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Articoli di Nico Dal Molin pub­blicati dal 1990 al 1992 su SE VUOI (Cammini di speranza)

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2009 15:10
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Sesso: Femminile
03/09/2009 15:09

Dal dolore può nascere la Speranza

Credo di trovarmi di fronte ad un tema tremenda­mente difficile da trattare, come uno di quei sen­tieri di montagna che si inerpicano improvvisamente, tra rocce brulle e silenzio, rotto soltanto dal sibilo del vento... Cominci a salire, la strada sassosa si inasprisce sempre di più nella sua pendenza e la fatica attanaglia le gambe e spezza il respiro... Eppure sai che alla fine di quel sentie­ro così impervio c'è un paesaggio che solo la cima invio­lata di una montagna ti può offrire: e allora cerchi di tira­re fuori tutte le energie che ti restano per andare avanti, per arrivare su quella vetta...

L'immagine del sentiero di montagna brullo e sassoso, oltre che faticoso, forse potrà essere anche un po' infla­zionata, ma mi pare renda con lucida chiarezza, senza falsa retorica e senza cervellotiche illusioni come sia diffi­cile percorrere il sentiero che porta dalla Sofferenza alla Speranza.

E se qualcuno degli amici che leggono questo libro mi chiedesse, come è già capitato per il passato: «Hai qual­che spunto bibliografico a cui possiamo rifarci?», ebbene credo che risponderei davvero con sincerità: «Di cose su queste tematiche se ne leggono tante; è un argomento che ti stringe nella morsa di una ricerca che vuole appro­dare a delle conclusioni e insieme ti rituffa dentro al mare dell'angoscia della vita umana. Eppure, devo confessare con sincerità che in nessun libro ho trovato risposta, in nessun autore ho avuto la pista illuminante e definitiva, per quanto fosse lucido scrittore dei movimenti del cuore umano».

"Quaesivi et non inveni"... Ho cercato e non ho trova­to... nei libri, nelle parole.

E allora ho provato a cercare un'altra direzione: ho cercato di guardare dentro alle profondità, talvolta un po' "paurose", del cuore umano; del mio cuore, o di quello delle persone che mi affidavano con pudore il loro sentire sulla vita, che mi svelavano cautamente le loro gioie, ma soprattutto le loro amarezze facendomi credito di una fidu­cia che sempre di più mi meraviglia e insieme mi com­muove.

Sì, nella povertà del cuore umano che soffre, c'è forse la pista per trovare qualche risposta alla ricerca che qui abbiamo intrapreso: saper coniugare insieme due realtà antitetiche ed ostiche della vita come soffrire e sperare.



E intanto l'uomo scappa...

Ho già fatto riferimento a questa immagine dell`homo fugiens", del fuggiasco, che in maniera prospettica mi sembra di intravvedere come rappresentativa dell'uomo del nostro tempo. È l'uomo che va ad incominciare il terzo millennio, apparentemente baldanzoso ed autosuffi­ciente, ma in realtà carico del suo fardello di... paura e di dolore.

È un'immagine cara a Gabriel Marcel che lo definisce "l'uomo della baracca"; è un'immagine che usa all'inizio del suo libro "Il guaritore ferito" anche lo psicologo ame­ricano Henri Nouwen; è un'immagine che ricorre con straordinaria lucidità nelle pagine cariche di sofferenza e di speranza della scrittrice lettone Zenta Maurina Raudive.

E proprio a lei, condannata fin dai sei anni della sua vita su di una sedia a rotelle, da una gravissima forma di paralisi infantile, che sento di fare riferimento con mag­gior sicurezza: non si può parlare di queste realtà se non quando esse ti hanno ...crocifisso nelle membra o nel cuore.

Quest'uomo che tenta con tutte le sue forze di sfuggire alla sofferenza; che si aggrappa ad idoli, a ninnoli, a per­sone che gli vendono un briciolo di felicità "mistificata", ma alla fine si ritrova nuovamente solo, in balìa della sua agitazione e insicurezza, della sua angoscia che non gli fa intravvedere spiragli alla fine del tunnel, di una vita in cui gli sembra che non ci siano né oasi né ponti... e questo lo rende triste, irritabile, scoraggiato.

