieri, desideri, ansie, de­pressioni, rigidità ed altro ancora che si ammucchiano come detriti sopra lo sbocco della sorgente e l'acqua non sgorga più.

Concretamente è un imparare a stare zitti tutte le volte che lo esige la fiducia altrui (altro che confidare all'amico o all'amica del cuore un segreto che diventa... il segreto di Pulcinella!).

È imparare a capire che ci sono troppe cose superflue e sciocche che diciamo ogni giorno.

Per carità, non sto pensando a giovani seriosi e imbam­bolati nel loro silenzio; no, semmai sto pensando che colui che impara il vero silenzio interiore non avrà fretta di dare risposta a tutto, vivrà una giusta e doverosa calma di fronte alle domande importanti della vita e saprà fare suoi, fino in fondo, in una profonda accoglienza, i proble­mi di chi ci sta veramente a cuore.

Allora faremo una singolare esperienza, indicata già da sant'Agostino nelle sue CONFESSIONI: che il nostro mondo interiore è vasto e in esso si può andare sempre più in profondità.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:09

Dal dolore può nascere la Speranza

Credo di trovarmi di fronte ad un tema tremenda­mente difficile da trattare, come uno di quei sen­tieri di montagna che si inerpicano improvvisamente, tra rocce brulle e silenzio, rotto soltanto dal sibilo del vento... Cominci a salire, la strada sassosa si inasprisce sempre di più nella sua pendenza e la fatica attanaglia le gambe e spezza il respiro... Eppure sai che alla fine di quel sentie­ro così impervio c'è un paesaggio che solo la cima invio­lata di una montagna ti può offrire: e allora cerchi di tira­re fuori tutte le energie che ti restano per andare avanti, per arrivare su quella vetta...

L'immagine del sentiero di montagna brullo e sassoso, oltre che faticoso, forse potrà essere anche un po' infla­zionata, ma mi pare renda con lucida chiarezza, senza falsa retorica e senza cervellotiche illusioni come sia diffi­cile percorrere il sentiero che porta dalla Sofferenza alla Speranza.

E se qualcuno degli amici che leggono questo libro mi chiedesse, come è già capitato per il passato: «Hai qual­che spunto bibliografico a cui possiamo rifarci?», ebbene credo che risponderei davvero con sincerità: «Di cose su queste tematiche se ne leggono tante; è un argomento che ti stringe nella morsa di una ricerca che vuole appro­dare a delle conclusioni e insieme ti rituffa dentro al mare dell'angoscia della vita umana. Eppure, devo confessare con sincerità che in nessun libro ho trovato risposta, in nessun autore ho avuto la pista illuminante e definitiva, per quanto fosse lucido scrittore dei movimenti del cuore umano».

"Quaesivi et non inveni"... Ho cercato e non ho trova­to... nei libri, nelle parole.

E allora ho provato a cercare un'altra direzione: ho cercato di guardare dentro alle profondità, talvolta un po' "paurose", del cuore umano; del mio cuore, o di quello delle persone che mi affidavano con pudore il loro sentire sulla vita, che mi svelavano cautamente le loro gioie, ma soprattutto le loro amarezze facendomi credito di una fidu­cia che sempre di più mi meraviglia e insieme mi com­muove.

Sì, nella povertà del cuore umano che soffre, c'è forse la pista per trovare qualche risposta alla ricerca che qui abbiamo intrapreso: saper coniugare insieme due realtà antitetiche ed ostiche della vita come soffrire e sperare.



E intanto l'uomo scappa...

Ho già fatto riferimento a questa immagine dell`homo fugiens", del fuggiasco, che in maniera prospettica mi sembra di intravvedere come rappresentativa dell'uomo del nostro tempo. È l'uomo che va ad incominciare il terzo millennio, apparentemente baldanzoso ed autosuffi­ciente, ma in realtà carico del suo fardello di... paura e di dolore.

È un'immagine cara a Gabriel Marcel che lo definisce "l'uomo della baracca"; è un'immagine che usa all'inizio del suo libro "Il guaritore ferito" anche lo psicologo ame­ricano Henri Nouwen; è un'immagine che ricorre con straordinaria lucidità nelle pagine cariche di sofferenza e di speranza della scrittrice lettone Zenta Maurina Raudive.

E proprio a lei, condannata fin dai sei anni della sua vita su di una sedia a rotelle, da una gravissima forma di paralisi infantile, che sento di fare riferimento con mag­gior sicurezza: non si può parlare di queste realtà se non quando esse ti hanno ...crocifisso nelle membra o nel cuore.

Quest'uomo che tenta con tutte le sue forze di sfuggire alla sofferenza; che si aggrappa ad idoli, a ninnoli, a per­sone che gli vendono un briciolo di felicità "mistificata", ma alla fine si ritrova nuovamente solo, in balìa della sua agitazione e insicurezza, della sua angoscia che non gli fa intravvedere spiragli alla fine del tunnel, di una vita in cui gli sembra che non ci siano né oasi né ponti... e questo lo rende triste, irritabile, scoraggiato.

È come se si trovasse a vivere una lunga, interminabile notte invernale; e lui, il fuggiasco, è esposto al vento geli­do di tramontana che gli dilania le membra.

Quando la sofferenza si unisce alla sfiducia di "non far­cela", i pensieri del fuggiasco sono come un mucchio di aghi di pino caduti davanti alla porta di casa, spazzatura fastidiosa su cui si inciampa.

Come è difficile dire e trovare parole di Fiducia per il fuggiasco...

E vero, possiamo dirgli che dopo il temporale viene il sereno... che dopo la tormenta il cielo si fa più azzurro... che dopo la notte nasce l'aurora... che la nostra vita è legata a quel Regno dello Spirito Eterno in cui nulla può perire... ma egli farà fatica, tanta fatica a credere a tutto questo!

Come è strana la vita: spesso, in essa, la grandezza è impensabile senza la tragedia. Mi viene alla mente la vicenda del Mahatma Gandhi, che ha donato tutta la sua esistenza alla Pace, alla giustizia, alla non violenza e che voleva dare al suo popolo induista un'esistenza degna del­l'uomo. Cadde ucciso vittima di un attentato nel 1948; l'attentatore non era un inglese... ma un bramino indù, il cui cervello e il cui cuore erano troppo piccoli e sclerotiz­zati per comprendere appieno la grandezza del Maestro.

Gandhi, Martin Luther King, Romero... e risalendo lungo un ipotetico "fil rouge" troviamo come capo-cordata GESÙ di NAZARETH.



Un incontro di dolore e di amore

Resto sempre profondamente colpito dalla Via Crucis - che si snoda dal Colosseo al Palatino, nella sera del Venerdì Santo -, che è vissuta in prima persona dal Papa e seguita da milioni di persone collegate via TV in mondo­visione.

La Via della Croce... C'è una stazione che ha sempre un effetto particolare su di me e che con semplicità di cuore vorrei "svelare", perché credo sia la chiave di volta per coniugare il dolore e la speranza. Nella quarta stazio­ne della Via Crucis il quadro di riferimento è quello di Gesù che, portando la Croce, incontra sua Madre.

In quelle strette viuzze di Gerusalemme, nella confusio­ne per noi caotica del mercato orientale, mentre la gente si scosta appena per lasciar passare quel corteo di morte, abituata ormai a vedere gente condannata dalla "giusti­zia" romana al supplizio del Golgota (in fondo è la stessa indifferenza che ci mostra la morte in diretta attraverso i mass-media), Maria è lì che aspetta suo Figlio.

Come è bello sapere che Qualcuno ti aspetta nella vita; che non sei solo e che, magari per un attimo, puoi stargli vicino e dirgli tutto il tuo amore.

Sapere che anche nel momento estremo della vita puoi stringere le mani di colui o colei che hai tanto amato e che proprio in quel momento ti senti dire, con un filo di voce: "Finalmente... sei qui, sei arrivato".

Una delle ultime parole che sono ripetute più spesso in questo supremo momento della vita e che insistente­mente, più di una volta, ho sentito sussurrare da giovani e meno giovani, è la parola "Mamma".

Forse è proprio vero che "morire è un nascere di nuovo...". Le braccia di una mamma sono sempre lì ad accogliere suo figlio, il suo Eùore continua a volergli bene, dalle sue labbra non escono parole di circostanza, ma solo di affetto vero e assolutamente sincero.

"Mamma"...

Credo proprio che anche Gesù l'abbia sussurrato, e mi sono chiesto se questo straziante incontro può davvero essere stato di sollievo per Lui e per Maria.

Lei avrà certamente rivisto davanti a sé la figura ierati­ca di Simeone che, nel Tempio di Gerusalemme, strin­gendo quel suo Figlio-Bambino tra le braccia le diceva: «E a te una spada trafiggerà l'anima».