È come se si trovasse a vivere una lunga, interminabile notte invernale; e lui, il fuggiasco, è esposto al vento geli­do di tramontana che gli dilania le membra.

Quando la sofferenza si unisce alla sfiducia di "non far­cela", i pensieri del fuggiasco sono come un mucchio di aghi di pino caduti davanti alla porta di casa, spazzatura fastidiosa su cui si inciampa.

Come è difficile dire e trovare parole di Fiducia per il fuggiasco...

E vero, possiamo dirgli che dopo il temporale viene il sereno... che dopo la tormenta il cielo si fa più azzurro... che dopo la notte nasce l'aurora... che la nostra vita è legata a quel Regno dello Spirito Eterno in cui nulla può perire... ma egli farà fatica, tanta fatica a credere a tutto questo!

Come è strana la vita: spesso, in essa, la grandezza è impensabile senza la tragedia. Mi viene alla mente la vicenda del Mahatma Gandhi, che ha donato tutta la sua esistenza alla Pace, alla giustizia, alla non violenza e che voleva dare al suo popolo induista un'esistenza degna del­l'uomo. Cadde ucciso vittima di un attentato nel 1948; l'attentatore non era un inglese... ma un bramino indù, il cui cervello e il cui cuore erano troppo piccoli e sclerotiz­zati per comprendere appieno la grandezza del Maestro.

Gandhi, Martin Luther King, Romero... e risalendo lungo un ipotetico "fil rouge" troviamo come capo-cordata GESÙ di NAZARETH.



Un incontro di dolore e di amore

Resto sempre profondamente colpito dalla Via Crucis - che si snoda dal Colosseo al Palatino, nella sera del Venerdì Santo -, che è vissuta in prima persona dal Papa e seguita da milioni di persone collegate via TV in mondo­visione.

La Via della Croce... C'è una stazione che ha sempre un effetto particolare su di me e che con semplicità di cuore vorrei "svelare", perché credo sia la chiave di volta per coniugare il dolore e la speranza. Nella quarta stazio­ne della Via Crucis il quadro di riferimento è quello di Gesù che, portando la Croce, incontra sua Madre.

In quelle strette viuzze di Gerusalemme, nella confusio­ne per noi caotica del mercato orientale, mentre la gente si scosta appena per lasciar passare quel corteo di morte, abituata ormai a vedere gente condannata dalla "giusti­zia" romana al supplizio del Golgota (in fondo è la stessa indifferenza che ci mostra la morte in diretta attraverso i mass-media), Maria è lì che aspetta suo Figlio.

Come è bello sapere che Qualcuno ti aspetta nella vita; che non sei solo e che, magari per un attimo, puoi stargli vicino e dirgli tutto il tuo amore.

Sapere che anche nel momento estremo della vita puoi stringere le mani di colui o colei che hai tanto amato e che proprio in quel momento ti senti dire, con un filo di voce: "Finalmente... sei qui, sei arrivato".

Una delle ultime parole che sono ripetute più spesso in questo supremo momento della vita e che insistente­mente, più di una volta, ho sentito sussurrare da giovani e meno giovani, è la parola "Mamma".

Forse è proprio vero che "morire è un nascere di nuovo...". Le braccia di una mamma sono sempre lì ad accogliere suo figlio, il suo Eùore continua a volergli bene, dalle sue labbra non escono parole di circostanza, ma solo di affetto vero e assolutamente sincero.

"Mamma"...

Credo proprio che anche Gesù l'abbia sussurrato, e mi sono chiesto se questo straziante incontro può davvero essere stato di sollievo per Lui e per Maria.

Lei avrà certamente rivisto davanti a sé la figura ierati­ca di Simeone che, nel Tempio di Gerusalemme, strin­gendo quel suo Figlio-Bambino tra le braccia le diceva: «E a te una spada trafiggerà l'anima».

Allora, forse, non aveva capito; ora tutto diventa chiaro. Certo, l'epilogo di questo dramma si consuma ai piedi della Croce, ma il momento più duro e insieme (oso dire) più "dolce", è stato proprio questo incontro: rapidi istanti in cui si consumano i ricordi, le attese profetizzate, le gioie gustate insieme, le ansie vissute per quel Figlio incompre­so nonostante tutta la sua vita parlasse di BONTA, l'ango­scia di una fine oramai inevitabile.