Allora, forse, non aveva capito; ora tutto diventa chiaro. Certo, l'epilogo di questo dramma si consuma ai piedi della Croce, ma il momento più duro e insieme (oso dire) più "dolce", è stato proprio questo incontro: rapidi istanti in cui si consumano i ricordi, le attese profetizzate, le gioie gustate insieme, le ansie vissute per quel Figlio incompre­so nonostante tutta la sua vita parlasse di BONTA, l'ango­scia di una fine oramai inevitabile.

"Una spada ti trafiggerà l'anima", così racconta l'evan­gelista Luca una sequenza di quel giorno di gioia al Tempio... Vedo Maria stare in mezzo ad una folla immen­sa di donne segnate dal dolore: sono madri, mogli, figlie, sorelle e fidanzate che corrono anche oggi là dove posso­no incontrare o anche solo veder passare la persona amata, per scambiare con lei l'attimo fuggente di uno sguardo che non ti fa sentire solo, che "riaccende nel cuore la speranza".

Da questo incrocio di sguardi si diramano le infinite "via crucis" presenti in ogni angolo della terra.

Anche Gesù, dopo l'incontro con quello sguardo d'infi­nito Amore di sua Madre, pur barcollando, pur vacillante, prosegue...



Una dolcezza che si fa speranza

Siamo alla ricerca di una "via", pur se ardua e ripida, che sappia ridare vigore al lumino fumigante, che sappia mettersi accanto per proteggere la canna che rischia di essere spezzata e frantumata dal vento... Sono immagini bibliche legate alla figura del Servo di Jahwè, descritto dal profeta Isaia (o meglio, da uno dei suoi discepoli).

Se si considera tutta la vita umana senza immetterla in una prospettiva di Speranza, si è costretti a vedere che sono molti i momenti di sole che vengono offuscati da giorni nuvolosi e da notti senza stelle... E ci si accorge anche che su cento desideri presenti nel nostro cuore, magari soltanto uno trova la sua realizzazione, dove spes­so questa realizzazione passa per momenti di delusione sofferta.

Allora può succedere che l'uomo dal cuore "medio­cre", nel dolore ...peggiora, diviene indifferente, sempre più arricciato su se stesso, cieco e sordo verso i bisogni degli altri. L'egoista, nel dolore, si fa ancor più egoista; il duro ancora più duro; il meschino ancora più calcolatore del proprio esclusivo e narcisistico interesse.

Quante prove di questi fatti abbiamo sotto i nostri occhi scorrendo la cronaca di tutti i giorni.

Eppure credo di poter dire che se il dolore e la soffe­renza "piegano" questo uomo dal cuore angusto e medio­cre, innalzano e purificano il cuore accogliente.

Certo, la consapevolezza che il dolore fa parte di ogni storia umana, può mitigare, non risolvere, il momento di sofferenza; non posso essere così superbo e presuntuoso da sperare che il dolore risparmi solo la mia vita e faccia eccezione soltanto per me...

Oppure ci si può fermare nella considerazione di come nella vita "tutto sia vanità", un piccolo alito vaporoso che scompare in un attimo, come affermava il saggio Qoèlet, ma questa è più una razionalizzazione difensiva, e non mi pare in grado di entrare in sintonia con il modo di vivere e di pensare della gente del nostro tempo.

E allora?

Credo che la via più vera per non ribellarsi con aggres­sività o depressione al dolore sia quella della "dolcezza". Sì, la dolcezza di cui si fa interprete una "presenza amica", magari silenziosa e discreta nella nostra vita, che sa però non esasperare la nostra tensione, che sa accet­tare le nostre lacrime, che sa farci sentire tutta la vicinan­za di un cuore che è profondamente "vicino" e carico di intimità.

È la presenza di qualcuno che sa aspettarci lungo il sentiero che si è fatto affannoso e ci ha tolto il respiro e forse anche la voglia di camminare.

È la delicatezza di chi sa che il dolore e la sofferenza umana non si cancellano, ma si possono portare meglio, se "condivisi".

È una presenza di fedeltà e gratuità che auguro a cia­scuno di poter incontrare lungo il cammino della propria vita.

Di simili presenze, in fondo, ne basta anche una sola, perché in essa si rispecchia totalmente la parola rivolta da Dio al profeta Issata: «Ricorda, se anche una madre si dimenticasse di suo figlio, io non ti dimenticherò mai; perché porto il tuo nome disegnato sul palmo delle mie mani» (Isaia 49,15-16).

E qui che la Sofferenza "purificata" diviene Speranza consolata".



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:10

Per far crescere in noi la Speranza

C’è una sera d'estate, detta la notte di san Lorenzo, in cui molti di noi stanno con gli oc­chi rivolti al cielo, tutti tesi a cercare di scorgere la scia luminosa e improvvisa di una... stella cadente.

Se abbiamo la fortuna di essere fuori dalla città, il cui cielo è reso opaco dai riflessi delle luci e dall'aria ormai così poco trasparente, se ci troviamo in qualche luogo isolato o magari in montagna, un po' più vicini al cielo, queste scie luminose sono più facilmente visibili, si molti­plicano, si rincorrono e quasi si fa a gara nel dirsi gli uni agli altri: "Ne ho visto una... e un'altra ancora...".

La notte di san Lorenzo... la notte dei desideri: sì, per­ché sulla scia di una stella cadente la tradizione dice che puoi formulare un desiderio tenuto profondamente celato nel cuore, nella SPERANZA che questo tuo desiderio possa essere esaudito.

La notte dei desideri si trasforma allora nella notte della speranza, perché ognuno di noi porta dentro di sé la speranza che qualcosa di molto personale possa final­mente essere "ascoltato" e trovare un suo compimento.



Il coraggio di desiderare

Poi, si sa, non tutti i desideri formulati in una sera calda di agosto trovano realizzazione, ma io credo ferma­mente che il nostro cuore abbia il diritto, se non il dovere, di desiderare e quindi di sperare...

Troppo a lungo un certo tipo di educazione ha com­presso tutto il mondo dei "desideri". Intendo dire di quei desideri legittimi che ci aprono su orizzonti più ampi del nostro piccolo mondo finito e spesso pieno di illusioni e disillusioni; che ci proiettano non tanto in un mondo di fantasie infantili, quanto in una modalità di vita che ci dà il coraggio di cercare il di più, di cercare più in là; che in fondo ci aprono su quel mondo che potremmo chiamare "il fascino del nuovo"; un mondo che evoca e provoca il coraggio di cercare o forse... di saper ancora aspettare.

È un fascino che attira e polverizza ogni dinamica di risucchio nella monotonia, nella banalità, nella mediocrità di un cuore angusto e stretto, che non fa abbeverare a quelle "cisterne screpolate" di cui parla il profeta Geremia, segnate dalle nostre paure, dai nostri condizio­namenti, dai nostri conformismi, dalle nostre insicurezze, rassegnazioni e sfiducie.

Credo che il cielo stellato dei desideri si regga su due colonne: la voglia della novità, non fine a se stessa, ma capace di dare un colpo d'ala alla nostra vita e la perseve­ranza dell'attesa, perché il coraggio dell'attesa paziente, alla lunga, viene premiato.

Certo che se una di queste colonne si spezza, tutta la "volta celeste dei desideri" è seriamente minacciata...



Chiamati a crescere

Il contesto culturale in cui noi viviamo e dal quale non possiamo prescindere, perché fa da sfondo ad ognuna di queste riflessioni, privilegia l'istante rispetto alla durata, l'esperienza immediata ed intensa rispetto a quella rifles­sa, preparata e riletta senza affanno e con disincanto.

Non si cresce prescindendo dalla durata, dal tempo assimilato dalla pazienza accettata.

La speranza non diventa allora solo una esperienza emotiva: in essa si ha la consapevolezza piena che nel nostro cuore l'uomo può andare a fondo in un abisso di disperazione, ma può anche alzare gli occhi al cielo e cre­dere che egli può salire e non solo cadere...

Felice il pellegrino della vita che porta la sinfonia della speranza nel cuore: essa lo aiuta a superare le paludi, il deserto arido e sassoso, il bosco oscuro e impenetrabile nei momenti più difficili del cammino.

Ma questa speranza non s'improvvisa; è necessario imparare a farla crescere, cercare in noi stessi tutte le risorse di vita e di fecondità che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo.

Del resto, la prima parola di Dio all'uomo è, guarda caso, proprio un appello a crescere; in Genesi 1,28 la Sua parola risuona decisa: «Crescete, siate fecondi e riempite la terra».

Non è solo appello ad una crescita biologica o demo­grafica, è un appello per intendere tutta la vita come una "forza di crescita".