"Una spada ti trafiggerà l'anima", così racconta l'evan­gelista Luca una sequenza di quel giorno di gioia al Tempio... Vedo Maria stare in mezzo ad una folla immen­sa di donne segnate dal dolore: sono madri, mogli, figlie, sorelle e fidanzate che corrono anche oggi là dove posso­no incontrare o anche solo veder passare la persona amata, per scambiare con lei l'attimo fuggente di uno sguardo che non ti fa sentire solo, che "riaccende nel cuore la speranza".

Da questo incrocio di sguardi si diramano le infinite "via crucis" presenti in ogni angolo della terra.

Anche Gesù, dopo l'incontro con quello sguardo d'infi­nito Amore di sua Madre, pur barcollando, pur vacillante, prosegue...



Una dolcezza che si fa speranza

Siamo alla ricerca di una "via", pur se ardua e ripida, che sappia ridare vigore al lumino fumigante, che sappia mettersi accanto per proteggere la canna che rischia di essere spezzata e frantumata dal vento... Sono immagini bibliche legate alla figura del Servo di Jahwè, descritto dal profeta Isaia (o meglio, da uno dei suoi discepoli).

Se si considera tutta la vita umana senza immetterla in una prospettiva di Speranza, si è costretti a vedere che sono molti i momenti di sole che vengono offuscati da giorni nuvolosi e da notti senza stelle... E ci si accorge anche che su cento desideri presenti nel nostro cuore, magari soltanto uno trova la sua realizzazione, dove spes­so questa realizzazione passa per momenti di delusione sofferta.

Allora può succedere che l'uomo dal cuore "medio­cre", nel dolore ...peggiora, diviene indifferente, sempre più arricciato su se stesso, cieco e sordo verso i bisogni degli altri. L'egoista, nel dolore, si fa ancor più egoista; il duro ancora più duro; il meschino ancora più calcolatore del proprio esclusivo e narcisistico interesse.

Quante prove di questi fatti abbiamo sotto i nostri occhi scorrendo la cronaca di tutti i giorni.

Eppure credo di poter dire che se il dolore e la soffe­renza "piegano" questo uomo dal cuore angusto e medio­cre, innalzano e purificano il cuore accogliente.

Certo, la consapevolezza che il dolore fa parte di ogni storia umana, può mitigare, non risolvere, il momento di sofferenza; non posso essere così superbo e presuntuoso da sperare che il dolore risparmi solo la mia vita e faccia eccezione soltanto per me...

Oppure ci si può fermare nella considerazione di come nella vita "tutto sia vanità", un piccolo alito vaporoso che scompare in un attimo, come affermava il saggio Qoèlet, ma questa è più una razionalizzazione difensiva, e non mi pare in grado di entrare in sintonia con il modo di vivere e di pensare della gente del nostro tempo.

E allora?

Credo che la via più vera per non ribellarsi con aggres­sività o depressione al dolore sia quella della "dolcezza". Sì, la dolcezza di cui si fa interprete una "presenza amica", magari silenziosa e discreta nella nostra vita, che sa però non esasperare la nostra tensione, che sa accet­tare le nostre lacrime, che sa farci sentire tutta la vicinan­za di un cuore che è profondamente "vicino" e carico di intimità.

È la presenza di qualcuno che sa aspettarci lungo il sentiero che si è fatto affannoso e ci ha tolto il respiro e forse anche la voglia di camminare.

È la delicatezza di chi sa che il dolore e la sofferenza umana non si cancellano, ma si possono portare meglio, se "condivisi".

È una presenza di fedeltà e gratuità che auguro a cia­scuno di poter incontrare lungo il cammino della propria vita.

Di simili presenze, in fondo, ne basta anche una sola, perché in essa si rispecchia totalmente la parola rivolta da Dio al profeta Issata: «Ricorda, se anche una madre si dimenticasse di suo figlio, io non ti dimenticherò mai; perché porto il tuo nome disegnato sul palmo delle mie mani» (Isaia 49,15-16).

E qui che la Sofferenza "purificata" diviene Speranza consolata".



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