Nel Vangelo troviamo moltissime immagini che richia­mano alla mente e al cuore la dinamica della crescita: il seme chiamato a maturare, il lievito che fermenta, la rete che si riempie di pesci, la sala da nozze verso cui vanno gli invitati, la città che viene edificata sulla cima della montagna...



Crescere in una relazione

Non penso di parlare solo per esperienza personale: sempre più mi vado convincendo, guardando alla storia di tante persone giovani e meno giovani, che "non si cresce da soli, ma in una relazione".

Nella relazione con gli altri (che poi diviene anche uno specchio spesso assai realistico della nostra relazione con Dio), noi portiamo quello che siamo, talvolta anche senza accorgercene: in essa viviamo la possessività o 1'oblati­vità, l'aggressività o la fiducia, la docilità o il senso di competitività e di dominio che ci urgono dentro, la gioia e la serenità o l'inquietudine e la malinconia del nostro essere e del nostro esistere...

Già abbiamo dedicato una riflessione all'importanza dell'Amicizia per far nascere in noi la speranza; ora potremmo semplicemente aggiungere quanto sia impor­tante l'Amicizia per... CRESCERE.

Dice la scrittrice Zenta Maurina Raudive, in uno dei suoi stupendi squarci di percezione di umanità, che «l'a­micizia è una pietra preziosa, la fedeltà è l'oro che tutta l'abbraccia, e senza questo sicuro abbraccio il prezioso gioiello non arriva a risplendere in tutta la sua bellezza e finisce per perdersi».

Ma la relazione non è solo strada piana e sicura: può anche essere un insieme di imprevisti e la fedeltà ad essa conduce a fare l'esperienza della notte.

Crescere significa accettare "le morti" che l'incontro con l'altro ci fa vivere.

Non sempre una relazione vive nella luce piena...

Ci sono momenti in cui il legame sembra attenuarsi fin quasi a sparire, in cui la rinuncia sembra pesare più della gioia di quello che s'incontra, in cui i passi con l'altro si fanno incerti e silenziosi; quello che si pensava mai potes­se succedere, invece può accadere in un istante. Eppure anche queste "morti" possono diventare un passaggio di crescita.



Crescere in una storia

Un presente di speranza assume significato riferito ad un passato di "memorie buone" e aperto ad un avvenire di "promesse".

Che cosa sono le "memorie buone"?

Penso a quegli eventi che hanno segnato in maniera positiva la nostra vita e che noi spesso tendiamo o a dimenticare o a sottovalutare, dando maggior peso a quelle realtà di negatività o di fallimento che ci hanno coinvolti e generalizzandole: «Lì non sono riuscito... quin­di non valgo niente!».

Siamo disposti a riconoscere che questa generalizza­zione è indebita, ma ci ostiniamo a muoverci su questo binario di negatività.

Eppure noi sappiamo che si può "cavare il bene" an­che dalle situazioni di fallimento e che Dio spesso segue questa via... in verità molto misteriosa ai nostri occhi e spesso indecifrabile.

Però, è importante che il passato sia vissuto come "me­moria".

Dimenticare quello che siamo stati vuol dire perdere degli essenziali punti di riferimento per quello che siamo e che potremo essere.

Vivere nell'amnesia ci rende degli automi in balìa di ogni evento della vita, senza una storia, senza un futuro, senza una meta...

Vivere la "memoria" è cominciare a rileggere la nostra vita alla luce di Dio, con i suoi occhi, che sono occhi di tenerezza e di misericordia e non di inappellabile ed esigente giudizio. È la scoperta della continuità del flusso dei doni di Dio, del fatto, come dice un bellissimo racconto assai noto, che Lui ha continuato a portarci in braccio anche nei momenti in cui non ce ne siamo pro­prio accorti..

Solo così il presente è accolto nella fede e in un reali­smo che sa di speranza; il nemico più subdolo del presen­te è quella forma di idealismo irrealistico, di fantasie di onnipotenza infantile che ci ricacciano indietro in forme di "non crescita" umana e spirituale, che ci immettono in un tunnel fatto di improbabili sogni di cambiamenti, inve­ce di vivere l'oggi di Dio a cui siamo chiamati.

Sempre di più mi vado convincendo di una grande ed essenziale verità: si va a Dio non "nonostante" i nostri sbagli ma "con" il proprio limite, la propria fragilità e anche il proprio peccato.

E poi la nostra storia non avrebbe un senso se non fosse finalizzata: l'incontro con DIO, ma anche con il DESIDERIO più profondo del cuore umano si apre sem­pre su di un Avvenire e si fonda su di una Promessa di speranza; non è solo una parola pensare al nostro Dio come al Dio della Promessa.

Ma occorre ripetercelo ancora una volta: bisogna la­sciare qualcosa, anche di quello che ci sembra importante e... saper attendere.

Il Dio della Promessa diviene anche il Dio dei distac­chi... ma ciò è indispensabile per non ridurre tutto il nostro anelito all'angusto orizzonte del nostro desiderio.



Giocando a dama...

C'è un racconto che ben sintetizza questo cammino di "crescita nella Speranza".

È tratto dalle opere del filosofo Martin Buber, profon­do conoscitore di molti racconti della letteratura ebraica e soprattutto della Scuola del Talmud ebraico.

«In uno dei giorni della festa della Dedicazione del Tempio (tra novembre e dicembre), Rabbi Nahùm entrò all'improvviso nella Scuola del Talmud e trovò gli studenti che giocavano... a dama, come è d'uso in quei giorni. Quando vide­ro entrare il maestro, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse benevolmente la testa e chiese: "Ma conoscete anche le leggi del gioco della dama?".

E siccome essi non aprivano bocca per la ver­gogna, si rispose da sé: "Vi dirò io le leggi del gioco della dama.

Primo: non è permesso fare due passi alla volta. Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro.

Terzo: quando si è arrivati in alto, beh, allora si può andare dove si vuole"».

Tre leggi di vita... tre leggi per far crescere in noi la Speranza.



OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
03/09/2009 15:10

Lampionai della Speranza

Ai nostri giorni è più difficile vivere l'esperienza di cui tra poco vi racconterò, infatti gran parte del tempo libero di un bambino viene speso nel guardare la TV: mediamente ogni bambino occupa tre ore e venti della sua giornata davanti alla televisione; questo è quanto ci dicono le recenti statistiche di "audience" televisiva per bambini.

Un altro raffronto, che lascia sicuramente perplessi, è quando si viene a conoscere che annualmente un bambi­no italiano passa circa 850 ore a scuola, mentre ne utiliz­za 1338 per guardare programmi della TV, non sempre mirati alle sue vere esigenze.

È certo comunque che l'uso (o l'abuso) dei cartoni ani­mati o delle favole in videocassetta ha di gran lunga sosti­tuito il tempo speso a leggere un libro di favole o un romanzo... "per ragazzi", come si usava ancora dire e fare fino a qualche anno fa.

Ai bambini dei nostri giorni viene tolto, in gran parte, il gusto di poter leggere un romanzo fatto per loro o una favola di quelle che costituivano il repertorio classico dei libri per ragazzi.

Personalmente, credo di poter dire che non sono per nulla convinto che questo sia proprio un vantaggio per il mondo dei ragazzi...

La favola "letta" lasciava largo spazio alla rappresenta­zione fantastica che ognuno poteva elaborare con la crea­tività della propria fantasia e del proprio mondo interiore.

I personaggi venivano ad assumere i contorni che gli occhi della nostra fantasia sapevano costruire e vedere, e non quelli uguali per tutti, fatti dalla mano abile dei "car­toonists" della Walt Disney o di altri prodotti giapponesi oggi molto in voga.



La storia di un "lampionaio"

Mi direte: «Perché questo lungo preambolo? Non stia­mo scrivendo di TV per ragazzi, né di lettura critica dei mass-media...».

Giusto - vi rispondo -, ma era necessario che dicessi quello che ho affermato sopra, per capire il titolo di que­sta proposta e anche gran parte del suo contenuto.

Il ricordo affonda le radici nell'infanzia, quando molti romanzi per ragazzi erano letti e riletti tutto d'un fiato. Certamente, i grandi romanzi "futuristici" di Jules Verne appassionavano, ma ce n'era uno che di tanto in tanto sentivo il bisogno di rileggere.

Il suo titolo? "Il lampionaio", appunto!

Era la storia di un rapporto stupendo fatto di tenerezza e di affetto tra una ragazzina orfana e lo zio Omobono (chissà se dicendo questo non ho riaperto uno spiraglio nella memoria di qualche lettore forse meno giovane...?).

Ogni sera, anzi, quando le prime ombre della sera allungavano il loro velo per coprire la città, Zio Omobono usciva di casa e con grande pazien­za iniziava l'opera di accendere uno per uno tutti i lampioni dei quartieri della città: a qualche lam­pione aggiungeva dell'olio, a qualche altro cam­biava lo stoppino, a qualche altro ancora puliva i vetri perché la fiamma si espandesse in tutta la sua vividezza.

Quando tornava a casa era tardi, e lui si senti­va molto stanco, ma la nipotina stava lì, seduta vicino al focolare, per aspettarlo, per corrergli incontro, per abbracciarlo e dirgli il bene grande che gli voleva.

Il lampionaio... non posso qui raccontare tutta la bellis­sima storia di questo romanzo; voglio solo prendere a prestito l'immagine di quest'uomo, impegnato in un lavo­ro che l'evoluzione scientifica ha reso inutile perché oggi basta un interruttore per accendere tutte le luci di una grande città.

Eppure non basta un interruttore per accendere un po' di speranza in tanti cuori che la cercano intensamen­te... Forse l'unico mezzo resta ancora un piccolo lume con cui avvicinarci agli altri e dire loro: «La speranza? Sai non è un'utopia, non è un'idea astratta, non è un'illusio­ne di un cuore sentimentale; la speranza c'è, è ancora possibile e se ti avvicini a qualche cuore che la porta den­tro ne scorgi la luce, ne senti il calore».



Sulla strada di Emmaus

So bene come il Vangelo che racconta l'incontro di due discepoli sulla via di Emmaus con Gesù risorto è un Vangelo letto, usato, conosciuto.

Ma in questa stupenda pagina che si colloca alla fine del Vangelo di Luca c'è il parallelo evangelico di quanto abbiamo sin qui detto: c'è un... lampionaio all'opera e, guarda caso, anche lui sul far della sera.

I cuori di quei due pellegrini e discepoli erano stanchi, confusi e delusi; avevano puntato tutto sul Maestro di Nazareth, avevano anche sperato che il terzo giorno lui sarebbe risorto, e invece... invece la sua vicenda si era tragicamente e tristemente conclusa sul Gòlgota, con una Crocifissione che aveva stroncato ogni ulteriore margine disperanza.

Come è bello il tratto del Vangelo in cui dopo aver sentito le Sue parole, dopo aver cenato con Lui, dopo che la Sua presenza improvvisamente viene meno, si dicono l'un l'altro: «Adesso capiamo... non ci ardeva forse il cuore dentro, mentre Lui ci parlava?».

Cuori spenti come lampioni addormentati, ma il cui lucignolo aveva ripreso ad ardere al contatto di COLUI CHE È LA SPERANZA.

E Gesù non era nuovo al mestiere di... lampionaio: quante altre volte aveva acceso la speranza nel cuore rad­drizzando una donna "curva" e ridonandole la dignità del­l'essere eretta di fronte agli altri, di poterli guardare dritti negli occhi.

O riponendo tutta la sua fiducia in Maria Maddalena, pur sapendo, certo, quello che lei aveva vissuto, ma com­prendendo il desiderio di amore "vero" di questa donna che portava in sé la profonda ferita di non essere stata amata o di essere stata "usata" e strumentalizzata in nome di un falso amore.

O accettando di reinvestire tutta la sua fiducia in Pietro vedendo quegli occhi carichi di lacrime... o consolando, Lui, uomo del dolore, ma non uomo senza speranza, le donne che con Maria sua Madre attendevano il suo pas­saggio lungo la Via dolorosa che portava al Calvario.

Gesù, il lampionaio del cuore capace di dire a tutti: «Venite a me voi che siete affaticati, stanchi, sfiduciati, delusi e confusi ed io darò un po' di riposo alla vostra stanchezza».



Per accendere in cuore la speranza

Voglio dire subito che si tratta di una ricerca, di un progetto, di un impegno non facili da tradurre in pratica nella propria vita.

-> Per essere "lampionai di speranza" credo che innanzi­tutto occorra partire da se stessi; imparare ad accende­re la Speranza dentro di noi. Le cose "vere" della vita nascono sempre dal di dentro, perché solo nell'interio­rità e nel silenzio esse possono crescere e maturare senza forzature e manipolazioni.

Quante persone perdono la Speranza forse proprio perché smarriscono la via dell'interiorità del cuore. Quanti dicono sconsolati: «È così, per me sarà sempre così, non posso fare nulla per cambiare la mia vita...». E si arrendono. Ma la vera vittima, nella vita, è soltan­to chi si rassegna: vittima di se stesso, della sua sfidu­cia, della sua non-speranza.

La speranza diviene possibile e vivibile solo se noi stes­si, per primi, la crediamo tale.

È la VIA DELLA CONVINZIONE.

Un grande psicoanalista e psicoterapeuta contempora­neo, S. Nacht, usa un'immagine che mi ha profonda­mente colpito: «Se qualcuno viene da te, tu non clas­sificarlo subito, non giudicarlo, non imbrigliarlo dentro alle "tue" illuminazioni o sensazioni.

Sii piuttosto per lui come... "una comoda poltrona" in cui egli possa sedersi, rilassarsi, sentirsi davvero a suo agio, accolto e ascoltato».

Il cuore come "comoda poltrona": è la VIA DELL'AC­COGLIENZA, che sana le ferite di chi non si è sentito capito, accettato e soprattutto amato.

-> Quando si vive qualche momento di sofferenza, di malinconia, di tristezza (e la vita, in questo senso, non fa sconti a nessuno!), questi diventano macigni insop­portabili se si uniscono al peso della solitudine.

Chi è solo trova con difficoltà la forza di reagire, di cercare, di rialzarsi, di ricominciare; insomma, la forza di sperare.

La solitudine taglia le gambe molto spesso: da fanta­sma aleggiante ed impalpabile diviene ingombrante e insopportabile realtà.

E qui diventa importante, magari essenziale, trovare chi accetta di condividere il proprio "lumicino" di Speranza e camminare con noi, tenendo il ritmo del nostro passo anche se appesantito e incerto.

È la VIA DELLA COMPAGNIA: non solo e non tanto perché "insieme è bello", ma perché insieme il cuore può superare tante paure.

Queste sono le vie dei cuori semplici, di coloro che hanno imparato (e non certo senza fatica) a soffrire sperando.

Del resto anche l'aver vissuto solo qualche contatto con il mondo dell'handicap, diventa una miniera preziosa di come imparare dai più deboli ad affrontare la vita, coniugando insieme pianto e sorriso.

Questa, alla fin fine, è la VIA DELL'ABBANDONO NELLA FEDE: è la consapevolezza non rassegnata né subita, ma offerta, che ogni esistenza ha la sua croce; ogni cuore ha la sua spina che lo trafigge e lo fa sangui­nare un poco; ogni vita può manifestare debolezza e fra­gilità, magari quando meno te lo aspetti.

A tutto ciò il Signore dà una risposta sola, la stessa di cui ci parla autobiograficamente s. Paolo, nella seconda lettera ai Corinti (cfr. 12,9):

«Amico, amica mia, ti basti la mia GRAZIA».



Per finire...

Sì, proprio per finire, perché questa riflessione chiude il ciclo di questa ricerca dei sentieri della Speranza.

Forse sono stati pensieri poveri e semplici, certamente pensieri poco letti sui libri e più cercati e letti nella vita delle persone, nelle loro storie fatte di sofferenza e di desideri.

Pensieri di una ricerca che rimane "aperta" più che consegnata alle certezze acquisite.

A questo punto le parole sulla Speranza lasciano spa­zio alle parole del Silenzio.

Più che sapere, occorre saper essere. Più che guarda­re, occorre vedere.

Più che parlare, occorre vivere.

Questo è... "meno di niente": ed è anche il senso del racconto che vi consegno per suggellare ciò che il cuore intuisce e che a questo punto la penna non sa (o forse non osa) più scrivere.



"L'ultimo fiocco di neve"

«Dimmi, quanto pesa un fiocco di neve?», chiese la cinciallegra alla colomba. «Meno di niente»,

rispose la colomba. La cinciallegra allora raccontò alla colomba una storia:

«Riposavo sul ramo di un pino quando cominciò a nevicare. Non una bufera, no,

una di quelle nevicate lievi lievi, come un sogno.

Siccome non avevo niente di meglio da fare, cominciai a contare

i fiocchi di neve

che cadevano sul mio ramo. Ne caddero 3.751.952. Quando, piano piano, lentamente sfarfalleggiò giù

il 3.751.953esimo - meno di niente, come hai detto tu -

il ramo si ruppe...».

Detto questo la cinciallegra volò via. La colomba,

un'autorità in materia di pace dall'epoca di un certo Noè, rifletté un momento e poi disse: «Manca forse una sola persona perché tutto il mondo

piombi nella pace del cuore e nella SPERANZA».

Forse manchi solo tu.


[SM=g27998]

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 02:41. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com